Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Sensai Eitaku (Giappone, 1843 – 1890) - Taharazaka, l’ultima battaglia dei samurai

 

Seconda guerra mondiale. Le grandi giornate - Da Pearl Harbour alle Midway (1)

di Mauro Lanzi

 

Prologo - I due contendenti

 

Domenica 7 dicembre 1941 una formazione mista di aero siluranti e bombardieri di picchiata giapponesi attaccò, di sorpresa e senza preventiva dichiarazione di guerra, la flotta americana alla fonda nella base di Pearl Harbour, causando la distruzione di una larga parte della flotta statunitense del Pacifico: l’attacco non durò che due ore, dalle 7:55 del mattino alle 9:50, ma ebbe conseguenze di vasta portata, non solo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, ma anche la repentina conquista giapponese dell’Asia sudoccidentale, alla quale gli Alleati non riuscirono ad opporsi in forma efficace, almeno fino alla battaglia delle Midway.

Pearl Harbour ha lasciato adito ad una serie di interrogativi inquietanti, riguardanti soprattutto le ragioni della sorpresa: perché gli americani si lasciarono cogliere così impreparati, perché non fu dato peso ai tanti indizi che segnalavano la possibilità di un’azione militare, perché non si presero neppure le precauzioni più elementari per parare, almeno in parte, il colpo. Tutti argomenti che alimentarono a lungo sospetti e teorie cospiratorie che vedremo, ma in realtà il motivo fondamentale fu che l’America non conosceva affatto il suo avversario, non capiva l’etica, le motivazioni, i valori di un popolo tanto diverso da tutti gli altri; l’ignoranza o la scarsa cognizione di fatti o persone è sempre stata causa di errori drammatici, soprattutto in guerra.

Vale la pena allora esaminare rapidamente la situazione in quell’area allo scoppio della guerra, delineando i tratti principali degli attori del dramma, dei quali il Giappone era (e forse è ancora) il meno conosciuto, mentre gli Stati Uniti, sui quali sappiamo decisamente di più, alla vigilia del conflitto vivevano una situazione particolare, che merita essere esaminata, perché fu anch’essa una componente essenziale dei malintesi e degli errori che portarono al dramma.

Non è possibile in questa sede ripercorrere la storia del Giappone, quindi gli eventi attraverso i quali si vennero a definire i lineamenti caratteriali e culturali di questo popolo; possiamo solo accennare ad alcuni punti salienti, come il fatto che il Giappone visse per molti secoli virtualmente isolato dal resto del mondo, anche per la sua insularità; un tentativo di invasione condotto dall’impero cinese ai tempi della dinastia mongola (XIII secolo) per due volte fu respinto grazie ai venti di tempesta che dispersero ed affondarono la flotta cinese: da qui il termine “kamikaze”, vento divino, che verrà usato nella seconda guerra mondiale per designare, impropriamente, i piloti suicidi.

Evidentemente non è stato questo l’unico motivo delle peculiari caratteristiche di questo paese. Il Giappone era stato di fatto dominato per secoli da una classe di guerrieri, nobili e colti, i “samurai”, che si raggruppavano in clan piccoli e grandi, ciascuno sotto la guida di un daimyō (capo feudale). A lato l’immagine di un samurai armato, si notino le due spade, portare le quali era privilegio di questa classe.

File source: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Minamoto_no_Yoritomo.jpgLa società giapponese era divisa in caste, al vertice i samurai, poi contadini, artigiani e commercianti, la classe più disprezzata. I clan samurai erano divisi da feroci contese, che spesso degeneravano in vere e proprie guerre civili. Il clan vincente in questi scontri designava lo “Shogun” (letteralmente “Grande Generale dell’Esercito”) che in pratica governava il Paese; l’imperatore (“tenno”) era venerato come una divinità, ma non esercitava alcun potere reale.

Lo “Shogunato” resse il paese per oltre sei secoli, sia pur nell’alternarsi di clan rivali, che si combattevano a volte furiosamente; il vincitore di queste contese designava il nuovo Shogun, che iniziava una nuova dinastia. Il virtuale isolamento del Giappone Minamoto no Yoritomo – Primo Shogun divenne una chiusura totale nel 1639, quando venne ufficialmente decretata la politica del “sakoku” (paese chiuso) che eliminava ogni possibilità di contatto con il resto del mondo; ai giapponesi era proibito di viaggiare all’estero, mentre agli stranieri era proibito l’ingresso nel paese.

