Aggiornato al 28/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Norman Cornisch (Spennymoor,UK, 1919 - 2014) - Scene at the Bar

 

Il nostro novecento – Capitolo 5

di Tito Giraudo

(seguito)

 

5. Cinque amici al bar

 

Era il 1912, si apriva un biennio decisivo per la vita politica di Pietro, di Mario e anche di Mussolini che si ritroverà direttore de “L’Avanti!” dopo il Congresso di Reggio Emilia.

Questa volta il suo intervento, a differenza di quello di Milano, fu trionfale. Costò l’espulsione di quei deputati socialisti riformisti che, dopo l’attentato anarchico al Re, si erano recati dal sovrano congratulandosi per lo scampato pericolo. I deputati in questione non erano certamente peones ma uomini del calibro di Bissolati e Bonomi.

Il Congresso Socialista per gran parte parlò solo di quello. Tutti deprecavano il fatto, ma i riformisti si limitavano al biasimo, i massimalisti volevano delle sanzioni, Mussolini e i più accesi l’espulsione.

Il Barnum socialista ancora una volta esprimeva di tutto e di più. Mussolini era partito per Reggio Emilia come segretario della federazione socialista di Forlì, preparando accuratamente un intervento ben diverso da quello di Milano, stringato, coerente con il massimalismo imperante e pieno di pathos. L’anno prima aveva fatto uscire dal partito la sua federazione in polemica con la destra, ma prima del congresso aveva voluto strumentalmente il rientro in massa. Le deleghe di una federazione così potente ma soprattutto compatta con il suo segretario, saranno determinanti.

Non credo che partendo da Forlì per Reggio Emilia, il futuro Duce abbia sperato in una scalata così rapida, essendo ancora una via di mezzo tra il politico vero e il demagogo.

La svolta della sua carriera avverrà proprio in quel congresso. Non credo avesse ancora deciso la vera strada da percorrere, capiva però che quel partito era così debole nel suo gruppo dirigente da permettergli di primeggiare. Era ambizioso e lo sarà sempre di più. Molti oggi cercano di comprendere il perché dell’ascesa di Mussolini e del fascismo che avverrà alcuni anni dopo. Ma all’epoca cosa potevano pensare le classi dirigenti di un partito che, sotto la spinta di un demagogo romagnolo, allontana dal proprio seno importanti e stimati dirigenti, solo perché questi non approvano un attentato al re?

Lo stesso sovrano, per continuare a regnare, non si fece certo scappare l’occasione di liquidare le sinistre! Lenin tra tante cose non condivisibili, ebbe a dirne una molto giusta: «L’estremismo è la malattia infantile del Comunismo».

È la maledizione della sinistra di ieri, di oggi e probabilmente di domani. Sembra che gli errori compiuti passino come un arcobaleno sulle masse, sempre partendo da un polo e finendo all’opposto.

A quel congresso Mario e Pietro sono delegati, l’intervento di Mussolini li esalta, sono perfettamente d’accordo con lui: se si vuole fare la rivoluzione non si può essere dei lacchè del sovrano.

Dopo l’intervento congressuale, Mussolini sfugge all’abbraccio dei delegati entusiasti che lo vogliono con loro, per andare a bere una bottiglia di Sangiovese con quei due torinesi che a Milano erano stati i soli a complimentarsi con lui, malgrado l’intervento più maldestro della sua carriera. Porta anche due suoi amici fraterni: Nicola Bombacci, un biondino ispirato e spiritato con due occhi cerulei, una barba in crescita (che crescerà sempre di più negli anni a venire), e Pietro Nenni che si trova al congresso per conto del suo giornale. Nenni non è socialista ma repubblicano, un giovane poco più che ventenne, striminzito e miope che, come Pietro, porta un paio di occhiali dalle lenti spesse.

Davanti a un paio di bottiglie e cinque bicchieri, Mussolini ancora esaltato dal successo, rotea gli occhi come è solito fare e sghignazzando dice: «Vendetta è fatta! Al congresso di Milano mi hanno fischiato per delle richieste che sul piano pratico avrebbero cambiato ben poco, e ora questi cagoni non solo si fanno buttare fuori dal partito, ma perdono anche la maggioranza!»

