Duilio Cambellotti (Roma, 1876 -1960) Trittico della Marcia su Roma, 1933, pannello centrale, Ragusa, Palazzo del Governo
Il nostro novecento - Capitolo 15
di Tito Giraudo
15. Un pranzo al convento
Quel 1921 che stava volgendo al termine, per Pietro fu l’anno della quiete dopo la tempesta. Il suo eremo si chiamava Olivetti. Il suo padre superiore Camillo. Dalla finestra del bugigattolo, mentre cristonava montando e smontando la macchina per scrivere, vedeva Monte Navale e il convento. Tutto sembrava molto sfumato. L’atmosfera che si respirava in quella fabbrica era lontana mille miglia da quella della Fiat, soprattutto dal clima politico torinese.
Pietro era ormai diviso tra due amori: Mario e Camillo. In qualche modo entrambi avevano costituito la famiglia agognata e mai posseduta. Mario era un fratello maggiore che in qualche modo l’aveva adottato e inserito in un mondo politico che lo appassionava, facendolo sentire a pieno titolo nella società. Si era scoperto ambizioso e i suoi limiti culturali erano mitigati dall’istinto e da un’intelligenza viva. Camillo gli stava consentendo il riscatto economico e sociale, oltre a essere quella figura paterna che non aveva mai conosciuto.
Ma veniamo allo sviluppo dei fasci di combattimento: credo valga la pena approfondire quello che stava succedendo. Nonostante le perplessità su molti compagni di viaggio e in particolar modo sulla presenza di De Vecchi, Mario fonda con Pietro e pochi altri il Fascio di Torino. La componente interventista, sindacalista e rivoluzionaria è sicuramente il primo nucleo; a questo si affiancano elementi della piccola e media borghesia torinese cosiddetta benpensante. Avvocati, impiegati e anche qualche operaio, quelli contrari al massimalismo del movimento operaio della città.
Cesare Maria De Vecchi non si fa vedere alle prime riunioni: lui e Gioda sono incompatibili. Mario certamente non è più anarchico, ma è sempre un idealista di sinistra, abituato a combattere con la penna e le idee. L’altro, imbevuto di nazionalismo, borghese fino al midollo, con un’autostima immotivata, è scaltro e pronto ad adeguarsi al mutare degli scenari politici. Mussolini, dal canto suo, non sembra dare soverchia importanza strategica ai fasci di combattimento, che per un anno vivacchiano. Solo a Milano, attorno a Il Popolo d’Italia, si cerca di far politica sfruttando il movimento, più per avere una sigla dietro le spalle che come scelta strategica di lungo periodo. Un fenomeno imprevisto e imprevedibile, lo squadrismo, scompaginerà la lenta crescita del fascismo che, fino ad allora, non era andato oltre quella violenza verbale propria del mondo politico alternativo al potere.
Tra i teorici violenti ci furono certamente i Futuristi, e tra i reduci frange fanatiche e avventuriere, ma erano fenomeni relegati alla difesa attiva. I socialisti, con la sola esclusione dei riformisti e di una parte dei sindacalisti, consideravano la situazione politica di tipo prerivoluzionario, basandola sulla combattività operaia e quella contadina. Parallelamente a queste spinte le sinistre, e in genere i movimenti popolari (cattolici e repubblicani), avevano ottenuto grandi successi elettorali soprattutto nelle regioni del centro nord, tanto che si sarebbe potuto benissimo perseguire la via parlamentare al potere.
L’Italia liberale era tutt’altro che unita, non esistendo in quella direzione un corpo sociale coeso. I grandi agrari del Sud, i baroni, si erano auto indeboliti per incapacità. Quelli del Centro e del Nord avevano subìto il contropotere delle Leghe e delle Cooperative, le quali si erano potute sviluppare anche grazie alla politica riformista del lungo periodo giolittiano. L’emarginazione del riformismo socialista, la gara tra i socialisti su chi era più massimalista, e il modello sovietico, ricompatteranno non solo la destra economica ma anche i ceti medi, ai quali le sinistre prestavano pochissima attenzione. Nel triangolo industriale nasceva la Confindustria e si andava consolidando una maggiore attenzione da parte degli agrari, più interessati a quel fenomeno nuovo che è il fascismo.
Si direbbe che inizialmente lo squadrismo volesse contrapporsi al massimalismo, soprattutto per motivi nazionalisti. Lo scontro tra patrioti e antipatrioti fu sicuramente provocato dagli eccessi di una certa sinistra e, come spesso accade, colpendo gli obiettivi sbagliati a livello popolare. C’erano stati errori e orrori macroscopici in quella guerra, ma questi erano imputabili più alla debolezza della classe politica dominante che non all’interventismo in generale. La guerra aveva generato infine un altro fenomeno. Un conflitto in cui erano coinvolti milioni di combattenti aveva bisogno di ufficiali. Quasi tutti coloro che avevano un’istruzione sufficiente si trovarono in posizioni di comando, anche se erano in gran parte persone che non avevano mai comandato. A guerra finita si trovarono non solo disoccupati, ma vilipesi. Fu quindi naturale la loro aggregazione al primo fascismo.
