Joseph Mellor Hanson (West Riding, Yorkshire, England 1900-1963) - The Listening Ear
Lo stretto legame fra deficit dell’udito e declino cognitivo
di Francesca Morelli
Un deficit e/o un calo dell’udito e la demenza sarebbero strettamente interdipendenti. È la ‘connessione’ emersa dal Rapporto “Il cervello in ascolto – Lo stretto intreccio tra udito e abilità cognitive”, promosso da Amplifon, che si è occupato di fare chiarezza sul possibile legame tra due problematiche oggi in ‘emergenza’, in funzione dei numeri e delle loro implicazioni sociali.
Sarebbero, attualmente, 360 milioni le persone che nel mondo convivono con un calo dell’udito e 47 milioni coloro che invece soffrirebbero di una forma di demenza più o meno grave: numeri importanti, tuttavia destinati a crescere, fino a raddoppiarsi e raggiungere i 720 milioni di casi per i disturbi uditivi (ipoacusia) e a triplicarsi con 131 milioni diagnosi per i deficit cognitivi, entro il 2050. Complice il progressivo invecchiamento della popolazione e l’ipotesi che un calo dell’udito possa aumentare di oltre 3 volte la probabilità di sviluppare una forma di demenza e che, invece, in presenza di deficit cognitivo in 3 casi su 4 sia riscontrabile anche un problema di ascolto.
Le reali cause del ‘duplice’ fenomeno non sono state ancora totalmente risolte, tuttavia sembrerebbe evidente che una perdita di udito sia responsabile della riduzione del volume della corteccia cerebrale così come delle diramazioni neuronali, con una chiara conseguenza: un generale “affaticamento” e agilità del cervello che si associa a un peggioramento cognitivo.
Due eventi che spiegherebbero così anche la compartecipazione di un disturbo nella percezione e nella comprensione verbale; gli esperti spiegano infatti che il suono di una parola non attiva soltanto la corteccia uditiva, laddove essa viene “sentita”, ma accenderebbe anche numerose aree e reti del cervello nell’area in cui viene “compresa” o associata a un significato semantico e cognitivo.
Si dimostrerebbe così come gli elementi cognitivi – tra cui la memoria a breve termine, l’elaborazione centrale e le esperienze di vita – siano cruciali per capire un discorso in un luogo rumoroso, ancor più delle stesse capacità uditive che influirebbero soltanto per il 10%.
Una associazione quella dell’udito-cervello-demenza, molto complessa che al momento avrebbe aperto diverse possibili teorie: alcuni studi sosterrebbero infatti che l’ipoacusia sia causa di cambiamenti strutturali e funzionali nel cervello, ovvero che aree normalmente attivate dai suoni una volta sotto-stimolate da un ridotto/scarso ‘contatto’ con suoni e parole, favorirebbero un impoverimento cognitivo.
Una seconda corrente di pensiero riterrebbe invece che il cervello, in stato di affaticamento, per compensare la perdita di udito, utilizzerebbe reti neuronali accessorie, riducendo così le risorse cognitive disponibili per svolgere tutte o altre funzioni. «Vanno poi considerati altri fattori – commenta Gaetano Paludetti, direttore dell’Istituto di Otorinolaringoiatria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma – come lo stress e l’affaticamento generale, che possono aggravare ulteriormente gli effetti del calo dell’udito e del declino cognitivo, condizionando le nostre capacità cognitive nell’arco di tutta la vita».
La terza ipotesi propende per la complicità dell’isolamento sociale, secondo cui le difficoltà comunicative associate e dipendenti da un deficit uditivo favorirebbero la solitudine dell’individuo, un fattore di rischio già riconosciuto per la comparsa di disturbi cognitivi. L’ultima tesi sostiene che alla base dell’ipoacusia e di alcune forme di demenza vi sia una stessa malattia microvascolare, favorendo in questo modo l’insorgenza di entrambi i disturbi.
«Da “Il Rapporto ‘Il Cervello in ascolto’ - aggiunge Paludetti – emergerebbero nuove conferme anche sul rapporto di ‘intensità’ fra i due fenomeni: ovvero maggiore è l’ipoacusia, più elevato sarebbe il rischio di sviluppare un deterioramento cognitivo grave». Che si estenderebbe anche a diverse funzioni di ascolto e comprensione tra cui la capacità di attenzione, memoria e o strategico-esecutive, con un calo di potenzialità anche del 30%, portando a poco a poco a un isolamento socio-relazionale.
«Recenti studi di neuroimaging – ha precisato Camillo Marra docente di neurologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma – evidenziano infatti in persone con un calo dell’udito una riduzione dello spessore dei fasci di sostanza bianca nella zona uditiva, quelli preposti al collegamento e all’interazione delle cellule nervose tra loro, indicando l’attivazione di molti meccanismi compensatori cerebrali, che impattano pesantemente sull’impegno cognitivo necessario all’ascolto e alla comprensione».
Un quadro clinico importante e impattante sia sulla persona che sul sistema salute che potrebbe essere però alleviato con approcci terapeutici tempestivi adeguati alla gravità del problema: «Gli ultimi studi in letteratura – conclude Paludetti - dimostrano che ricorrere all’amplificazione acustica contribuisce a rallentare il declino cognitivo in un arco di 25 anni, permettendo di mantenere una buona funzionalità cerebrale e di migliorare le performance generali degli individui. Rallentare anche di un solo anno l’evoluzione dell’ipoacusia potrebbe portare a una riduzione del 10% del tasso di prevalenza della demenza nella popolazione generale».
Oggi le opportunità terapeutiche per raggiungere questo obiettivo, e dunque correggere l’ipoacusia, sono molteplici: spaziano dalle cure farmacologiche, agli interventi chirurgici nei casi più gravi, agli apparecchi acustici che, grazie alle nuove tecnologie, hanno raggiunto dimensioni minime quasi invisibili, con soluzioni personalizzate sulle esigenze della persona e la natura del problema.
Perché la relazione tra udito e cervello è preziosa e la sua salute va difesa e laddove necessario curata, presto e efficacemente.