Complice forse il Sangiovese, finisce affermando: «I lavoratori hanno bisogno di una guida sicura, da soli il potere non lo prenderanno mai. Questo partito parla di rivoluzione, ma non si sogna di farla, porc……». Bestemmie a parte di uso comune all’epoca tra i socialisti, il discorso è chiaro, ci vuole una dirigenza “diversa”.

Mario capisce al volo e obbietta: «Il peso della periferia, nonostante il numero degli iscritti, alla fine è sempre irrilevante. I riformisti alle elezioni continueranno ad avere la maggioranza dei deputati e quindi a fare politica solo a livello parlamentare.»

«E noi non dobbiamo più votarli», dice Pietro che tende a semplificare. «Compagno Mussolini, mettiti alla nostra testa e prendi in mano il partito.»

Mussolini abbassa la voce: «Sembra mi vogliano offrire la direzione de L’Avanti!, devo accettare?» Mario e Pietro si guardano sorpresi: «’T saras pa fòl a nen dì’ che ‘d sì» (Sarai mica stupido a non accettare?) sbotta Pietro.

Mario più riflessivo s’intromette: “Secondo me, te la danno per condizionarti, per farti annusare l’odore dei borghesi, stai attento”. Mussolini chiude l’argomento: «Boia d’un mond ledèr, non è ancora nato quello che può comprarmi!».

«Te, piuttosto, Bombacci, vedi di accettare la direzione del sindacato a Modena e tu Nenni lascia quel partito di poeti e vieni con noi.» Intanto la bottiglia di Sangiovese è scolata.

Quella sera i cinque, ormai diventati amici, andarono anche a cena, rimasero in osteria fino a tardi, troppo emozionati per dormire. Mussolini volle conoscere la vita di Pietro, quella di Mario già la conosceva dalle sue lettere. Pietro parlò della sua condizione di trovatello, degli anni duri dell’infanzia e di come, grazie alla fabbrica e al socialismo, la sua vita avesse avuto una svolta. Confessò di essere semianalfabeta e come il fatto gli pesasse nei confronti di gente istruita come loro. Parlò anche del suo matrimonio fallito, come solo si può fare con dei vecchi amici.

Mussolini lo ascoltò con interesse, poi rispose ridendo: «Pietro, mica devi vergognarti del tuo passato, anzi devi sentirti onorato! Te, hai davanti tre morti di fame, il più morto di fame è l’intellettualino al tuo fianco – aggiunse indicando Nenni. – Anche lui senza padre, e allevato in orfanotrofio. Il più signore di noi è Bombacci, il suo babbo faceva il mezzadro per il prete del suo paese. Io e lui ci siamo conosciuti alle Magistrali di Forlimpopoli. Con Nenni, la prima volta che ci siamo visti ci siamo dati un sacco di legnate a un comizio della mia amica Angelica. Te pensa che sto boia sasin voleva pure che mi scusassi con lui sul giornale». L’Angelica, causa delle botte tra i due amici, era la Balabanoff, socialista fuoriuscita dalla Russia che si dice fosse stata per un certo periodo l’amante di Mussolini.

«L’hai fatto, l’hai fatto» affermò sghignazzando Nenni.

«Poi l’anno scorso, – proseguì Mussolini ignorando l’interruzione, – siamo finiti tutti e due in gattabuia durante gli scioperi in Romagna. Sai le partite a carte che ci siamo fatti in cella! Mi sembra anche di essere riuscito a convincere ‘sta crapa pelata che, se vuole fare qualcosa di buono deve uscire dal quel suo partito di smidollati.»

Affabulatore qual era, Mussolini era riuscito a monopolizzare l’attenzione del gruppetto.

«Ma ora che mi hai raccontato la tua vita, Pietro, magari vuoi sapere qualcosa di me. Sono nato in una frazione di Predappio, un paese di merda a un’ora da Forlì. Per gli abitanti io sono il mat. Mio padre era un fabbro socialista, anarchico, rivoluzionario e trombatore. La mia povera mamma era la maestra del paese, tutta diversa da lui. Una donna meravigliosa, all’antica, una maestra severa ma dolce, anche come madre. Il babbo con le sue idee non è mai andato d’accordo con i denari. Ma, grazie alla mamma, avevamo la casa comunale che davano alle maestre. È stata proprio lei a insistere perché facessi le scuole dai gesuiti e poi le magistrali a Forlimpopoli. Pensate che il direttore era il fratello del poeta Carducci. Sono stati quei bastardi dei gesuiti a farmi diventare ateo, ma il socialismo me l’ha ficcato in testa il babbo. Mi vedete come maestro a insegnare ai bambini? Socmel!»