Lo squadrismo focalizzò anche l’attenzione interessata degli ambienti agrari: saranno soprattutto i figli di questi ad aderire ai fasci. I fondatori locali non erano agrari, ma provenivano dal socialismo interventista, dal sindacalismo, dai repubblicani e dal nazionalismo. In queste regioni il socialismo e il sindacalismo avevano dato vita a un sistema economico alternativo, iniziato almeno quaranta anni prima e ormai consolidato. I grandi agrari erano sulla difensiva. Avevano dovuto fare più di una concessione. Non tanto direttamente ai “rossi”, quanto alle mediazioni governative, a Giolitti e alla sua politica di cauto ma costante riformismo sociale. I tempi erano cambiati, si erano formati nuovi soggetti. Piccoli proprietari e mezzadri che non avevano nulla da spartire con i grandi proprietari, ma da parte socialista si parlava sempre di rivoluzione e di collettivizzazione delle terre.
Se al Nord prendere le fabbriche agli industriali non scandalizzava quasi nessun operaio, i contadini vedevano invece nella proprietà della terra l’unico vero obiettivo per la loro emancipazione. Se ne accorgerà il compagno Stalin quando, per consolidare definitivamente il suo potere, sterminerà milioni di kulaki, più o meno simili ai piccoli proprietari. Questi nuovi soggetti produttivi sentiranno quel socialismo sostanzialmente nemico e al momento opportuno lo dimostreranno.
Mussolini di fronte allo squadrismo agrario si mostra preoccupato. Quel fenomeno è nato sulla terra che lo ha visto nascere e crescere politicamente. Sa che gli agrari useranno strumentalmente lo squadrismo per cercare di liquidare il potere delle leghe e delle cooperative; sa che a risultato acquisito rientreranno nell’alveo della destra parlamentare, scaricando i temporanei alleati. Mussolini di fronte a questo fenomeno si muove in modo contraddittorio, capisce che quello squadrismo dà visibilità al fascismo, ma ne coglie pure i pericoli reazionari.
Ha inizio così un braccio di ferro tra il Duce e i ras, come amavano autodefinirsi. Mario e Pietro non avranno dubbi a schierarsi con Benito. De Vecchi che non è uno sprovveduto, considerando Gioda e i camerati sostanzialmente dei rossi, cerca di imitare i ras in una città come Torino, dove è ancora difficile mettersi contro il socialismo e la classe operaia, tuttora unita. Nel frattempo il movimento è cresciuto. Da pochi tapini, i fascisti sono diventati centinaia di migliaia e i fasci numerosissimi in tutta l’Italia, soprattutto in quella centrale e settentrionale. Si sta inoltre realizzando un fenomeno determinante, quello dei fiancheggiatori. Prefetti, poliziotti, militari, giudici, ai quali si aggiungono i giornalisti della stampa borghese. Tutti intenti a non vedere quello che succede nello squadrismo. Insomma, una fetta dello stato e della cosiddetta intellighenzia, vede nel fascismo l’unico argine alla minaccia socialista.
Mussolini è di fronte a un fenomeno che rischia di prendergli la mano. Difficile valutare se la preoccupazione maggiore sia l’imborghesimento del suo movimento, oppure la disapprovazione dei benpensanti moderati, che guardano con simpatia al fascismo politico, ma diffidano dello squadrismo. Cerca quindi di inquadrarlo politicamente, convocando grandi adunate provinciali dove vengono presentate relazioni atte a creare una piattaforma politica su cui essere tutti uniti. È il primo tentativo di illustrare un’ideologia unitaria a un esercito che non sa bene per chi e per cosa combattere, a parte l’odio per il nemico. I ras, di fronte a questa strategia, non possono certamente sottrarsi.
Un’altra brillante operazione Mussolini la compie in vista delle imminenti elezioni politiche, convincendo tutti che i fascisti devono presentarsi nel listone nazionale promosso dall’ex nemico Giovanni Giolitti: ciò consentirà a quarantacinque camerati (tra cui quasi tutti i ras) di entrare in parlamento. Se le elezioni gratificano i fascisti, non vanno altrettanto bene per i socialisti, che per la prima volta perdono voti. Si rafforzano invece i popolari che Don Sturzo ha fatto diventare un vero partito. A conti fatti l’uomo di Dronero, pur avendo la maggioranza per governare, ha alleati troppo eterogenei e quindi si dimette. Gli succederà Bonomi, che deciderà di mettere ordine e pacificare il paese, con le buone o con le cattive.