Il Giappone visse così per oltre due secoli come ripiegato su se stesso ed in questo periodo si definiscono i lineamenti essenziali dell’etica e della mentalità giapponesi; nasce allora, ad esempio, il “kokugaku”, letteralmente “studi giapponesi”, una sorta di ricerca delle proprie origini, che diverrà in seguito una forma di filosofia, che predicava la superiorità del Giappone: il Giappone era, di sua natura, “puro” in origine; quindi, per raggiungere lo splendore assoluto doveva liberarsi da ogni contaminazione esterna. Soprattutto, vengono enunciati per iscritto, in questo periodo, i principi del “Bushido” (via del guerriero) una specie di codice morale, inizialmente dei samurai, assimilato in seguito da tutta la nazione.

Sette era i principi basilari del Bushido; onestà e giustizia, eroico coraggio, compassione, gentile cortesia, completa sincerità, onore, dovere e lealtà; il venir meno per il samurai ad uno solo di questi principi comportava l’obbligo del suicidio rituale, il “seppuku”: in epoca successiva a questi dettati si aggiunse l’obbedienza assoluta all’autorità imperiale. Il Bushido divenne così uno dei capisaldi del nazionalismo giapponese, non essendo più limitato all’ordine dei samurai, ma essendo recepito come un codice di valenza universale, soprattutto tra le forze armate. Non tutti i princìpi del bushido erano positivi, come, tutto sommato, ci possono apparire quelli sopra enunciati; trai dettami di questo codice, compariva, ad esempio, l'assoluto disprezzo per il nemico che si arrende, che fu la causa dei trattamenti brutali, inumani e degradanti, cui i giapponesi sottoposero i prigionieri ed i popoli assoggettati nel corso della seconda guerra mondiale.

Questa situazione cambiò radicalmente, almeno da un punto di vista politico, nel XIX secolo con l’imperatore Mutsushito (che in seguito assumerà il titolo di Meji, l’illuminato) che iniziò a contrastare il potere dell’ultimo shogun; questi non si arrese facilmente, ma al termine di una dura guerra civile, i seguaci dello shogun furono sconfitti e dispersi, determinandosi così la fine dello shogunato e del regime feudale. Il tramonto dello shogunato fu l’occasione per l’apertura del Paese ai modelli politici, economici e culturali dell’occidente.

Il Medioevo in Giappone era durato più che in ogni altro paese dell’occidente, ma la successiva evoluzione fu rapidissima: nel 1871, con decreto imperiale, fu definitivamente abolito il feudalesimo: al suo posto fu creata una nuova amministrazione locale, basata su governatorati, affidati direttamente dall'imperatore anche ai vecchi signori feudali, ora convertiti in funzionari statali, e prefetture, definite geograficamente. Il decreto stabiliva anche la fine della discriminazione tra le caste in cui era tradizionalmente divisa la società giapponese (Samurai, agricoltori,artigiani e mercanti).

Passi successivi furono la creazione di un esercito e di una marina moderni, la proclamazione di una costituzione ispirata ai modelli occidentali, con un Parlamento eletto democraticamente, l’industrializzazione accelerata dell’economia. La “Restaurazione Meji”, così venne definita questa vera e propria rivoluzione, conduce per mano il Giappone nell’era moderna, trasformando in pochi decenni un sistema ed un’economia feudali, in un paese capitalista e industriale, capace di reggere il confronto con le maggiori potenze occidentali; la profondità e la rapidità di questa trasformazione non cessano di stupire, forse solo la Cina in tempi recenti ha conosciuto un cambiamento altrettanto veloce.

Al tempo stesso, però, un Medioevo, durato così a lungo, non poteva scomparire da un giorno all’altro, alcuni dei caratteri profondi del paese permanevano nella mente e nell’animo della gente; i samurai ed i vecchi clan feudali non scompaiono, si riciclano nella politica, nell’economia e, soprattutto nell’esercito. Nascono in questo periodo gli “zabaitsu” conglomerati finanziari e industriali controllati da grandi famiglie della classe samurai; i nomi degli zabaitsu nati alla fine dell’800 ci suonano ancora familiari, Mitsubishi, Mitsui, Sumitomo, Yasuda, Furukawa, e Nissan. L’antico spirito samurai, portato dai fondatori, sopravvisse a lungo in loro..

Malgrado l’assimilazione dei modelli occidentali in campo politico, la società giapponese rimase impermeabile allo spirito dialettico, che è la base delle democrazie, e questo rende illusoria l’evoluzione verso un sistema politico liberale. L’imperatore è idolatrato, l’obbedienza ai suoi ordini è un dovere morale per ogni giapponese, ma di questo si approfittano le cricche politiche, che si sviluppano all’ombra della corte e nell’esercito, e che trasformano ben presto il sistema giapponese in un nuovo tipo di oligarchia militare.

