Cristian Marin (Bucarest, 1967 - West Sussex, UK) - Eating Disorder
DCA: Storia dei disturbi del comportamento alimentare - 2 -
di Camilla Accornero
Come ho accennato nel precedente articolo relativo ai DCA, ho ritenuto significativo, per quanto concerne la spiegazione in merito al significato della convivenza in toto con un tale disturbo, riportare una testimonianza. Verosimilmente, credo che solamente chi ha vissuto in prima persona un’esperienza simile possa davvero comprendere cosa significhi dover convivere giorno dopo giorno con una voce nella testa che induce all’autodistruzione. Ma per non dilungarmi oltremodo, sciorinando a profusione una sequela di parole a non finire, vorrei presentare Sara, una ragazza affetta da anoressia nervosa che si è gentilmente resa disponibile a raccontare la propria storia. Inutile precisare che, in virtù della tutela della privacy, il nome utilizzato è fittizio.
Convivere con un DCA
Incontrai Sara il 15 marzo, in occasione della giornata del “Fiocchetto Lilla” dedicata alla lotta contro i disturbi del comportamento alimentare. Durante l’evento alcune ragazze raccontarono la propria esperienza, ma non Sara, lei rimase in disparte. A prima vista chiunque avrebbe avuto l’impressione che fosse nel bel mezzo di una lite furiosa con due parti di sé, l’una desiderosa di condividere il doloroso fardello che da tempo si era caricata sulle spalle, l’altra del tutto reticente ad assecondare quell’assurda iniziativa. Senza un piano preciso in mente, in realtà senza nemmeno essere certa di sapere cosa dire, una volta terminata la conferenza mi avvicinai a lei. E rimasi letteralmente senza parole. Quella ragazza dal viso emaciato e l’aspetto esile la conoscevo (anche piuttosto bene, malgrado non possa rendere esplicite le circostanze in cui la conobbi), eppure, a pochi anni di distanza, in un primo momento ero stata del tutto incapace di abbinare un nome a quel volto.
Superato l’attimo di imbarazzo incominciammo a chiacchierare e successivamente rimanemmo in contatto. Non mi dilungherò oltre nel racconto di come abbiamo poco a poco ricucito il vecchio rapporto per non incorrere in divagazioni poco pertinenti e passerò subito al giorno in cui, di punto in bianco, senza preavviso e probabilmente anche con le idee confuse, decise di aprirsi con me e raccontarmi la sua storia.
“Temo di poter mandare tutto all’aria e vanificare ogni progresso fatto per uscire dall’anoressia, se non trovo il coraggio per liberarmi di questo peso” aveva esordito pressappoco con queste parole, prima di confidarsi con me, non senza avermi precedentemente chiesto con insistenza se fossi certa di voler condividere con lei un segreto. Accettai senza rifletterci, non tanto perché fossi curiosa, ma perché spinta dal genuino desiderio di aiutarla.
“Non ho mai voluto essere magra per sfilare su una passerella, né ho mai avuto bisogno di seguire alcuna dieta. Sono sempre stata una ragazza snella, con un fisico ben definito e muscoloso, complice la mia passione per lo sport. Quindi, per sfatare qualsiasi pregiudizio legato all’anoressia, ti dico sin da ora che l’essere magra come uno scheletro non era esattamente in cima alla lista dei miei desideri. L’anoressia altro non è che un sintomo, l’esternazione di un dolore di tutt’altra natura”.
Se da una parte incominciai ad intuire quanta sofferenza potesse celarsi dietro alla malattia, mi resi altresì consapevole di quanto spesso ci si convince di conoscere una persona, quando invece non si fa altro che ingannarsi con supposizioni basate, per lo più, sulle esigue informazioni di cui si dispone.
Così, quello che scoprii essere solo il preludio di una storia segnata da un viscerale tormento, divenne la punta dell’iceberg di una vicenda che mai sarei stata capace di immaginare. Si trattava di una di quelle storie che si sentono raccontare al telegiornale, quelle su cui tutti hanno sempre qualcosa da dire, che sia un’opinione, un parere o l’impacciato tentativo di fornire una spiegazione logica.
Quelle su cui la maggior parte delle persone si ritengono autorizzate ad esprimere giudizi a profusione, sia riguardo ai carnefici, sia, talvolta, riguardo alle vittime, arrivando persino a biasimarle per taluni loro comportamenti. Ai fatti di cronaca e alle frasi di circostanza, come “sono cose che capitano e non dovrebbero capitare”, si aggiungono i commenti in merito all’inadeguatezza delle pene, alle inique sentenze e alla brutalità che dilaga nella società. Per poi giungere pressoché sempre alla medesima conclusione, in cui le persone, dopo aver esternato il proprio cordoglio nei confronti della vittima, tornano a ripetersi un rassicurante ritornello: “tanto a me non può succedere”, non perché siano veramente persuase della veridicità di una tale affermazione, quanto piuttosto per illudersi di potersi proteggere dalla crudeltà di cui si può diventare oggetto.