A questo punto Mussolini rompe gli indugi: è troppo politico per non capire che la situazione venutasi a creare porterà il movimento a una dura contrapposizione, in grado di alienargli le simpatie della borghesia e degli industriali. Alla camera, pertanto, lancia l’idea di un patto di pacificazione con la CGIL e i socialisti. La proposta scoppia come la bomba del Diana, soprattutto nello squadrismo dei ras che, pur non accusando direttamente Mussolini di tradimento, organizzano una fronda neanche tanto sotterranea. Si riscopre D’Annunzio in antitesi a Mussolini e si infittiscono le azioni squadriste. Nascono gli arditi del popolo, contraltare armato della sinistra. Chi le dà, deve prepararsi a prenderle. Avvengono nel frattempo episodi che avveleneranno la situazione. La bomba anarchica al teatro Diana di Milano farà morti e feriti tra donne e bambini. A Sarzana gli abitanti risponderanno duramente a un assalto di cinquecento squadristi, con l’appoggio (una volta tanto) della polizia. I rossi non sono certo dei cherubini, e gli squadristi si ritireranno da Sarzana lasciando sul campo diciotto morti e decine di feriti.
Siamo nel ’21: leggendo le statistiche di quei mesi ci si avvede che i morti, i feriti e i denunciati incominciano a equilibrarsi. Benito tiene duro, deve fare il compromesso con i ras e ci riuscirà. A parte Farinacci e Marsich, il ras del basso Veneto che poco dopo si autoeliminerà, gli altri si adeguano. Soprattutto Grandi, il ras di Bologna, che da posizioni intransigenti opera una sua svolta moderata che lo inquadrerà definitivamente nel fascismo legalitario.
D’Annunzio dal canto suo, poeta ed eroe, certamente non è un politico. Mussolini riuscirà a blandirlo, eliminando “dolcemente” l’unico concorrente temibile. Rimarrà il solo Farinacci, ras di Cremona. Il prezzo pagato da Mussolini per la riconciliazione interna è la pacificazione con i socialisti, i quali gli facilitano il compito non guardando le carte di quel giocatore d’azzardo. I riformisti, troppo timidi e incerti, non raccoglieranno neppure loro il ramoscello d’ulivo. Mussolini potrà quindi uscire da una situazione molto critica affermando, a giusto titolo: «Volevo metterli d'accordo, ma non ci sono stati!» Salverà per il momento il patto con il sindacato, molto più duttile e con pochi sogni rivoluzionari. Verso la fine del ‘21 si svolge il congresso dei fasci di combattimento. Le tesi saranno, a parte Farinacci, Marsich e pochi altri, pressoché unitarie. Ma Mussolini e i fascisti della prima ora si scorderanno il fascismo rivoluzionario di sinistra. Nato il Duce, nasce il Partito Nazionale Fascista.
Ma torniamo alla nostra vicenda. Si è appena svolto il congresso fascista di Roma dove c’è stata una svolta importante, il movimento si è trasformato in partito. Mario, che è il segretario del fascio di Torino, naturalmente c’è stato e ha parlato. Pietro impegnato a Ivrea ha dato forfait.
L’ingegnere un mattino gli chiede se ha notizie di quanto avvenuto, e lui gli risponde di non avere ancora parlato con Mario. Camillo lo invita allora a pranzo per la domenica, e Pietro gli chiede se può estendere l’invito al suo amico Lelli, per sapere come vanno le cose in Fiat. In fondo è orgoglioso della sua nuova sistemazione e dell’amicizia con Camillo, che molti amici e camerati ritengono una mezza balla. Piccole e comprensibili debolezze. Camillo non solo acconsente, ma estende l’invito anche alle mogli. Telefonano quindi a Gioda che accetta volentieri, sia per rivedere Pietro, sia per mantenere i rapporti con Camillo. La domenica mattina Mario e Lelli, con le rispettive signore, prendono la macchina della Federazione e raggiungono Ivrea. Pietro e Camillo li aspettano al Convento, all’epoca una specie di masseria dove la famiglia Olivetti, quando ospita degli amici, prepara pranzi campagnoli e informali.
A pranzo ci sono tutti. La moglie dell’ingegnere e i figli (manca il solo Adriano, rimasto a Torino dove sta terminando il Politecnico). In presenza delle signore non si parla di politica. Camillo allora mette al corrente Mario degli sviluppi della sua azienda, fiero del nuovo modello di macchina per scrivere e dell’organizzazione delle filiali che vanno estendendosi in quasi tutto il paese e anche all’estero. Quell’anno apriranno i negozi di Parigi e Londra. A fine pranzo la signora Olivetti propone alle sue ospiti di lasciare soli gli uomini e raggiungere a piedi la villa a Monte Navale per prendere un caffè. Gli uomini potranno così finalmente parlare di politica.
«Tenevo molto, caro Mario – inizia Camillo, – a questa tua visita! E non solo per il piacere di rivederti! Ti confesso che quanto ho letto del vostro congresso mi ha fortemente interessato. Vedo un tentativo di Mussolini di imbrigliare il fascismo agrario, che ritengo estremamente pericoloso. Ma non volendo avere una visione superficiale degli avvenimenti, e ritenendo che tu voglia illustrare gli ultimi sviluppi della situazione al povero Pietro, “schiavizzato” da questa azienda, ti pregherei di informarmi su quanto è successo, naturalmente nei limiti di quello che potrai dire a un non fascista come me.»
«Ingegnere, – esordisce Gioda, – Lei sa la stima umana e politica che nutro per lei, anche per quanto sta facendo per l’amico Pietro.»
