Federico Babina (Bologna, 1969 – Now Barcellona) - Archiatric
La Classificazione dei Disturbi Psichici (1): Generalità
di Anna Maria Pacilli
Negli appunti che seguiranno troverete, nelle varie sezioni, la classificazione e la descrizione sintomatologica dei disturbi psichici, con l’ambizione da parte mia di renderli facilmente accessibili a tutti, anche a chi nutre una semplice curiosità in materia e, quindi, anche a chi non si occupa nello specifico di Psichiatria o di Psicologia.
Per renderli anche più esemplificativi e comprensibili, ho pensato di allegare alla fine della descrizione di ogni singolo quadro sintomatologico, anche un caso clinico. Come è noto a chi già mi conosce, mi occupo prevalentemente della Psichiatria degli adulti, per cui sorvolerò sui disturbi che caratteristici dell’età infantile, non essendo di mia specifica competenza.
Come fare per fare diagnosi psichiatrica? A differenza delle altre branche della Medicina, non abbiamo un esame “obiettivo” classico, quello che solitamente si fa in un ambulatorio medico, oppure in ospedale al letto del malato. Spesso la diagnosi psichiatrica è una diagnosi di esclusione, cioè vengono esclusi con esami strumentali, ad esempio, dei quadri organici che possono mimare un disagio psichico. Il nostro strumento diagnostico è la nostra mente che lavora per la mente di un altro, con l’eventuale supporto di strumenti testistici, solitamente somministrati da psicologi. Quindi alla base della diagnosi c’è lo strumento di tipo dialogico teso ad indagare le funzioni cognitive, l’emotività ed eventuali dispercezioni del soggetto che si è rivolto a noi.
Come sosteneva il mio Professore di Psichiatria di Chieti, il Prof. Filippo Maria Ferro, un solo colloquio non è sufficiente per fare diagnosi, il lavoro dello psichiatra potrebbe essere paragonato a quello di un archeologo che, mano a mano che si procede con i colloqui cerca di “scavare” delicatamente togliendo gli strati più superficiali, i vissuti più profondi di quella persona. Spesso per qualcuno non è facile raccontare il proprio dolore, per altri, invece, lo psichiatra o lo psicoterapeuta diventa una specie di “porto sicuro” a cui poter approdare. Ma, perché accada tutto questo è necessario che si stabilisca un’alleanza terapeutica, è necessario che il paziente capisca ed impari a fidarsi di noi e per costruire tutto ciò, ci vuole tempo da dedicare all’ascolto, che di per sé, a mio avviso, è già tempo di cura. Il colloquio non è una semplice chiacchierata che si potrebbe fare anche con un amico, o meglio, chi soffre di un disagio psichico potrebbe anche iniziare un rapporto terapeutico, interpretandolo in questo modo; ma quella che varia è la nostra restituzione a quel colloquio, in modo da poter rendere al paziente quella sofferenza che lui ci porta decodificata e più sopportabile.
E’necessario, però, avere un metodo di classificazione comune a tutti gli psichiatri, per poter formulare delle diagnosi, criterio indispensabile per consigliare una corretta terapia. Esistono infatti, dei quadri psicopatologici molto simili, che possono differenziarsi solo per qualche sintomo comune (ricordiamo che il sintomo è ciò che avverte il paziente al suo interno, mentre il segno di una malattia è ciò che l’occhio esterno può osservare), ed anzi, alcuni quadri psicopatologici possono avere anche un esordio comune, ecco perché è necessario seguire l’evoluzione del quadro clinico nel tempo.
Il Manuale Diagnostico e statistico dei Disturbi Mentali (DSM) , derivante dall'originario titolo dell'edizione statunitense Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, è uno dei sistemi nosografici più utilizzati da tutto il mondo per fare diagnosi e parlare un linguaggio comune tra i professionisti sanitari.
Esso è stato redatto dall’American Psychiatric Association (APA). Nel corso degli anni sono state redatte e pubblicate più edizioni del Manuale che si differenziano per qualche criterio e che venivano via via perfezionate. L’ultima edizione classifica un numero di disturbi mentali pari a tre volte quello della prima edizione.
La prima versione risale al 1952 (DSM I) e fu redatta dall’ American Psychiatric Association (APA), in risposta all’OMS (Organizzazione mondiale della Sanità) che nel 1948 aveva pubblicato la classificazione ICD (International Classification of Diseases), che comprendeva, oltre agli altri disturbi, anche i disturbi psichiatrici.
Dopo la prima edizione, ne è stata pubblicata una seconda (II) nel 1968, una terza (III) nell’80, una terza rivisitata (III-R) nel 1987, una quarta (IV) nel 1994, nel 2000 il IV-TR e nel 2013 il DSM-5, l’unico che porta la numerazione araba invece di quella romana, perché essa potrebbe risultare limitante per la numerazione di successive revisioni.
Il manuale DSM-5 è stato pubblicato nel maggio 2013 negli USA, e in Italia nel 2014.
Mentre è considerato da molti, soprattutto nel mondo anglosassone, uno degli strumenti più attendibili per la diagnosi dei disturbi mentali, non è stato, sin dall’inizio esente da critiche che affronteremo, via via, più avanti. Per ora accenno al particolare che l’ultima edizione ha abbracciato il progetto di una classificazione multidimensionale dei disturbi che, in parole semplici, vuol dire cercare di creare una specie di “ombrello” che comprendesse al suo interno vari disturbi accomunati da caratteristiche molto simili, abbandonando il criterio multiassiale caratteristico delle edizioni precedenti, con l’intento di fornire una diagnosi che comprendesse maggiormente le “dimensioni” cliniche del singolo paziente, piuttosto che una rigida descrizione del quadro psicopatologico secondo “assi” diagnostiche. Il DSM-5, (come si legge a pag.6) dovrebbe permettere una descrizione più accurata delle manifestazioni del paziente, aumentando la validità delle diagnosi.
A quest’ultima edizione, tuttavia, sono state mosse molte critiche, come vedremo, perché secondo alcuni in realtà il modello multiassiale (cioè che procedeva secondo assi diagnostiche) aveva il pregio di rispecchiare maggiormente il modello bio-psico-sociale dei disturbi mentali, mentre secondo l’ultima classificazione si rischia di patologizzare ad un estremo e di depatologizzare dall’altro, ossia di fare troppe diagnosi non sempre coerenti con il quadro psicofisico della persona, oppure di farne troppo poche.
Riferimento bibliografico:
American Psychiatric Association, Ed. it. Massimo Biondi (a cura di), DSM-5. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Milano, Raffaello Cortina Editore 2014.