Senza indugiare oltremodo, e per confermare le intuizioni a cui questa profusione di parole possono aver dato adito, porto la testimonianza di una giovane ragazza che ha subito una violenza. Non entrerò in merito ai dettagli, in quanto non lo ritengo opportuno nei confronti di Sara, coinvolta in prima persona, e nel rispetto della sua volontà, pertanto mi limiterò a riportare e parafrasare ciò che mi ha raccontato e che mi ha dato il permesso di divulgare, affinché io possa essere la sua voce, così come in precedenza lo è stato il suo corpo.
“Un uomo, un uomo che conoscevo”, queste furono le sue prime parole, “trent’anni almeno più vecchio di me, una persona matura con una carriera avviata, uno stimato professionista del settore… un individuo insospettabile, di cui, per altro, credevo di potermi fidare”. Disse solamente che per circostanze fortuite le intenzioni dell’uomo non poterono essere soddisfatte appieno. “Ho provato cosa significa sentirsi completamente inermi. Una parte di te, intrappolata da qualche parte, sa che dovrebbe reagire, ma qualcosa nel cervello va in corto circuito e il corpo non risponde più ai comandi. Forse perché in fondo è consapevole che un corpo fragile sovrastato da un uomo di ottanta chili difficilmente riuscirebbe ad opporsi. E poi, quando mani estranee incominciano a frugare tra i vestiti, scivolare sulla pelle, cercare di infilarsi negli anfratti, tu smetti di voler sentire il tuo corpo e preghi la mente di prendere le distanze. E ad un tratto, mentre il pensiero si scinde dalla corporeità, il corpo comincia ad annichilirsi”. Con la complicità di qualche accorgimento narrativo ho cercato, il più possibile, di tener fede alle parole di Sara.
Per quanto una persona sia in grado di empatizzare con un’altra e immaginare di calarsi in una situazione analoga, credo non sia corretto affermare di poter veramente capire cosa si provi; si rischierebbe di peccare di presunzione. Dopotutto, come lei stessa sottolineò: “non credo si possa comprendere a fondo cosa voglio dire se non ci si è mai ritrovati in una situazione analoga. E spero vivamente che tu non abbia mai la possibilità di capirlo appieno”.
Il passaggio che da quell’episodio la condusse verso l’anoressia non fu immediato. Dapprima sopraggiunse la negazione, il convincimento che l’accaduto non avesse mai avuto luogo, motivo principale per cui non ne fece mai parola con nessuno. “Avevo dei lividi impressi sulla pelle, ma le circostanze in cui mi trovavo erano tali per cui si sarebbero potuti imputare a cause diverse. E l’uomo non aveva avuto il tempo di… non con il suo membro almeno, per una serie di eventi fortuiti, che, se apertamente esplicitati renderebbero ad alcuni la situazione riconoscibile” precisò, “per questo motivo, e per altri, decisi di non parlare”. Dovetti accontentarmi di quella spiegazione vaga.
Furono il senso di colpa, l’immagine che riflessa allo specchio le ricordava di saper catturare l’altrui attenzione in un modo che l’aveva portata a provare disgusto verso se stessa, a spingerla a desiderare di voler sparire. “Confesso che il mio primo tentativo di rendermi invisibile sia stato un insuccesso… ma questa sarebbe un’altra storia” ammise, con tanta tristezza nello sguardo, che in quel momento provai un grande desiderio di abbracciarla e dirle che il tempo avrebbe guarito le sue ferite. Ma sapevo, da ciò che mi aveva precedentemente raccontato, che il contatto con altre persone, che fosse una semplice stretta di mano o un abbraccio, le provocasse ancora sensazioni sgradevoli.
“Il mio obiettivo divenne annichilire la mia persona; e per farlo dovevo sopprimere fisico, mente e spirito. E credimi, ci sono riuscita”.
Quando le chiesi come potesse esserne tanto sicura, fu colta da una risata amara. “Guardandomi allo specchio e vedendo il mio esile corpo, un mucchietto di ossa di appena 37 chili, provavo ribrezzo. La mia mente era annichilita, le mie capacità di pensiero e raziocinio compromesse dalle conseguenze dovute all’eccessiva perdita di peso, e il mio spirito totalmente soggiogato alla malattia. Sia ben chiaro, il mio obiettivo non è mai stato diventare anoressica, quanto piuttosto sparire. Scelsi di perdere peso, questo non posso negarlo, ma gli infidi meccanismi messi in atto dalla malattia non li avevo mai inseriti nel quadro generale. Comunque sia, tornare indietro è impossibile, andare avanti… una sfida, non c’è dubbio”.
La testimonianza di Sara mette in luce quanto spesso le persone affette da un DCA siano vittime di pregiudizi, che non fanno che aggravare le condizioni della malattia con la quale già devono convivere. “Non mi sento in toto un numero delle tante statistiche” confidò, “parlano tanto di immagine, di modelle… ma è da ingenui credere davvero che tutte le persone che soffrono di anoressia, bulimia o quant’altro siano diventate vittime di tali patologie solo per un gusto estetico. Personalmente, io non ho mai trovato nulla di bello nel mio corpo quando ero visibilmente pelle e ossa, mah… non voglio generalizzare, né da una parte né dall’altra, vorrei solo invitare a non esprimere giudizi con troppa precipitosità” disse, “alcune volte, rimanere in silenzio è molto più apprezzabile”.