Anche la politica estera del Giappone cambia totalmente rispetto a quella perseguita dallo shogunato: al posto dell'isolamento internazionale, il nuovo governo decide di attuare, oltre all'apertura con l'Occidente, una aggressiva politica imperialista, che avrebbe dovuto portare il Paese sullo stesso livello delle potenze europee, in particolare assumendo una posizione predominante nel sud-est asiatico.

Passi successivi di questa evoluzione sono la prima e seconda guerra sino giapponese, all’inizio del novecento, che porta il Giappone a mettere un piede in Cina e soprattutto la guerra russo-giapponese che si conclude con la distruzione della flotta russa a Tsushima e la scomparsa della potenza russa dall’Oriente (1905); il Giappone ne approfitta per estendere la sua influenza in Corea. Per la prima volta una nazione asiatica sconfigge una grande potenza occidentale, per la prima volta una nazione asiatica si afferma come potenza imperialista.

Il Giappone è ora pronto al confronto con l’occidente, da cui ha assorbito tecnologie, modelli industriali, finanziari e amministrativi, sul cui esempio ha costruito un esercito ed una marina moderni, ma dal quale non ha saputo mutuare umanesimo e liberalismo; il carattere profondo della nazione resta legato alla cultura del medioevo giapponese, allo spirito samurai. Questi sono i lineamenti del paese che l’America si apprestava ad affrontare senza conoscerlo.

Diamo allora uno sguardo all’altro protagonista dello scontro, gli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti erano usciti dalla Prima Guerra Mondiale come i veri dominatori della scena politica: malgrado la loro partecipazione alle operazioni militari fosse stata abbastanza limitata (i soldati americani apparvero sui campi di battaglia dal giugno 1918), l’intervento americano fu decisivo anche e soprattutto per il peso economico e finanziario di questo paese. Coerentemente, il presidente americano Woodrow Wilson fu il vero protagonista del Congresso di Parigi, dove cercò di imporre la sua generosa, ma forse poco pratica visione di una “Pace senza vincitori”; non è questa la sede per esaminare i motivi del fallimento della pace negoziata a Versailles, ma è sintomatico che gli Stati Uniti, ispiratori dei pilastri portanti di questo accordo, tra cui ricordiamo la “Società delle Nazioni”, si rifiutarono alla fine di ratificarlo (voto del Senato americano) e non entrarono nella Società delle Nazioni; Wilson cercò di rovesciare questo verdetto impegnandosi a fondo nella campagna elettorale per la propria rielezione, ma, colpito da un ictus, si ritirò dalla politica.

La partecipazione al conflitto ebbe ciononostante due conseguenze fondamentali, almeno per la società americana: la prima fu il prepotente sviluppo dell’infrastruttura industriale del Paese, sotto la spinta delle forniture militari, destinate a colmare in un breve lasso di tempo il gap militare degli Stati Uniti. Terminata la guerra, una generazione di geniali imprenditori (Henry Ford, primo tra tutti) riuscì a convertire le produzioni belliche in prodotti destinati al mercato interno, avviando uno dei più prodigiosi periodi di sviluppo industriale mai visti fino allora, periodo che si interruppe bruscamente nel ’29 con il crollo di Wall Street.

L’altra conseguenza significativa del conflitto fu l’affermarsi in America di un forte sentimento isolazionista, aspetto anche comprensibile: l’America aveva mandato i suoi giovani a combattere e morire in una guerra a cui era sostanzialmente estranea, non aveva territori da rivendicare, non aveva torti da sanare. Terminato il conflitto, una nazione opulenta e sostanzialmente autosufficiente era logicamente portata a rinchiudersi in se stessa.

Su questa situazione, forse eccessivamente fiduciosa ed ottimista, si abbatte la crisi del ’29, che, anche per gli errori marchiani di politica monetaria compiuti dal governo, distrugge più di un terzo dell’economia americana. In questo frangente emerge uno dei personaggi politici più significativi del secolo, Franklin Delano Roosevelt. F. Roosevelt discendeva da una famiglia benestante, il padre possedeva miniere di zinco ed era imparentato con l’omonimo presidente Thedore Roosevelt: la famiglia, per parte di padre aveva ascendenze olandesi, per parte di madre, ugonotte, F.D. era quindi l’espressione dell’aristocrazia bianca americana. Iniziato alla politica fin da giovane nel partito democratico aveva fatto parte del governo Wilson e si era anche candidato alla vicepresidenza nel 1920; iscritto fin da giovane alla massoneria, come molti dei protagonisti della politica americana, salì fino al livello di Gran Maestro, ma soprattutto conobbe in questo ambiente molti dei suoi collaboratori e consiglieri, da Harry Truman, che fu suo vice, a John Maynard Keynes, il suo principale consigliere economico, anche lui massone e seguace dell’esoterismo newtoniano.

