The steady rhythm of three long-distance runners. From a Panathenaic amphora made in 333 BC (British Museum)
42,195 km di corsa!
di Graziano Saibene
Il primo che ci ha provato era un soldato ateniese, che voleva solo portare il più presto possibile ad Atene la notizia della vittoria nella battaglia di Maratona sui fortissimi Persiani, ed è passato alla Storia, ma ci ha rimesso la pelle proprio sul traguardo, appena dopo aver comunicato il suo messaggio.
Dopo di lui l'hanno fatto anche altri milioni di uomini e donne, correndo la stessa distanza in gare organizzate in ogni parte del Mondo, quasi sempre attratti dalla voglia di mettersi alla prova, in una attività fisica certamente estrema, soprattutto se affrontata senza la dovuta preparazione.
Ci ho provato anch'io: qui ne scrivo, non per testimoniare imprese e risultati (assai modesti, e quasi sempre al di sotto delle mie aspettative), ma per evidenziare alcuni benefici, del tutto insperati, che ho continuato a riscontrare anche a trent'anni di distanza dal completamento della mia decima e ultima maratona.
Divento “maratoneta” quasi per caso, anche se devo ammettere di aver dedicato in gioventù (e anche più avanti con gli anni) alle attività sportive molto del mio tempo libero: ma erano sempre state, fin da piccolo, solo del tipo “ludico”, previlegiando i giochi con la palla, - calcio e calcetto, pallacanestro e tennis, senza peraltro tralasciare gli sci, per riempire i lunghi inverni che ci sono dalle mie parti.
Catapultato in Brasile alla soglia dei quarant'anni, mi riprende una ovvia voglia matta di calcio, abbandonato da anni, per rottura e perdita del legamento di un ginocchio. Ne parlo con alcuni calciatori “veri”, che mi capita di frequentare sulla spiaggia di Copacabana. E questi mi spingono a provare a correre a piedi nudi sulla sabbia, così come loro hanno fatto fin da piccoli, con il risultato di ritrovarsi ginocchia “infrangibili” perché opportunamente protette sui lati da fasci muscolari rinforzati.
La cosa mi convince, e ci provo: correre sulla sabbia in riva al mare comincia a piacermi, e quando scoppia anche a Rio la “moda” delle maratone, mi infilo in un gruppo guidato da medici sportivi sponsorizzati dal “Journal do Brasil”, il cui direttore della sezione sportiva, Inácio Werneck, dall'inizio degli anni 80 cerca di “internazionalizzare” la Maratona di Rio de Janeiro, sulla scia del successo crescente di quelle americane, soprattutto Boston e New York, con tutto il loro contorno di eventi.
I medici corridori/allenatori, che un po' ci guidano negli allenamenti e un po' ci usano come cavie, sono quasi tutti reduci da master negli Stati Uniti, e riversano su di noi, neofiti alle prime esperienze di impegni fisici prolungati, le nuove nozioni acquisite nel loro curriculum di studi, sottoponendoci agli intensi allenamenti previsti dalle loro tabelle, ma anche a ricorrenti controlli e analisi cliniche: fondamentale l'ecocardiografia sotto sforzo, imprescindibile per chiunque voglia iniziare a fare attività fisica. Fino ad allora non ne conoscevo esistenza e utilità. Così come ignoravamo tutti che correndo aumenta vistosamente anche la febbre (che supera di molto i 38ºC, al punto che qualcuno suggerisce la corsa prolungata - con la conseguente febbre indotta – per accelerare la guarigione dai lievi malanni da raffreddamento!).
Ci hanno anche dispensato spesso altre preziose pillole di saggezza, rivolte alla cura della nostra salute fisica e mentale.
Solo per fare qualche esempio, cito la convocazione all'istituto di anatomia patologica dell'università, per farci confrontare dal vero le differenze evidenti dello stato del polmone di un fumatore con quello di un non fumante. Invitando i pochi che ancora non avevano rinunciato alla sigaretta ristoratrice anche alla fine dell'allenamento a provare a smettere di fumare per qualche tempo, saggiando i nuovi tempi di recupero delle pulsazioni normali, dopo una sola settimana di astinenza.
Confesso che prima di buttarmi in questa esperienza, avevo comunicato la mia intenzione ad un amico monzese, mio vero guru per tutti gli sport in cui eccelleva, che frequentavo da anni, sia sui campi di sci, che di calcio e, più tardi, sulle strade in bicicletta da corsa: mi ha spedito subito una tabella assai dettagliata, che alla prima lettura mi era sembrata terrificante. C'era il programma di allenamento giornaliero, per i 4 mesi precedenti la “prova” (la partecipazione alla mia prima maratona vera, di 42,195 km). Solo per darne un'idea, bisognava progressivamente arrivare a completare settimanalmente fino a oltre 100/120 km, distribuiti in 6 giorni fra distanze brevi (da 8 a 12 km) e lunghe (2 volte oltre i 15, di cui una oltre 20, e poi 30-35!).
Anche i miei allenatori di Rio consigliavano schemi analoghi, chiarendo che sarebbe stato determinante seguirli alla lettera, per ottenere un buon risultato senza soffrire problemi.