«Pietro merita questo e altro, – risponde Camillo, ma ti prego dammi del tu! Non riesco a convincere Pietro a farlo. Almeno tu, che sei più vecchio e adesso anche un uomo importante, sarei felice ti rivolgessi a me come se fossimo ancora due compagni socialisti.»
«Ne sono felice, lo sai che molti fascisti e lo stesso Mussolini sono e si sentono compagni.»
«Speriamo che le nostre strade non si avviino in direzioni contrapposte, – l’interrompe Camillo. – Ma, dimmi, è esatta la mia impressione che la trasformazione del movimento in partito rappresenta una svolta moderata del fascismo di Mussolini? Ho creduto di intravedere, in questo ultimo anno, una divisione abbastanza netta tra due fascismi: il vostro, e dello stesso Mussolini, di sinistra, soprattutto politico e preoccupato della piega presa dallo squadrismo violento. L’altro, nei fatti, di destra e reazionario. Anche se molti capi si rifanno allo pseudo sinistrismo avventurista di D’Annunzio, in realtà appoggiano le tendenze più reazionarie di una certa borghesia latifondista. Ma io, caro Mario, sono un esterno e giudico come tale. Sarei perciò veramente lieto di sapere come la pensi tu, e come stanno veramente le cose...»
Mario non si fa pregare: «Fammi fare un passo indietro. Nel ‘19, quando con Benito costituimmo i fasci di combattimento, quello era il nostro programma rivoluzionario di sinistra. Ciò nonostante, siamo stati messi al bando dalla faziosità massimalistica dei socialisti. Le ferite dell’interventismo non si sono rimarginate nemmeno dopo la guerra vittoriosa. Il successo elettorale dei socialisti e, diciamolo pure, la nostra sconfitta alle elezioni, in quei pochi posti dove ci eravamo presentati, hanno fatto il resto. Siamo quindi rimasti isolati, anche se portatori di una politica di riconciliazione nazionale e patriottica. I socialisti, esaltati dalla vittoria elettorale e dal mito di una rivoluzione straniera, hanno provocato nel paese le cose che sai. Violenza, non tanto verso di noi, ma verso i reduci di guerra. Poi gli scioperi, senza nessuna connotazione squisitamente sindacale, ma rivolti alla dichiarata conquista del potere e all’eliminazione della proprietà privata, delle terre e dell’industria. Tutto questo ha fatto nascere una grande paura, non solo in quella borghesia che tutti noi abbiamo sempre avversato, ma in quella nuova, dinamica e laboriosa di cui tu Camillo sei l’esempio più luminoso!»
«Non esagerare» si schermisce Camillo.
«Tornando ai Sansepolcristi, quel giorno mi accorsi che la gran parte dei partecipanti non erano mussoliniani, ma nazionalisti e futuristi. Quando poi vidi De Vecchi rimasi di sasso. Che ci faceva un monarchico in mezzo a noi? E, soprattutto, come faceva uno come lui a sottoscrivere il nostro programma che, devi darmi atto, era fortemente rivoluzionario e giustamente patriottico? Quella sera Mussolini mi fece capire che se volevamo fare davvero la rivoluzione fascista, avevamo bisogno dell’appoggio di vasti strati della popolazione. Purtroppo anche di coloro che non ci piacevano. Noi eravamo deboli, e i socialisti troppo forti e su posizioni inconciliabili. Caro Camillo, il fascismo come movimento, e non come partito organizzato, ha inevitabilmente lasciato spazio e autonomia a uomini che, nelle varie realtà regionali, hanno fondato i vari fasci. Io a Torino e Mussolini a Milano, come altri camerati nelle realtà cittadine, abbiamo dato la nostra connotazione al movimento. Altri, come i ras di cui ti parlerò, si sono lasciati guidare da chi aveva interesse a contrapporre esclusivamente il fascismo al socialismo, e non a questa classe politica inetta e corrotta.
«Lascia che ti parli dei ras. Non credere, caro Camillo, che siano tutti uguali, e gli avvenimenti di questi giorni lo dimostrano. Dal momento tuttavia che sono tutti Sansepolcristi, e che io ho avuto a che fare con loro fin dall’inizio, cercherò di descriverteli. Iniziamo da quello di Ferrara, Italo Balbo. È un ex repubblicano, iscritto alla massoneria, in guerra è stato pluridecorato, è un personaggio simpatico un po’ sbruffone. Tra i ras è quello che mi piace di più. Anche lui è finanziato dagli agrari, ma è riuscito ad avere consensi anche dai piccoli proprietari e dai mezzadri. Non contesta i padroni delle terre, e fa una politica rivendicazionista nei confronti del governo, anche quello locale.
«Lo stesso potrei dire di Grandi. È di Bologna, è stato eletto deputato nel listone senza averne i requisiti, a causa dell’età, e ha pertanto dovuto rinunciare al mandato. È avvocato. Ha avuto una strana parabola. Quando Benito si è dimesso dal comitato centrale in polemica con i ras, ha guidato la rivolta. È stato il primo però a capire che la loro politica era di breve respiro. Avrebbero potuto, una volta fatto il loro mestiere, essere mandati a casa. Nel congresso è stato quello che ha sostenuto Benito, a differenza di Farinacci, il ras di Cremona, quello che ritengo il più pericoloso. L’unico che secondo me pensa seriamente di poter scalzare il nostro duce. Ad ogni modo il congresso ha visto la piena vittoria di Benito.»