Mario e Pietro non capirono quest’ultima battuta, scandita in puro dialetto romagnolo, ma Mussolini a richiesta s’affrettò a tradurla: Succhiamelo!

«Be’, per farvela breve, me ne vado a fare l’emigrante in Svizzera. Lavoro come manovale a Losanna, dove conosco i socialisti locali e i compagni fuoriusciti italiani. Ah! dimenticavo, in Svizzera ci sono andato anche perché ero renitente alla leva. Ho poi fatto il militare nel 1909.

«La Svizzera è divisa in cantoni, che sono più o meno l’equivalente delle nostre provincie. Poi è divisa in tre zone linguistiche diverse, dove cioè si parla o l’italiano, o il francese, o un tedesco che, boia d’un mond ledèr, non lo capiscono nemmeno i tedeschi imbastardito com’è dall’accento svizzero. Dal cantone di Losanna, in zona francofona, mi hanno mandato via, per cui sono andato in un altro, e avrei finito di giocare ai quattro cantoni, – aggiunse sghignazzando – se non avessi potuto tornare in Italia, perché nel frattempo c’era stata l’amnistia.

«Ho fatto il soldato come una persona normale, mi piace la vita militare, mi piace la disciplina. Sono convinto che se vogliamo fare la rivoluzione avremo bisogno dell’appoggio di una parte dell’esercito. Poi il compagno Cesare Battisti, che mi conosceva per aver letto i miei articoli su vari giornali, mi chiama a Trento per dirigere la Camera del Lavoro. Non vi dico il bordello che ho piantato a Trento. Là i peggiori sono i popolari, c’è un certo De Gasperi, un baciapile merdoso austriacante che io dalle colonne del giornale ho messo a posto.

«Mi hanno denunciato, ma Battisti mi ha sempre sostenuto, lui sì che conta a Trento! Mi sono messo anche a scrivere romanzi d’appendice, che hanno avuto un grande successo e mi hanno fruttato qualche liretta in più. Il primo è stato L’amante del cardinale! Poi i compagni di Forlì mi hanno chiamato a dirigere quel partito. Vedi Pietro, se sei depresso per il tuo matrimonio andato a ramengo, smetti di preoccuparti: noi socialisti siamo per il superamento di questa tradizione borghese e clericale. Trova un’altra donna e mettiti insieme, fai dei figli e fregatene delle convenzioni! Io adesso sto con la Rachele, figlia della convivente di mio padre che, dopo la morte della povera mamma, ha con lei un’osteria al paese. Il babbo e la mamma di Rachele non volevano che ci mettessimo assieme, mi sa che avevano paura che la Rachele fosse la mia sorellastra», disse riprendendo a sghignazzare e ricordando come il padre avesse quell’amante da una vita. Te Pietro, sei stato matto a sposare quella troia, noi compagni non dobbiamo imitare i borghesi e le loro ipocrisie.»

Usciti dall’osteria camminarono ancora a lungo, sentendosi probabilmente diversi da quando vi erano entrati. C’era un assicuratore anarchico e poeta, un operaio analfabeta, un apostolo della rivoluzione, un giornalista miope e un mat.

Le previsioni di quella serata si avvereranno. Nenni entrerà nel Partito Socialista, Bombacci sarà un leader sindacale di grande seguito e Mussolini diventerà davvero direttore de L’Avanti!. Il quotidiano socialista aveva quasi sempre avuto dei direttori riformisti (l’ultimo fu Treves). Nel nuovo gruppo dirigente i massimalisti ebbero un peso soverchiante, nessuno però voleva o poteva dirigere un quotidiano importante. Mussolini verrà considerato una meteora massimalista e se si fosse bruciato tanto meglio!

Il primo atto di Mussolini fu quello di dimezzarsi lo stipendio. Demagogia? forse no, lui dimostrò sempre di non essere attaccato al denaro. L’Avanti! sotto la sua direzione cambiò pelle, diventando un giornale dai toni secchi e stringati, certamente estremista, dove però, leggendo tra le righe degli editoriali del direttore, si intravedeva un travaglio politico in essere. Durante i due anni di permanenza al giornale avvennero due fatti forse determinanti per spiegare il futuro voltafaccia mussoliniano: la settimana rossa in Emilia Romagna e gli scioperi milanesi.

