Aggiornato al 27/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Richard Ernst Eurich (Bradford, UK, 1903 – Southampton, 1992 ) - Withdrawal from Dunkirk, June 1940

 

Seconda guerra mondiale.

Le grandi giornate - Dunkerque (4)

di Mauro Lanzi

(seguito)

4. 1940 Dunkerque

 

Nel 1919, una volta conclusa la Grande Guerra, il generalissimo Foch, comandante in capo degli eserciti alleati, così ammoniva i suoi politici impegnati nei negoziati di pace:

State attenti, perché la prossima volta “les boches” non ripeteranno gli stessi errori, punteranno diritti ai porti sulla Manica e la guerra sarà finita

Fu buon profeta, questo è esattamente quanto fecero i generali tedeschi che in meno di tre settimane dall’inizio delle operazioni si erano impadroniti di tutta la costa; agli alleati restava un solo porto, Dunkerque, appena protetto da un fragile schieramento di fanteria; mentre la I Divisione Panzer di Guderian si apprestava ad attaccarlo il 25 maggio, il 24 giunse l’ordine di Hitler di fermarsi.

Questa rimane una delle decisioni più misteriose e controverse dell'intera guerra, le sue motivazioni non sono mai state chiarite per intero.

Certo von Rundstedt aveva avvertito Hitler che ogni ulteriore sforzo da parte delle divisioni corazzate avrebbe portato ad un loro logoramento e ad un periodo più prolungato di rifornimento e manutenzione: attaccare le città non faceva parte dei normali compiti delle unità corazzate in nessuna dottrina operativa, ma i tedeschi lo avevano già fatto e lo faranno altre volte: perché non ora?

Certo Hermann Göring aveva convinto Hitler che la Luftwaffe poteva da sola impedire una evacuazione, distruggendo il grosso delle forze inglesi, ma Hitler considerava Goering anche un gran fanfarone, non si fidava ciecamente di lui: perché ora?

Forse c’era di più.

Basil Liddel Hart, uno dei maggiori storici contemporanei, nel suo libro “The other side of the hill” basato sulle interviste effettuate ai generali tedeschi fatti prigionieri, dopo la fine della guerra, riferisce di un episodio accaduto, secondo le fonti, quel fatidico 24 maggio, nel corso di una visita di Hitler al quartier generale di Von Rundstedt.

Il Führer, che aveva passato momenti di grande tensione dopo lo sfondamento sulle Ardenne, quando ancora si temeva un contrattacco francese, appariva quel giorno disteso, persino euforico, sentiva di avere la vittoria in pugno; cominciò a parlare a ruota libera con i suoi generali del futuro, dopo la ormai prossima conclusione delle operazioni militari: Hitler prevedeva una pace ragionevole con la Francia e, successivamente, un accordo con la Gran Bretagna.

“Egli ci sbalordì, riportavano le fonti, parlando con ammirazione dell’impero inglese, della necessità della sua esistenza, della sua opera civilizzatrice nel mondo; certo gli inglesi avevano impiegato anche metodi assai duri in molte circostanze, ma, aveva aggiunto, con un’alzata di spalle, quando si pialla, i trucioli volano. L’impero inglese era paragonabile, secondo il Führer, alla Chiesa cattolica: due istituzioni con cui non siamo d’accordo, ma che sono indispensabili alla stabilità del mondo. Tutto ciò che Hitler voleva dalla Gran Bretagna era il riconoscimento della posizione tedesca in Europa Orientale; la restituzione delle colonie tedesche non era indispensabile, in fondo le colonie erano indifendibili in caso di guerra ed il clima dei tropici inadatto al soldato tedesco.

Il mio obiettivo, aveva concluso Hitler, è negoziare una pace con la Gran Bretagna sulla base di condizioni compatibili con il suo onore”.

Entrare nei meandri della contorta psicologia hitleriana non è un compito facile: questa sua ammirazione per il nemico può lasciare perplessi è certo che Hitler non aveva mai cercato lo scontro con l’Inghilterra, è certo che fosse convinto, nel ’39, che gli inglesi non avrebbero combattuto per la Polonia, è certo che non aveva neppure preparato una guerra sui mari, tutti gli investimenti in armamenti erano stati destinati alle forze di terra.

