Francesco Saverio Altamura (Foggia, 1822- Napoli, 1897) - Chirone centauro canta la liberazione di Prometeo
Il guaritore ferito
di Monica Soave
Non c'è cura che possiamo offrire senza guardare alla nostra ferita. Non c'è ferita che possiamo curare se non la riconosciamo come nostra. Non c'è guaritore che non debba essere guarito.
La mitologia ci invita a riflettere offrendoci tutta la saggezza e la verità di Chirone.
La sua storia non nasce certo sotto una buona stella. Frutto di uno stupro e rifiutato dalla madre, venne salvato da Zeus e portato sull’Olimpo. Egli, il più saggio e benevolo dei centauri, esperto di arte medica e guaritore per eccellenza, fu insegnante di Asclepio, padre stesso della medicina e di Eracle.
Quest'ultimo fu la causa della fine di Chirone quando, scatenata l'ira dei centauri dopo una giornata di caccia, nel tentativo di respingerli scagliò una freccia avvelenata colpendolo alla gamba. Questa inguaribile ferita condannò la sua vita ad un'eternità di continuo dolore.
Un giorno si rivolse dunque a Zeus implorando la morte, ma questa immediata liberazione gli fu negata. Tuttavia, anche con il padre degli dei era possibile trovare un compromesso di tanto in tanto e così gli fu concesso di donare l’immortalità a chiunque l’avesse voluta. Chirone si mise alla ricerca, ma ben presto scoprì che nessuno era così interessato al suo dono finché non incontrò Prometeo.
Prometeo era stato condannato per aver disobbedito a Zeus portando il fuoco tra gli uomini. Qui il fuoco sta a simboleggiare la luce, la coscienza e per Zeus, saggio padre, non era di certo ammissibile uno smercio di coscienza gratuito! Essa era una preziosa conquista che andava faticosamente guadagnata e dunque, preda della collera, punì Prometeo con mano tutt’altro che leggera.
Lo condannò a rimanere legato ad una roccia per l’eternità con il fegato che cresceva di giorno e veniva mangiato da un’aquila ogni notte. Quando i due si incontrarono Prometeo si offrì di prendere il dono dell’eternità su di sé, del resto peggio di così non poteva andare!
In quel momento Zeus, mosso a compassione, decise di liberare entrambi, concedendo loro la morte.
Nella figura di Chirone esistono, con la stessa forza, il guaritore e il ferito. Si integrano senza scissione alcuna, in un abbraccio contraddittorio che si scioglie solo nell'atto dell'amore incondizionato. Qualsiasi cosa voglia dire "donarsi ad un altro" Chirone la rappresenta.
La ferita è lo spazio simbolico in cui Chirone permette al dolore di entrare dentro di sé, regalando, e non casualmente scelgo questo termine, un contatto profondo con la propria sofferenza. Chirone può guarire tutti, tranne se stesso. La cura che offre agli altri è ineguagliabile e non è un caso che proprio lui sia il custode di un talento così grande.
Il mito ci propone il senso più profondo del conoscere e ri-conoscere, inteso come conoscere di nuovo, la nostra ferita originaria.
Conoscerla per non pensarla al di fuori di noi, per non cadere nella facile e lusinghiera trappola della "colpa dell'altro", per non avere mai a che fare con la presunzione del sapere. Ri-conoscerla guardandola con occhi nuovi, cogliendone le opportunità, integrando la nostra sofferenza a quella dell'altro.
La vita ci ripropone i nostri occhi bendati continuamente, e non siamo mai tanto furbi da poter scappare. Nella nostra tensione continua al bene smettiamo troppo spesso di considerare che non c'è bene senza la sua controparte.
È la ferita chironiana che tiene aperto quel canale dal quale fluisce il dolore, ma anche la compassione, la benevolenza, l'empatia.
Ri-conoscere significa smettere di sapere. Sapere non ci basta per fare quel salto necessario a respirare diversamente. Sapere con la mente porta alla rabbia, so che mi hai fatto del male dunque ti allontano o ti odio, o ti combatto.
Quando il dolore ci rende miseri, o miserabili, non lo abbiamo accolto, guardato, conosciuto, perfino ringraziato. Non abbiamo guardato il dolore di chi, disgraziatamente, ci ferisce.
Non è questa la cura che serve, la cura del raziocinio nella morsa della logica, dove tutto si conosce ma niente si risolve, in cui sappiamo sempre come andrebbe vissuta la vita degli altri e poco la nostra. La cura alla quale crediamo di essere approdati ogni qual volta ci sentiamo sul podio dei vincenti giudicatori, relegando l'altro sul gradino dei poveracci, ai quali abbiamo tutto da insegnare e niente da apprendere.
La non compassione ci toglie umanità, quando il dolore di un altro non è sentito, non è vissuto, non è accettato, perdiamo umanità. Perdiamo la possibilità di un'autentica felicità che abbraccia solo chi è pronto ad accoglierla.
Chirone non voltò mai le spalle a chi gli tendeva le braccia a causa della sua ferita e non si perse mai nel giudizio.
E in fondo quello che vogliamo non è solo qualcuno che resti fermo accanto a noi quando tutto pare andare a rotoli?
È una lezione grande, semplice e bella e vorrei io stessa averla già imparata abbastanza.
Quando apriamo noi stessi all'altro, che sia ferito o guarito, senza per questo soccombere ai suoi guai, il nostro stesso bisogno non sarà escluso, ignorato, incatenato al suo posto come un prigioniero, ma sarà parte di quel momento salvifico e, al momento giusto, ci sarà qualcuno disposto a salvarci, a prendere la nostra croce, ad asciugarci il viso… quel tanto desiderato Prometeo.