«Già – interviene Camillo –, mi pare però una vittoria che ha comportato la rinuncia all’impostazione di sinistra. Il programma dei fasci di combattimento, come vi dissi a suo tempo, mi sembrava velleitario e irrealizzabile, ma cosa c’è di sinistra in quello che ho letto dopo il congresso?»
Camillo toccava un tasto dolente. Mussolini aveva vinto sui ras, ma il prezzo che i fascisti di sinistra avevano dovuto pagare era stato alto.
«Ci penserà il duce a portarli tutti verso le nostre idee» interviene Pietro, dimostrandosi ancora una volta un inguaribile ottimista.
«Parlami della posizione di De Vecchi» incalza Camillo.
«De Vecchi al solito è un Giano bifronte – spiega Mario. – È la spina nel fianco del fascismo torinese.»
«È un porco e un delinquente!» A Pietro, sentire nominare De Vecchi fa montare il sangue alla testa.
«Sì, ma è furbo – lo ferma Mario. – Nei primi tempi, quando ho costituito il fascio di Torino, si è visto poco. Trescava a livello nazionale. Soprattutto aiutava Benito, procurandogli rapporti con il Duca di Aosta, che è di ben altra pasta rispetto al Re. Lui era ed è un fervente monarchico. Quando c’è stata l’inaugurazione del parlamento e Mussolini, coerentemente, decise che i fascisti quel giorno non si sarebbero presentati davanti al sovrano riconfermando così la loro fede repubblicana, apriti cielo! De Vecchi e altri lo hanno contestato e sono andati lo stesso, facendo apparire il fascismo diviso.
«Caro Camillo, De Vecchi, che è uomo di destra legato agli ambienti monarchici e reazionari, mi contesta per le presunte debolezze verso il socialismo torinese. Sull’esempio dei ras ingaggia a Torino nazionalisti e sbandati, affrontandoci non a viso aperto ma con agguati vigliacchi, di dieci contro uno! Incoerentemente poi fa il sinistro, attaccando Agnelli e la Fiat. Ricordate quando portò in piazza i duecento licenziati fascisti dopo l’occupazione delle fabbriche? È comunque andata bene a Pietro che ha preso dei soldini assieme agli altri licenziati.»
«Io non li volevo!» si difende Pietro.
«Naturalmente glieli ho fatti tenere – riprende Mario ridendo, – mica erano di De Vecchi i soldi! Io non contesto il fatto in sé, ma lo spirito. De Vecchi punzecchia Agnelli perché lui lo considera un buffone e un pallone gonfiato, e continua a dirlo un po’ a tutti. Naturalmente vuole fare il ras anche lui, e quindi ci ritroviamo tra i piedi quel Brandimarte che a suo tempo provocò l’aggressione a Pietro. A proposito come va la testa?»
«A sentir parlare di quel delinquente di Brandimarte mi fa di nuovo male!» sbotta Pietro.
«Con Brandimarte – si infervora Gioda, – organizzano delle squadre. Assoldano studenti nazionalisti, disoccupati, spostati e iniziano a fare a Torino come in Emilia e in Toscana. Da vigliacchi però, facendo agguati contro compagni soli, che qualche botta la meritano pure, ma non è così che si devono affrontare! Dieci contro uno!»
«Pensi ingegnere – lo interrompe Pietro, c’è un ragazzo che abita con i genitori vicino a me. Il padre è un comunista ma è una brava persona, lo conosco dai primi giorni che sono venuto a Torino da Ciriè. Questo ragazzo si chiamo Tumà, è disoccupato e per sbarcare il lunario è entrato nelle squadre, dopo aver detto al padre che mi seguiva nel fascismo. Purtroppo ha seguito De Vecchi e Brandimarte. Ma non è un delinquente come loro, e se c’è qualche spedizione contro un singolo compagno mi avvisa sempre. Quindici giorni fa mi ha detto che avrebbero aspettato il compagno Fiamberti, un mio amico, una brava persona che ha il solo difetto di essersi lasciato prendere in giro dai professorini dell’Ordine Nuovo. Anche lui fa il comunista. Ma non farebbe male a una mosca. Sono riuscito ad avvisarlo e quella sera è venuto a trovare me e non è andato in piola dove lo stavano aspettando. Io e Mario, i rossi, li affrontiamo alla pari, da uomini! Siamo squadristi anche noi! Ma non di quella razza lì!»
«Fammi continuare, Pietro, – lo frena Mario. – Allora, caro Camillo, il nostro duce, l’amico Benito, vista la piega degli avvenimenti cerca di inquadrare il movimento, fa elaborare e elabora delle tesi. Io ho dato il mio contributo a quelle sindacali, lui ha scritto quelle di politica estera.»
«A proposito – chiede Camillo, – che mi dici del voltafaccia di Fiume?»