Esiste poi un altro episodio, che fa apparire molto assai meno fantasiosa questa ricostruzione dei fatti, ed è la vicenda di Rudolph Hess e della sua “fuga” in Inghilterra: Hess era stato uno dei più stretti collaboratori di Hitler nella fase di ascesa del nazismo, fino ad essere considerato il suo alter ego; dopo la conquista della Cecoslovacchia la sua posizione si era indebolita, gli era stata affidata la direzione del partito, escludendolo di fatto dalla stanza dei bottoni. Quanto la delusione per questa emarginazione abbia pesato sul futuro di Hess è difficile dirlo: fatto sta che il 10 Maggio 1941 Hess sale su un velocissimo prototipo di aereo Messerschmidt, il Me 110, modificato con l’aggiunta di serbatoi ausiliari e fa rotta verso la Scozia, dove si lancia col paracadute e atterra indisturbato nei pressi del castello di lord Hamilton, che Hess intendeva incontrare. La vicenda ha dell’incredibile: come fu possibile entrare in possesso di un prototipo e farlo modificare, senza destare sospetti, come fu possibile compiere una simile transvolata senza essere intercettato dai caccia o dalla contraerea inglesi, non si riesce a comprendere. Hess, preso subito in consegna dai servizi segreti inglesi, non riuscì a parlare con nessun politico di rilievo, Churchill lo fece internare subito in una clinica privata, mentre lo stesso Hitler lo scaricò definendolo ”mentalmente disturbato” . Hess non volle mai rivelare, neanche al processo di Norimberga, le ragioni del suo gesto, ma da documenti recentemente venuti alla luce sembra proprio che non agisse di sua iniziativa, ma fosse addirittura latore di una proposta straordinariamente generosa del Führer: Hitler proponeva di ritirarsi da tutte le sue recenti conquiste, eccezion fatta per Alsazia Lorena e Lussemburgo (Belgio?), a fronte di una garanzia di neutralità dell’Inghilterra in caso di attacco alla Russia. In fondo questo coincideva con la visione espressa anche nel “Mein Kampf”, in cui Hitler vedeva le conquiste della Germania proiettate principalmente verso Est. Churchill, che aveva ragione di temere le correnti pacifiste nel suo paese, fa scomparire il latore della proposta; condannato all’ergastolo a Norimberga, Hess muore suicida nel ’57 nel carcere di Spandau, ultimo dei gerarchi detenuti.

Si può discutere delle motivazioni, ma è certo che la decisione dipese dalle idee di Hitler: il suo atteggiamento nei confronti dell’Inghilterra oscillava, secondo numerosi testimoni, tra amore e odio: è quindi possibile che, in quella fatidica giornata, Hitler ritenesse la distruzione della BEF una macchia, che l’onore inglese non avrebbe potuto tollerare: è quindi possibile che quanto risolto in quella difficile giornata abbia avuto motivazioni politiche, oltre che militari. Sicuramente la BEF fu salvata dall’ordine di Hitler e questo evento determinerà, in prospettiva, l’esito del conflitto; con la sua decisione il vincitore di quella battaglia, Hitler, creò le premesse della sua sconfitta.

Accerchiati, i britannici lanciarono l'operazione Dynamo, destinata ad evacuare le forze Alleate dalla sacca settentrionale in Belgio e nel Pas-de-Calais, a partire dal 26 maggio. La posizione britannica venne complicata dalla decisione del Re Leopoldo III del Belgio, di arrendersi il giorno seguente, spostato poi al 28 maggio. Malgrado ciò, i britannici decisero di portare avanti l’operazione di sgombero impiegando 850 imbarcazioni di ogni tipo; l’operazione venne coordinata. con la partecipazione dello stesso Churchill, dal castello di Dover da una stanza dove era installata una grossa dinamo e da questo fatto deriva il nome dell’operazione stessa.

Complessivamente dal 27 maggio alle prime ore del 4 giugno, lasciarono la Francia 338.226 uomini, di cui circa 120.000 francesi. Nelle operazioni guidate dall'ammiraglio Ramsey, vennero mobilitate tutte le imbarcazioni disponibili, compresi i panfili privati grandi o piccoli.