Nenni e Bombacci si ritroveranno a dirigere (sempre che si potesse) l’esasperazione operaia e contadina durante la settimana rossa. Nenni rivedrà il carcere. Mussolini sosterrà la lotta dalle pagine de L’Avanti! con parole di fuoco, cercando però di spiegarne le ragioni. Un presidente del consiglio astuto e accorto come Giolitti, non cadendo nella repressione violenta, spegnerà gli incendi rivoluzionari destando in Mussolini dubbi che forse già covavano in lui sulle reali possibilità rivoluzionarie delle masse operaie e contadine.

Pietro, Mario e Mussolini si incontreranno parecchie volte in quei due anni. Mussolini come direttore de L’Avanti! si recherà spesso a Torino per tenere conferenze e comizi, e loro erano i soli veri amici che avesse in città.

Torino è una città chiusa e diffida di quell’uomo, anche se, come direttore de L’Avanti!, i suoi discorsi suscitano entusiasmo. L’amicizia con Mario e con Pietro, non era solo di pelle. Per Mussolini avere una testa di ponte di fedelissimi in una città strategicamente importante, fu fondamentale. Corridoni a Milano, Nenni in Romagna, Bombacci a Modena e Mario Gioda a Torino.

Spesso quando Mussolini incontrava Gioda, Pietro era con loro. Non sempre afferrava quello che dicevano, ma frequentare la politica lo aveva svezzato, e se non capiva qualcosa, aveva il coraggio di chiedere. Anche Mussolini si era affezionato a quell’operaio che sprizzava energia e intelligenza pur essendo semianalfabeta.

Mussolini non credo amasse particolarmente le masse: era convinto, come tutti i capipopolo che si rispettino, come andassero anche un po’ disprezzate. Imbevuto di filosofia nietzschiana, si sentiva un superuomo. Ma probabilmente doveva considerare Pietro dotato di una personalità particolare se si era legato a lui d’amicizia, ed era lieto che i primi apostoli su cui potesse contare a Torino fossero proprio lui e Mario.

Una sera del 1914 erano a cena tutti e tre alla trattoria della Rosa Bianca, fuori porta, oltre la barriera di Milano e Mario disse a Mussolini: «Benito, devo proprio dirtelo, ho incontrato Filippo (Corridoni), abbiamo discusso a lungo sulla guerra e sull’interventismo. Lui è convinto che se vogliamo diventare una vera nazione bisogna fare la guerra, e sinceramente non so dargli torto. Mi pare che il socialismo sia in una posizione di stallo, che fa piacere solo a quei borghesi castrati dei riformisti. Forse la guerra darebbe uno scossone creando premesse rivoluzionarie. Ma so che tu non sei d’accordo. Filippo mi ha detto che avete litigato: d’altronde quello che hai detto stasera alla Camera del Lavoro e che scrivi sul giornale è evidente. Ma noi, caro Benito, abbiamo tanti dubbi.»

Fu uno shock. Mussolini li guardò fissi tutti e due: «Mario, Pietro, se vi fate scappare anche solo una parola vi sparo a tutti e due», e così dicendo mise una pistola sul tavolo. «L’ho comprata stamani al Balon, penso ne avrò bisogno fra un po’.» Ridendo proseguì: «Ho parlato a lungo con Corridoni, sì, è vero che abbiamo litigato, ma per una volta ho dei dubbi. Le cose che dice Filippo sono in parte vere. E poi, compagni, il rivoluzionario non è mai pacifista!».

A Mario vennero le lacrime agli occhi. Quando aveva espresso a Pietro i suoi primi dubbi, aveva capito dalla sua reazione quanto fosse radicato il pacifismo tra i compagni, soprattutto tra gli operai. Ma Pietro, se non aveva faticato a convincere il suo amico, temeva il giudizio di Mussolini. Così, sentendolo parlare in quel modo e vedendolo dubbioso, da quell’animo animo sensibile che era iniziò a lacrimare. Adesso sì che erano tre amici. Tre camerati. E per la sinistra tre traditori in pectore.