Nel 1921, all’età di 39 anni, durante una vacanza, Roosevelt fu colpito da una rara forma di poliomielite che lo costrinse su di una sedia a rotelle per il resto della sua vita; per chiunque altro sarebbe stata la fine di ogni ambizione politica, ma non per F.D., il quale con una forza d’animo eccezionale proseguì nelle campagne elettorali in cui era impegnato, riuscendo persino a stare eretto sul palco grazie ad una speciale intelaiatura metallica, sia pure costo di grandi sofferenze. In tal modo riuscì a farsi eleggere prima governatore di New York, nel 1928, poi forte della popolarità acquisita, presidente degli Stati Uniti, nel 1933: F.D. giunge alla presidenza nel momento più buio della “Grande Depressione”; famose le prime parole del suo discorso di insediamento:

Sono convinto che se c'è qualcosa da temere è la paura stessa, il terrore sconosciuto, immotivato e ingiustificato che paralizza.”

Bisognava innanzitutto ridare fiducia alla nazione, questa l’idea di Roosevelt: non è questa la sede per illustrare le politiche economiche e finanziarie impostate da F.D., che vanno sotto il titolo di New Deal; basti ricordare che il presidente partì, molto opportunamente, dalle banche, che sottopose ad un attento screening, facendo chiudere quelle fallimentari, ma aiutando tutte le altre; poi si rivolse all’agricoltura, stanziando aiuti per i farmers rovinati dal crollo dei prezzi, arrivando agli investimenti in infrastrutture, agli aiuti all’industria, ai programmi di “Social security”, con i quali vengono introdotte per la prima volta in America l’assistenza sociale e le indennità di disoccupazione e vecchiaia. La poderosa macchina industriale ed economica americana può riavviarsi per giungere in piena efficienza ai difficili appuntamenti che l’attendevano.

In materia di politica estera, Roosevelt assiste con crescente sgomento all’ascesa della potenza nazista fino al crollo militare delle democrazie occidentali; il convinto isolazionismo dell’opinione pubblica americana, in cui erano anche presenti robuste minoranze di origini italiana e tedesca, unito a frange di simpatie filonaziste (il padre di JFK, ambasciatore a Londra) non gli lasciava spazi di manovra. Riuscì comunque a fare approvare la legge “Affitti e Prestiti” (lend and lease), grazie alla quale la Gran Bretagna poté rimanere a galla in quei drammatici anni, ma niente di più.

Preoccupato oltre misura dallo scacchiere occidentale (“Germany first” ripeteva ai suoi collaboratori), forse sottovalutò la portata della sfida col Giappone, che ritenne di poter contenere o vincere con strumenti di pressione economica (sanzioni ed embargo).

La materia del contendere era la presenza economica e commerciale nei vasti mercati del Sud-Est asiatico, in primo luogo la Cina, al cui controllo da sempre ambiva il Giappone, che l’aveva di fatto invasa per una buona metà. Chiaramente Roosevelt ed i suoi collaboratori non conoscevano affatto il loro antagonista, non capivano gli stretti legami esistenti tra potere economico ed oligarchia militare, non intendevano quel distorto sentimento di onore ed orgoglio nazionale, che portava il Paese a considerare umiliante rinunciare alle proprie ambizioni territoriali, giuste o sbagliate che fossero, non accettavano l’idea che una competizione commerciale potesse risolversi sul piano militare. Per tutti questi motivi le estenuanti trattative intercorse tra le due parti, che si protrassero fino alla vigilia dello scontro, furono un dialogo tra sordi; il Giappone offriva agli Stati Uniti accordi spartitori, si impegnava a non minacciare l’ Australia ed altre zone di prevalente interesse per gli occidentali, pur di avere mano libera in Cina; i giapponesi non riuscivano a comprendere come, per gli Stati Uniti, fosse inaccettabile l’idea stessa di una prevaricazione, per motivi di economia o commercio, sull’indipendenza di un’altra nazione.

Lo scontro, prima ancora che militare, fu uno scontro tra diverse culture e diversi fondamenti di etica politica. Intanto l’embargo sul petrolio faceva montare in Giappone l’onda del risentimento che avrebbe portato a Pearl Harbour.


(continua)

 

Inserito il:14/02/2020 18:52:14
Ultimo aggiornamento:14/02/2020 19:20:34
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