I piani iniziali prevedevano il salvataggio di 45.000 uomini entro due giorni, quando ci si aspettava che le truppe tedesche sarebbero state in grado di bloccare i piani britannici. In questi due giorni, però, i britannici riuscirono a mettere in salvo solamente 25.001 uomini, causa la scarsità del naviglio impiegato.

Il 29 maggio le operazioni di imbarco furono paralizzate per molte ore da un violento bombardamento, durante il quale i soldati, presi dal panico, si gettarono a nuoto per raggiungere le imbarcazioni e molti di essi annegarono. L'ammiraglio Ramsey fu costretto a vietare gli imbarchi nelle ore diurne e il ministero britannico della guerra, temendo di non poter mantenere attive le proprie rotte vitali di comunicazione, ordinò di sottrarre all'operazione Dynamo gli incrociatori più moderni. La drammatica richiesta d'aiuto di Ramsey fu però cruciale, e nel pomeriggio del 30 maggio arrivarono sei moderni cacciatorpediniere a prestare il proprio aiuto.

Nelle operazioni di soccorso vennero impiegati in tutto dieci cacciatorpediniere che aiutati da un massiccio intervento della RAF già il 29 maggio consentirono il soccorso di 47.310 soldati britannici, Nonostante un primo pesante attacco aereo da parte della Luftwaffe nella serata del 29, il giorno successivo vennero tratti in salvo altri 54 000 uomini tra cui i primi soldati francesi.

Il 30 maggio continuò senza sosta l'evacuazione delle truppe Alleate, mentre l'artiglieria britannica, con le ultime munizioni rimaste, cercava di tenere a bada le truppe tedesche in avanzata. Durante questa giornata di operazioni, la Luftwaffe affondò ben tre cacciatorpediniere e ne danneggiò sei, senza contare i numerosi pescherecci e i mercantili colati a picco. Entro il 30 maggio 126.000 uomini erano stati evacuati e, ad eccezione di piccoli contingenti rimasti isolati durante la ritirata, tutto il resto del BEF aveva già raggiunto la testa di ponte di Dunkerque. La difesa di questa testa di ponte, contro l'avanzata a tenaglia del nemico da terra, diventò quindi più vigorosa e risoluta. I tedeschi si erano lasciati sfuggire la grande occasione di poter immobilizzare con un rapido e deciso intervento le forze Alleate sulla costa.

Il 31 maggio riuscirono a imbarcarsi 68.104 uomini, mentre i comandi britannici decisero di non utilizzare più le navi da guerra per le operazioni a Dunkerque, dato che non potevano più permettersi il lusso di perdere altre unità.

Nei giorni successivi l'artiglieria tedesca sottopose il litorale di Dunkerque a un intenso cannoneggiamento, mentre la Luftwaffe lanciò l'attacco più violento dall'inizio dell'operazione. In poche ore vennero affondati un cacciatorpediniere francese e tre caccia britannici, assieme a due navi traghetto, un dragamine e una cannoniera. La linea di difesa britannica venne sfondata a Bergues, a pochi chilometri da Dunkerque, il che rese necessario un ulteriore ripiegamento delle retroguardie verso la costa. Verso sera l'ammiraglio ordinò la fine per la giornata delle operazioni di imbarco, ma nonostante tutto ciò ben 64.229 uomini furono tratti in salvo prima della sospensione delle operazioni.

Nella notte del 2 giugno il comandante Tennant, che dirigeva le operazioni da terra, soprannominato perciò dai suoi uomini Dunkirk Joe, trasmise da Dunkerque il messaggio: «Il corpo di spedizione è stato evacuato», ebbe quindi fine l'operazione Dynamo mentre gli ultimi 4.000 uomini britannici lasciarono il suolo di Francia.

Il giorno seguente le truppe tedesche effettuarono l'ultimo sforzo decisivo contro il perimetro di Dunkerque, dove la retroguardia francese fu costretta a ripiegare su una linea che distava poco più di tre miglia (quasi 5 km) dalla base del molo est. L'ultima imbarcazione, il cacciatorpediniere Shikari, salpò alle 3.40 del mattino del 3 giugno con un migliaio di soldati francesi a bordo, un'ora prima del sorgere del sole, mentre i tedeschi stavano ormai per irrompere sulla spiaggia di Dunkerque.