Mussolini non aveva ancora esternato il suo cambiamento di rotta, ma a Torino ci fu un’altra riunione con alcuni compagni fidati. Pietro portò Lelli, anche lui operaio in Fiat. Mario un anarcosindacalista e un professore suo amico, e Mussolini invitò un gruppo di “borghesi”. Benito disse che si era trovato, oltre che con Corridoni, anche con altri amici tra cui Pietro Nenni.

«Io e Filippo vogliamo dare vita a dei Fasci di Combattimento, cui aderiranno tutti gli spiriti liberi favorevoli all’interventismo. Tra qualche giorno darò l’annuncio e… – qui fece una pausa da oratore scafato e, strabuzzando gli occhi come faceva di continuo, aggiunse – …anche le dimissioni da l’Avanti!. Cercherò però di portarmi dietro il maggior numero di compagni possibile.»

In realtà all’interno del partito trovò pochi seguaci: la sinistra era furiosamente contro la guerra; la destra era in parte contro e in parte per la neutralità, all’insegna del “Non appoggiare e non sabotare”; tutti, comunque, furono rabbiosamente contro Mussolini.

A Torino solo i giovani, tra cui spiccavano Gramsci e Togliatti, si pronunciarono per l’intervento, in linea con gli ambienti studenteschi dell’epoca. Mussolini era sempre stato un estremista e raccolse altrettanto estremismo. Non si sottrasse naturalmente al linciaggio a Milano. Alla Camera del Lavoro non lo lasciarono nemmeno parlare. Se ne andò tra i fischi e gli insulti gridando: «Fate così perché mi amate ancora!» Peccato che in quel casino pochi siano riusciti a sentire una frase che si proponeva di essere d’effetto. Mussolini non era certo un ingenuo, la virata non era frutto di calcolo o di interessi personali; sapeva però, da buon giornalista, che le sue idee avevano bisogno di un giornale. Nacque così il Popolo d’Italia che, per i nemici, era nato “con i soldi della Francia”.

Qualcuno sicuramente glieli diede, forse gli ambienti industriali interessati alle commesse di guerra. L’assegno lo staccò comunque l’editore del Resto del Carlino di Bologna: Mussolini, forse per la prima volta in vita sua, scoprì di avere doti di opportunista, ma si sa, il fine giustifica i mezzi. Saranno in tanti, anche tra coloro che rimarranno compagni, a seguire le sue orme. I comunisti poi, qualche anno più tardi, giustificheranno con questo principio, le cose più bieche avvenute nella Russia staliniana.

La situazione precipitò anche a Torino, Pietro e Mario uscirono allo scoperto. Quando Pietro disse in Fiat che era d’accordo con Mussolini volarono sberle e pugni. Pietro non si faceva picchiare tanto facilmente e, se non fosse sopraggiunto il capo squadra, chissà come sarebbe finita.

A Mario andò meglio. Tra i sindacalisti e gli anarcosindacalisti il verbo corridoniano aveva già fatto presa, un gruppo entrò con Mario e Pietro nei fasci di combattimento. I socialisti, al solito, reagirono alla dissidenza con l’isolamento totale e le calunnie, per cui i contrari divennero dei venduti al soldo dei padroni, degli appestati.

Molti storici, soprattutto i revisionisti, si chiederanno come abbia potuto gente di sinistra e in perfetta buona fede aderire, dopo la guerra, al fascismo.

La sinistra ha, oggi come allora, un’intolleranza verso gli avversari che, nella migliore delle ipotesi, sfiora il disprezzo. Era quindi comprensibile che un partito il quale aveva fatto del pacifismo una bandiera, lo difendesse a spada tratta, e con ragione. Era ovvio, infatti, che la guerra sarebbe stata una vera mattanza, pagata essenzialmente dagli strati popolari.

Ma anche le posizioni interventiste avevano le loro giustificazioni che prendevano lo spunto da una serie di valutazioni nazionali e internazionali. Sul piano interno la guerra avrebbe potuto portare a compimento l’unità nazionale sia sul piano politico, che su quello morale e anche territoriale, con la legittima rivendicazione dei territori italiani (le province di Trento e Trieste) ancora sotto il dominio austriaco. Il socialismo interventista di sinistra, per contro, sentiva che la guerra avrebbe consentito, mettendone a nudo debolezze e contraddizioni, la definitiva crisi dello stato liberaldemocratico, il che avrebbe potuto favorire profondi cambiamenti rivoluzionari.