«Mussolini – risponde Mario, – è stato il solo di tutti noi a capire che la battaglia di D’Annunzio era persa. Insistere su quella linea, magari eroica ma estremamente pericolosa per l’isolamento internazionale che ne derivava, era inutile e controproducente per tutti. Coraggiosamente ha appoggiato Giolitti, inimicandosi certamente i Nazionalisti. Ma erano ancora gli albori del movimento e la cosa si è rivelata saggia, considerato il risultato elettorale del fascismo dopo la partecipazione al blocco giolittiano alle elezioni. Il duce sta giocando su uno scacchiere complesso. Io stesso fatico a tenergli dietro, e solo dopo aver visto i risultati strategici mi rendo conto della sua genialità politica. Ma lasciatemi continuare il discorso e parlare del patto di pacificazione. Questo secondo me è un atto di grande coraggio di Benito. Quando si è reso conto che il fascismo dei ras avrebbe condannato il movimento, non ha esitato a prendere posizione. Non so se avete letto i suoi articoli su Il Popolo d’Italia in proposito.
«Quando scrive che: “Il padre ha il dovere si usare la verga sul figlio” alludeva proprio a Grandi, Farinacci, Balbo, Marsich. Quando costoro lo hanno sfidato apertamente, ha avuto il coraggio di dimettersi dalle più alte cariche del movimento con il camerata Cesare Rossi. So per certo che i ras sono andati da D’Annunzio chiedendogli di diventare lui il duce del fascismo, ma il poeta stava già sognando un’altra impresa e non è stato tanto sprovveduto da seguire quei camerati appiattiti sulla violenza fine a se stessa.»
«Già! Ma che fine ha fatto il patto di pacificazione?» chiede Camillo.
«Leggi L’Avanti! di quei mesi, nel momento in cui stanno trattando con noi con la mediazione governativa del presidente della Camera De Nicola. Il giornale sputa disprezzo, ci dà per irrimediabilmente scissi e quindi destinati a morte certa. Gramsci su L’ordine Nuovo, pur non essendo così rozzo, insiste sulla tesi che noi rappresentiamo unicamente una parte della piccola borghesia. È l’unico che ha capito che gli industriali non sono fascisti, ma anche lui ci dà per spacciati. A questo punto avviene la svolta, parte da Grandi. Il suo fascismo non è soltanto agrario e reazionario ma è soprattutto sindacale, lo stesso possiamo dire di Balbo. Nelle loro zone non hanno organizzato solo le squadre ma anche i lavoratori. Alle leghe e alle cooperative rosse distrutte, hanno sostituito leghe e cooperative fasciste, magari non in contrapposizione con gli agrari, ma in giusta collaborazione. C’è posto per tutti, fuorché per il collettivismo comunista!
«Arriviamo al congresso. Mussolini capisce la debolezza politica dei ras e tende loro la mano, denuncia la cecità dei socialisti e il loro rifiuto al patto. Tiene la porta aperta nei confronti dei sindacalisti e dei riformisti, quando questi ultimi si decideranno a uscire dal limbo. Il movimento al congresso si trasforma quindi in un partito organizzato, si torna a fare politica.»
Camillo ha lasciato parlare Mario senza interromperlo. Si alza, prende una bottiglia di cristallo che contiene cognac francese, lo versa in bicchieri panciuti che Pietro vede per la prima volta in vita sua, e lo offre a quegli amici a cui vuole bene, ma che considera politicamente ingenui. Naturalmente è troppo educato, e forse anche lui incerto, per contestare la visione ottimistica del fascismo di Mario. In questi ultimi anni Camillo ha vissuto la lotta politica dall’esterno. Preso dalle sue creature industriali, i suoi furori politici giovanili si sono stemperati. Pur conservando i rapporti con il socialismo riformista, ne capisce i limiti e l’impotenza. Mussolini e il fascismo non gli sono congeniali, la svolta dello squadrismo lo indigna. Pur non approvando i metodi socialisti, pensa che la cura reazionaria sia peggio della malattia. Cercherà di ragionare a voce alta per sé e per i suoi amici.
«Per mia natura, caro Mario, cerco sempre di ragionare sulle cose, non lasciandomi trascinare dalle passioni come in gioventù. Mi sono estraniato dalla politica attiva per un’impresa che ritengo altrettanto importante. Riesco forse a pensare, scusami, un tantino più lucidamente di chi, come te, vive la politica giorno per giorno, non solo con la testa, ma anche con le emozioni. Vi ho seguiti in questi ultimi anni con attenzione. Secondo me, socialismo e fascismo sono la faccia della stessa medaglia, non sono tra quelli che considerano il fascismo ideologicamente reazionario. Mussolini era ed è rimasto un rivoluzionario. La sua maturazione o involuzione, a seconda da dove la si osserva, non è stata meramente nazionalista e guerrafondaia come vogliono far credere a sinistra. La sua esperienza milanese come direttore de L’Avanti! gli ha fatto comprendere l’esistenza di un mondo diverso da quello del socialismo contadino della sua Forlì. Milano, ancora più di Torino, è la prima espressione di integrazione dell’Italia con l’Europa. Comunque sono due città entrate nella modernità internazionale, che stanno vivendo il travaglio della rivoluzione industriale, anche se in ritardo rispetto al resto del mondo. Mussolini era troppo intelligente, duttile e sensibile e, permetti Mario, forse ambizioso, per non capire che quel socialismo non lo portava da nessuna parte. La svolta interventista gli ha permesso il legame con quella borghesia produttiva che lui percepisce come novità avulsa dal vecchio ordine politico. Se fossimo in un paese normale, Mussolini sarebbe diventato riformista, ma i vecchi rancori non hanno consentito questo avvicinamento, non solo per il carattere dell’uomo di Predappio, ma soprattutto per la timidezza e l’inconsistenza operativa di Turati e compagni.