Conclusione

Complessivamente l’operazione fu un grande successo per i britannici che riuscirono a riportare in patria la quasi totalità della BEF, anche se dovettero abbandonare su suolo francese oltre duemila cannoni, 60.000 automezzi oltre ad una incredibile quantità di munizioni e rifornimenti: l’esercito inglese si ritrovò praticamente disarmato, con solo 500 cannoni disponibili, compresi i residuati di guerra. Dunquerque rappresentò anche il primo grave smacco per la Luftwaffe che non riuscì ad ostacolare efficacemente le operazioni inglesi, sia perché le sue bombe si dimostrarono inefficaci sulla sabbia, ma soprattutto perché validamente contrastata dalla RAF, che perse qui oltre 100 apparecchi, ma dette la prima prova del suo valore.

I francesi non erano stati messi al corrente della decisione britannica: quando se ne resero conto l’effetto anche solo psicologico della partenza della BEF fu devastante; non aiutò poi certo le relazioni bilaterali la notizia che gli inglesi respingevano metodicamente i soldati francesi che cercavano di imbarcarsi, perché ogni soldato francese imbarcato significava un inglese in meno salvato. Nonostante ciò, 120000 francesi furono infine raccolti e poi ricondotti nel sud della Francia, dove la guerra continuava.

La situazione francese, però, era ormai disperata: il due giugno era scesa in guerra anche l’Italia, con effetti limitati sull’andamento del conflitto. Il vero problema era che le migliori e le più moderne delle armate francesi erano state spedite a nord e perse nell'accerchiamento risultante anche dall’abbandono degli inglesi; i francesi avevano perso il meglio del loro armamento pesante e le loro migliori formazioni corazzate. Weygand si trovò davanti ad una emorragia sul fronte che si stendeva da Sedan alla Manica. I tedeschi rinnovarono la loro offensiva, il 5 giugno, sulle Somme; l’8 giugno Weygand consigliò al suo governo l’armistizio, consiglio respinto, anche se questa decisione non servì che a prolungare l’agonia francese.

Un attacco su Parigi guidato dai panzer spezzò le scarse riserve che Weygand aveva posto tra i tedeschi e la capitale, e il 10 giugno il governo francese fu costretto a rifugiarsi a Bordeaux, dichiarando Parigi città aperta.

Churchill ritornò in Francia l'11 giugno per incontrare il Consiglio di Guerra francese. I francesi, chiaramente nel panico, volevano che Churchill concedesse ogni aereo da caccia disponibile per la battaglia aerea sopra la Francia; con soli 25 squadroni restanti, Churchill rifiutò, convinto che la battaglia decisiva si sarebbe combattuta sulla Gran Bretagna; ottenne però la promessa dell'ammiraglio francese François Darlan che la flotta francese non sarebbe caduta in mani tedesche. Il 14 giugno le truppe tedesche entrarono a Parigi e il 17 il maresciallo Pètain chiese la resa. File source: http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bundesarchiv_Bild_183-L05487,_Paris,_Avenue_Foch,_Siegesparade.jpg

Il 25 giugno 1940 l'armistizio fu firmato dalla Francia con le potenze dell'Asse a Compiegne, nello stesso vagone ferroviario in cui era stato firmato l’armistizio della Prima Guerra Mondiale.

La guerra continuava con la Gran Bretagna, malgrado le attese di Hitler, malgrado le palesi difficoltà che la prosecuzione del conflitto avrebbe comportato per gli inglesi.

Non ci è dato sapere, malgrado qualche avventurosa ricostruzione cinematografica, quali argomenti siano stati dibattuti in seno al governo ed alle elites politiche inglesi nelle drammatiche settimane intercorse tra lo sfondamento tedesco sulle Ardenne e l’evacuazione della BEF. Non è azzardato però pensare che diverse ipotesi siano state considerate e dibattute in quei giorni, compresa la possibilità, non di una resa, ma di un accordo con Hitler, qualche segnale di disponibilità doveva pur essere pervenuto; esisteva in Gran Bretagna prima della guerra un forte partito filonazista, ma ancora di più esisteva una autorevole corrente di pensiero favorevole ad un appeasement con la Germania, corrente che era prevalsa a Monaco e che annoverava importanti esponenti, tra cui Edoardo VIII, il sovrano che aveva abdicato. A parte ciò, la posizione militare inglese appariva realmente precaria, potendosi contare al momento solo su di un piccolo esercito, per di più disarmato dopo Dunquerque. Non sorprende quindi che in questi frangenti vi sia stato anche un tentativo di approccio con Mussolini, il 25 maggio, per una soluzione mediata, approccio che Mussolini, ormai deciso alla guerra respinge sdegnosamente.