Sul piano internazionale, era una scelta di campo essere al fianco di paesi come l’Inghilterra e soprattutto la Francia, i quali per primi avevano eliminato l’assolutismo monarchico e il diritto divino. In quei paesi i socialisti, pur avendo al loro interno spinte pacifiste, avevano finito per aderire e collaborare allo sforzo bellico. Quindi sul piano internazionale le posizioni isolazioniste non erano quelle del socialismo interventista, ma di quello pacifista.

All’inizio il ruolo di Mussolini non fu molto rilevante, le forze interventiste erano troppo eterogenee. Mussolini e i suoi amici non avevano certo rinunciato alla rivoluzione socialista, ma la compagnia con cui si trovavano era piuttosto ambigua. C’erano i nazionalisti, divisi essi pure in destra e sinistra. C’erano i futuristi, un movimento intellettuale con a capo Marinetti, che oltre alla modernità predicavano la violenza e l’individualismo. Poi c’era la maggioranza degli studenti, schierati acriticamente. C’era infine un personaggio come D’Annunzio, fatto tornare dall’esilio in Francia dove si trovava per debiti. Anche i liberali avevano un’ala interventista, in netta polemica con Giolitti che era neutrale. Sicuramente gli interventisti di sinistra e di origine socialista erano una minoranza. Il loro merito, o demerito, fu di aver rotto il fronte del pacifismo oltranzista (oggi si direbbe senza sì e senza ma). Non aver superato quelle divergenze li porterà poi tutti al Fascismo.

Gioda e Pietro, a Torino, si trovarono più che mai isolati, anche perché i compagni di cordata lasciavano alquanto a desiderare sul piano ideologico. Mario, inoltre, si arrabattava come un missionario per convincere i vecchi compagni, ma con scarsi risultati. Pietro all’interno della Fiat e nel Borgo, si sentiva isolato ed emarginato. I vecchi amici non lo salutavano e ogni tanto doveva scazzottarsi con qualche provocatore. Certo la fedeltà a Mussolini superò ogni barriera, anticipando i rospi che avrebbe dovuto ingoiare in seguito. Ma si sa, quando c’è l’amore…

Dopo qualche mese entrammo in guerra. Poiché un paese belligerante tende, almeno all’inizio, a unirsi, il conflitto calmò momentaneamente le divisioni. Benito, Mario e Pietro, coerentemente, si offrirono volontari. In questo paese di burocrati, tuttavia, nemmeno le guerre hanno il potere di accelerare gli avvenimenti, per cui sia Mussolini che Gioda dovettero aspettare la chiamata alla leva.

Pietro, invece, fu riformato. Al capitano medico cercò inutilmente di nascondere la fortissima miopia. Il fatto poi di essere un operaio della Fiat, lo rese più utile in fabbrica che al fronte. Con grande tristezza Pietro accompagnò Mario alla tradotta che lo portava al fronte. Era preoccupato per la salute dell’amico che andava peggiorando, aveva dei giramenti di testa improvvisi e ogni tanto veniva preso da crisi di spossatezza che lo lasciavano sfinito. Quando Mario partì da Porta Nuova disse a Pietro, abbracciandolo: «Non essere sagrinà (preoccupato), amico mio, si può essere patrioti in guerra, ma anche in fabbrica. La Fiat deve costruire autocarri, aeroplani, armi di tutti i tipi. Sono sicuro che i socialisti tenteranno il sabotaggio, ci vogliono compagni come te! Vedrai che combatterai anche tu la tua guerra. Mussolini è partito l’altra settimana, mi ha detto di aver segnalato il tuo nome a certi amici, la nostra battaglia politica deve continuare. Questa non è una guerra come le altre, aprirà le porte a profondi cambiamenti che dovranno andare nella direzione delle nostre idee.»

Mai profezia fu più azzeccata, anche se le idee di Mario e di Pietro finiranno in un pentolone dove si stava preparando una minestra che non sempre piacerà loro. Ma si sa, se il cuoco è un amico...

(Continua)

 

Inserito il:24/01/2020 10:21:11
Ultimo aggiornamento:24/01/2020 10:28:21
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