«Mario, io ti ho osservato come ho osservato Pietro. Anche voi avete intuito, forse inconsciamente, l’evoluzione di questo paese, l’enorme differenza tra il mondo contadino e quello industriale. Quando tu, Mario, hai cambiato lavoro e sei andato a fare l’impiegato alla Reale Mutua Assicurazioni, hai conosciuto un microcosmo sociale diverso, quello della piccola borghesia che quand’eri anarchico forse disprezzavi, ma che a ben vedere è portatrice di valori da non sottovalutare: il lavoro, l’ordine, il decoro. Lo stesso hai fatto tu, Pietro, quando dalla campagna sei venuto in città e sei diventato operaio. Dato che sei intelligente, hai colto l’enorme differenza che l’industria rappresenta. Sei stato anche tu socialista rivoluzionario perché in fondo lo spirito di classe è sacrosanto, ma quando la rivoluzione voleva distruggere la vera fonte dell’emancipazione operaia, il lavoro nuovo dell’industria, ti sei ribellato. Quando il sindacalismo e il socialismo rivoluzionario, sull’onda della rivoluzione russa, hanno partorito l’assurda teoria della dittatura del proletariato, avete capito che quella non era la strada giusta e avete seguito il vostro amico Mussolini nei fasci di combattimento. Se mi permettete una critica, quel programma era “nazionalcomunista”, non il frutto di una vostra evoluzione politica e sociale, ma il mantenimento di tradizioni populiste rivoluzionarie.
«Quando è nato e si è sviluppato lo squadrismo, tu e Pietro lo avete vissuto con la pancia e non con il cervello. Tu, Mario, mi hai parlato dei ras. A guardarli bene nessuno di loro è di destra, tutti vengono dal socialismo, dai repubblicani o dal sindacalismo. Qui, cari amici, nasce l’imprevedibile. Questo paese in perenne ritardo con la storia, partorisce un figlio adulterino nato da un matrimonio dove il padre è il capitalismo e la madre, che dovrebbe essere la classe operaia, è invece la piccola borghesia, moltiplicatasi e ideologizzatasi con il nazionalismo nato dalla guerra. Il grande limite del socialismo italiano è di non avergli saputo parlare, soprattutto di non aver elaborato una politica di compromesso. Il risultato? In Europa, dove la borghesia consuma il matrimonio con i socialisti, nasce la socialdemocrazia che, a mio parere, in futuro andrà al potere democraticamente e senza scosse. In questo paese di contraddizioni violente, invece siete nati voi.
«Io sono meno ottimista. Voi vivete la situazione di Torino, dove i rapporti di forza tra voi e lo squadrismo violento credo si equivalgano. La tua posizione di segretario del fascio, limita l’influenza di De Vecchi. La svolta troppo moderata di Mussolini invece mi preoccupa, avrà bisogno sempre più di gente come De Vecchi. I ras difficilmente lasceranno la via della violenza. Mario, non abbiamo parlato del congresso socialista. Qui, secondo me, sta la chiave dei pericoli che corre la politica mussoliniana. Tutti ci aspettavamo che Turati e i riformisti uscissero dal partito con una linea chiara ispirata al riformismo europeo. Invece abbiamo assistito a una sciagurata scissione a sinistra. Non bastava il massimalismo della maggioranza del partito: la corrente comunista, quella più vicina all’internazionalismo leninista, ha spaccato il capello in quattro e ha fondato ufficialmente il Partito Comunista. Una vera tragedia! Non tanto per l’avvenuta scissione a sinistra quanto, a mio parere, per il mancato distacco dei riformisti, che prima o poi avverrà. Questo adesso sta impedendo la formazione di un governo che abbia l’appoggio dei tre partiti popolari, i socialisti, i popolari e voi, cari amici fascisti.
«Personalmente sono convinto che Mussolini creda molto di più a questa prospettiva che non allo squadrismo. Anche se questo gli dà visibilità, prima o poi le componenti teppistiche alieneranno le simpatie di quell’opinione pubblica che, passato lo spavento rosso, volterà la schiena anche al fascismo. Vogliamo tutti quanti che l’attuale classe politica al potere riprenda i vecchi giochetti? Sapete cosa mi spaventa del vostro amico Benito? Il suo tatticismo, che spero non sia semplice opportunismo. Non mi sembra un opportunista, altrimenti a suo tempo, non avrebbe scelto l’interventismo.»