In queste circostanze si è figura di Churchill, che fa la differenza; chiamato al governo subito dopo le dimissioni di Chamberlain, il 10 maggio del 1940, dimissioni causate dal disastroso esito della spedizione norvegese, Churchill si trovò subito di fronte una situazione drammatica: ricordiamo che il 13 maggio è la data dell’attacco e dello sfondamento tedesco sulle Ardenne. Già al momento del suo insediamento, Churchill deve tener conto del nuovo quadro militare del conflitto. Nel discorso ai comuni, tenuto proprio il 13 maggio 1940, il neo primo ministro evoca la violenza bellica e la difficile fase in atto:

 

" Non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Abbiamo di fronte a noi la più terribile delle ordalie. Abbiamo davanti a noi molti, molti mesi di lotta e sofferenza".

" Chiedete, qual è la nostra politica? Rispondo che è condurre la guerra per mare, per terra e nel cielo con tutta la forza e tutto lo spirito battagliero che Dio può infonderci; condurre la guerra contro una tirannide mostruosa che non ha l'eguale nel tetro, miserabile catalogo del crimine umano. Voi chiedete: qual è il nostro obiettivo Posso rispondere con una parola. È la vittoria. Vittoria a tutti i costi, vittoria malgrado qualunque terrore, vittoria per quanto lunga e dura possa essere la strada, perché senza vittoria non c'è sopravvivenza".

Ancora più drammatico il discorso pronunciato il 4 giugno 1940 per commentare l’esito della disperata operazione Dynamo.

Il premier britannico non lascia spazio alla soddisfazione per il salvataggio della BEF; non ha paura di definire la situazione "un colossale disastro militare".

"Dobbiamo stare attenti a non assegnare a questa liberazione gli attributi della vittoria. Le guerre non si vincono con le evacuazioni". E ancora: "le nostre perdite sono state enormi”.

"Vorrei osservare che non c'è mai stato un periodo, in tutti questi lunghi secoli, nel quale potesse essere data al nostro popolo una totale garanzia che non si verificherà un'invasione [...] proveremo a noi stessi, ancora una volta, che siamo in grado di difendere la nostra isola, di superare la tempesta della guerra, di sopravvivere alla minaccia della tirannia, se necessario per anni, se necessario da soli".

Poi, in chiusura, un'anafora, la ripetizione martellante dello stesso gruppo di parole - "we shall fight", “combatteremo”.

"Combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e gli oceani; combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell'aria. Difenderemo la nostra isola qualunque possa esserne il costo. Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sui luoghi di sbarco, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline. Non ci arrenderemo mai, e persino se - ciò che io non credo neanche per un momento - questa isola o una larga parte di essa fossero asservite e affamate, in quel caso il nostro Impero, oltre i mari, armato e vigilato dalla Flotta britannica, condurrà avanti la lotta sinché, quando Dio voglia, il Nuovo Mondo, con tutte le sue risorse e la sua potenza, non venga avanti alla liberazione e al salvataggio del Vecchio Mondo".

Sembra giusto concludere questo articolo con un omaggio all’uomo che, quasi da solo, seppe cambiare, nel ”momento più buio”, le sorti del conflitto, dell’Inghilterra e, forse del mondo intero: Churchill stesso scrive nelle sue memorie, quel fatidico 10 Maggio 1940:

“è come se tutta la mia vita fosse stata solo una preparazione per questo momento”

Il discendente del grande condottiero del ‘700, John Churchill, duca di Malborough, mostrò in quei drammatici frangenti di che tempra era fatto, la stessa del suo popolo, di cui fu impareggiabile interprete.

 

Inserito il:09/12/2019 16:20:34
Ultimo aggiornamento:09/12/2019 16:43:52
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