Quanto al “risultato”, cioè al responso cronometrico ottenuto al traguardo, questo doveva essere programmato secondo le proprie capacità reali, basate sul “passo” che si era in grado di mantenere il più costante possibile lungo le ore della prova. Vista così, la corsa della Maratona non sarebbe stata una gara contro gli altri partecipanti, o contro il tempo, ma solo una verifica delle proprie capacità, migliorate dai costanti allenamenti.
Ma allora dov'è il bello di tutta 'sta faticata, per tutti coloro che non corrono per vincere, che non sono inclusi nella piccola élite dei corridori professionisti?
L'ho scoperto quasi subito, fin dalle prime settimane di allenamento.
Succede che, praticando una qualunque attività “aerobica” (correndo, pedalando, nuotando, remando) dopo una ventina di minuti sforzandosi al limite delle proprie capacità, entrano in circolo le benemerite endorfine. Le quali avranno pure altre funzioni, tipo anestetizzare in parte dai piccoli dolori muscolari o facilitare l'ossigenazione del sangue, ma – ed è proprio qui il “meglio” - danno contemporaneamente un benefico effetto di estasi al cervello, come capita con l'assunzione di parecchie altre “sostanze” non sempre raccomandabili. Si ignorano quindi i primi sintomi di stanchezza e si continua a mantenere il ritmo per tutto il tempo previsto, anzi bisogna stare attenti a non entusiasmarsi troppo, e resistere alla tentazione di accelerare, per non rovinare tutto e magari crearsi qualche spiacevole inconveniente.
A lungo andare questa cosa finisce per creare una vera e propria dipendenza, cioè ogni giorno si sente il bisogno di ricrearne le condizioni, in parole povere si finisce per “drogarsi”, non si può più fare a meno di correre (o nuotare, pedalare, ecc.). E così si riesce a completare senza troppi intoppi il programma degli allenamenti, e si arriva più o meno pronti al giorno della Maratona.
La prima è stata emozionante per forza di cose, c'erano le incognite della novità. Come il temuto apparire del “muro” dopo il fatidico km 32: cioè quando avviene il cambio fisiologico della fonte di approvvigionamento delle risorse di energie, dai grassi sparsi a quelli dei muscoli, con effetti repentini di sensazioni negative, oltre che effettivo calo di zuccheri, e quindi della voglia di continuare a correre. Ma ho subito imparato a gestire le mie “crisi”, a bere correndo, a contare le pulsazioni, sempre senza rallentare il passo, e quindi a dosare fino alle ultime gocce le risorse energetiche. E arrivare stremato ma non del tutto, pesando fino a 4 kg meno che alla partenza, pur avendo ingerito almeno la stessa quantità di liquidi durante il percorso.
Dopo il “battesimo”, ci ho provato ancora. Per le successive è bastato un lavoro di manutenzione, senza pretendere troppo.
E alla mia terza volta, ho voluto correre quella che probabilmente non dimenticherò mai: la maratona più affascinante (come sanno tutti quelli che ci vogliono provare almeno una volta), quella di NY, vero evento sportivo dell'anno per la città, che si blocca e partecipa in massa: quartiere dopo quartiere, esibendo ciascuno la caratteristica, ben variata, miscela etnica, schierata a incentivare i corridori, con orchestrine o bande jazz, offrendo cibi e bevande e sostegno a quelli in chiara difficoltà.
Senza dimenticare l'incredibile (per consistenza e professionalità) staff di appoggio distribuito lungo tutto il bellissimo percorso, e ancor più all'arrivo a Central Park. Ciò finisce per contaminare ed emozionare ancor più i corridori, che già in quegli anni erano diverse migliaia, con file d'attesa per iscriversi oggi pressocché insuperabili.
Come ho accennato all'inizio, sono passate varie decadi da quelle esperienze. Che non sempre erano approvate o raccomandate dalle persone, più o meno competenti, che si sono prese cura negli anni della mia salute.
Ovviamente anch'io sono invecchiato e maturato, e dall'”alto” della mia ormai abbastanza lunga esperienza di vita, posso ora permettermi di tracciare qualche conclusione. Senza pretendere di avere comunque ragione.
Sono convinto che aver sottoposto il mio fisico ad allenamenti piuttosto intensi e per molti anni, abbia alla fine portato alcuni vantaggi che ancora sfrutto. Il più importante è certamente quello di avere imparato a conoscere il mio corpo, e a sentire con molta chiarezza ogni preavviso di eventuali piccoli o grandi problemi in corso. Sono cioè quasi in grado di farmi una sorte di pre-check-up, certamente approssimativo, magari da sottoporre a verifica con l'aiuto di analisi, e di un buon medico vero.
Ma soprattutto di aver capito il saggissimo messaggio di commiato del capo dello staff medico che ci aveva preparato alla prima maratona. Era un giovane medico sportivo brasiliano, che già insegnava in una prestigiosa università.
“La nostra salute è come questo tavolino a tre gambe: la prima rappresenta la nostra alimentazione, la seconda l'attività fisica, la terza la capacità di sostenere gli stress che capitano nella vita. Se si riesce a curare lo stato di tutte tre le gambe, il tavolo della nostra salute regge. Ma basta compromettere la stabilità di una sola gamba, che crolla tutto. Naturalmente molto dipende anche dalla fortuna (o sfortuna) che si eredita alla nascita, intesa come condizione di partenza: ma su questa non ci è dato di intervenire. Almeno per ora”.