«Caro Camillo – lo interrompe Gioda, – adesso Mussolini sarebbe il leader dei socialisti!»
«Forse hai ragione! Ad ogni modo, Gioda, devi riconoscere che l’asse politico del fascismo, in questo ultimo anno, si è spostato a destra. I ras saranno stati condizionati, ma il prezzo che state pagando è altissimo. Comunque io non sono Cassandra, vi vedo ottimisti sulle capacità del vostro duce. A proposito, chi ha avuta l’idea di usare questo termine che, francamente, mi sembra ridicolo? Tra l’Italia di Giolitti e quella romana mi pare ci sia un abisso incolmabile!»
Mario, per un momento, ritornò l’anarchico di una volta. «Sai, è un frasario dannunziano che è piaciuto un po’ a tutti, e dato che Benito è un vero capo, la cosa ci ha trovati concordi.»
«Cosa ci racconti Lelli, della situazione in Fiat?» chiede a questo punto Pietro, che stentava a seguire i discorsi ideologici e voleva sapere quale fosse la situazione nel suo ex posto di lavoro.
Lelli gli risponde, rivolgendosi a Olivetti. «Ha ragione lei, ingegnere, il congresso di Livorno sta cambiando molte cose. Sembra incredibile, ma tra socialisti e comunisti la tensione è tale che si sono quasi dimenticati di noi. L’adesione al nuovo partito del gruppo dell’Ordine Nuovo ha spaccato il due il sindacato. Quello che più conta è che Santhià e Parodi, che come sai Pietro sono i veri capi del sindacato, hanno seguito i professorini tirandosi dietro molti più operai di quelli che hanno nelle altre fabbriche della città.»
«E quell’utopia del controllo operaio che fine a fatto?» lo interrompe l’ingegnere.
«Anche qui – prosegue Lelli, – sta avvenendo una cosa incredibile! Sono proprio i comunisti che lo stanno affossando. Lo considerano un brutto compromesso di Buozzi e compagni, che ingabbierebbe soltanto la classe operaia. Quando Agnelli, non so se in buona fede ma sicuramente per salvare il salvabile, ha proposto di trasformare la Fiat in una cooperativa, si sono spaventati tutti. I socialisti, perché al di là delle chiacchiere quando devono prendere delle decisioni scappano sempre. I comunisti perché consideravano la cosa troppo riformista e un tranello dei padroni, quindi hanno preferito lasciar perdere. È stato Agnelli ad avere dei guai con gli altri industriali, che non gli hanno perdonato i suoi cedimenti. In una situazione così confusa, Agnelli e Fornaca hanno giocato la carta delle dimissioni. In un primo tempo sembrava che gli azionisti li volessero sostituire, poi pare che le banche, che si fidano solo di Agnelli, gli abbiano fatto cambiare idea. In ogni caso Agnelli è di nuovo in sella e molto più forte di prima. Ha stabilito un patto di ferro con il finanziere Gualino e sta ultimando di costruire la nuova fabbrica al Lingotto.»
«Ti ricordi quella sera a casa di Agnelli quando il figlio Edoardo mi ha fatto vedere i disegni?» dice Pietro a Mario che annuisce. Poi, rivolto a Lelli: «Qual è la posizione di Agnelli nei nostri confronti?»
«Sempre la solita! Fa finta che non esistiamo per non avere problemi con i rossi. Il fatto è che non può vedere De Vecchi. Ha ragione Mario nel dire che De Vecchi, borioso com’è, vorrebbe che Agnelli lo omaggiasse e gli chiedesse aiuto. Non so come finirà tra i due. Speriamo che Mussolini intervenga e faccia star bravo quel balengo, perché di nemici dentro la fabbrica ci bastano i socialisti e i comunisti».
«E i professorini?» incalza Pietro.
«Sono ancora disorientati. Non mi sembra che nel nuovo partito Bordiga gli stia dando troppo spazio. Gramsci mi sembra isolato e Togliatti pare debba andare a Roma per fare il capo redattore del nuovo giornale del PC, Il comunista. Comunque, a parte la Fiat, sono quattro gatti.»
«È strano come delle teste fini come gli ordinovisti – interviene Camillo, – facciano delle analisi politiche tanto astratte. Gramsci è il più lucido nella sinistra, ed è l’unico che non si lasci trasportare dall’odio e tenti un’analisi seria su di voi. D’altra parte, però, rifiuta una strategia possibile, sposando quell’internazionalismo che prende in esame solo quello che succede in Russia. Come se le prospettive del movimento operaio italiano dipendessero unicamente dall’estendersi del bolscevismo in Europa! Gli stessi russi, preoccupati di consolidare il potere all’interno, sembrano non credere molto a un’ipotesi rivoluzionaria su scala europea.»
Finirono il cognac. Raggiunte le mogli a Monte Navale la sera ripartirono. Pietro rimase ancora due settimane, poi l’ingegnere gli disse che era pronto per una nuova avventura. Per lui iniziava un lavoro nuovo e un’altra vita.