La storia di Sara non è l’unica, né, come da lei stessa ammesso, la più macabra. È solo una delle tante storie che si sentono e che forse non si vorrebbero sentire. Mi disse che il suo più grande rimorso, la colpa con quale sarà costretta a convivere per il resto della propria vita, non è il dover ammettere di essere stata affetta da anoressia, e probabilmente di dover accettare che in parte quella patologia riuscirà sempre a tenersi ben stretto un cantuccio nella sua mente (senza averne più il controllo totale, naturalmente), ma l’aver taciuto, non aver avuto il coraggio di pronunciare quel nome per timore di non essere creduta, per paura che la sua parola, così come quando aveva detto “no” a quell’individuo e non era stata ascoltata, non avesse di nuovo avuto la forza di farsi ascoltare e di essere creduta. “Cosa valeva la mia parola contro quella di un rispettabile uomo, stimato professionista, amico disponibile? Avevo 17 anni, lui…continuo a ripetermi che ne avesse una trentina più di me, ma so per certo, che all’epoca dell’accaduto, era più vecchio di mio padre, che aveva già superato la cinquantina al tempo. Forse la malattia non è stata solamente una maniera insana per rendere possibile la mia idea di annichilimento totale, forse è anche stata una punizione per la mia codardia”. Con tanta sofferenza chiuse il discorso.
In questo momento posso solo sperare che l’aver condiviso il fardello possa averla aiutata.
Vorrei concludere citando ancora una volta le parole di Sara. Alla domanda “quando hai deciso di voler guarire?” mi sorrise amareggiata, prima di rispondere, con una semplicità disarmante: “quando mi sono resa conto di aver toccato il fondo, naturalmente. E, purtroppo, credo fermamente che sia una tappa inevitabile per assumere la consapevolezza che è necessaria per poter reagire”.
Vivere accanto a una persona affetta da DCA
Un ulteriore aspetto concernente i disturbi del comportamento alimentare sono i mutamenti delle relazioni tra l’individuo che ne è affetto e il resto del mondo. Parlando delle cause e dei sintomi della patologia, sono già stati individuati alcuni elementi capaci di far accendere qualche campanello d’allarme, quali la tendenza all’isolamento, i repentini sbalzi d’umore, l’irritabilità e l’aggressività sempre in agguato, le ovvie complicanze dovute alle interazioni sociali legate alle uscite in compagnia. Se tutti questi impedimenti sono ostacoli effettivi per chi soffre di un DCA, altrettante difficoltà sono quelle che si vedono costretti a dover affrontare coloro che vivono a stretto contatto con tali individui. Perché la malattia non si limita a colpire la persona a cui la patologia effettivamente è stata diagnosticata, ma è tanto pervasiva da condizionare l’intero nucleo in cui vive. Tali affermazioni non sono presuntuose illazioni, quanto piuttosto considerazioni emerse a seguito di lunghe chiacchierate con madri le cui figlie sono affette da anoressia e/o bulimia nervosa. Le parole che spesso ho sentito ripetere sono state “qualunque cosa io faccia, è sempre sbagliata”, perché offrire un aiuto induce la ragazza a chiudersi ancor di più in se stessa e peggiorarne le condizioni fisiche; viceversa, non fare nulla viene percepito come menefreghismo, il quale ha un effetto altrettanto annichilente sulla psiche, in quanto induce un particolare tipo di pensiero: “tanto a nessuno importa se vivo o muoio”.
Quelle madri avevano tutte l’impressione di trovarsi in un circolo vizioso dal quale era pressoché impossibile uscire. In aggiunta, ascoltando le parole di una di loro, la cui figlia, affetta da anoressia nervosa, era quasi giunta al punto di non ritorno, capii la devastante sensazione di inettitudine alla quale era costretta a sottostare: “la cosa più straziante è sentirsi del tutto impotenti di fronte al deperimento costante della persona a cui si vuole più bene al mondo. Hai la persona che ami più della tua stessa vita davanti agli occhi e non riesci a fare nulla per aiutarla”.
Le persone che vivono indirettamente queste patologie devono armarsi di una grande forza d’animo e non lasciarsi abbattere, sopportare le critiche e i commenti sprezzanti pronunciati con cattiveria da coloro che amano, ma la cui voce è stata rubata dalla malattia.
Non bisogna arrendersi ma perseverare nella lotta, perché quando coloro che sono affetti da un DCA cesseranno di essere succubi del canto seducente della malattia, si renderanno conto di non essere stati lasciati soli. Ci vorrà del tempo, forse più di quanto ciascuno sarebbe disposto a sopportare, ma bisogna aver fede che quel momento arriverà.