Jan Brueghel il Vecchio (Bruxelles, 1568 – Anversa, 1625) – Allegoria del Gusto (1873)
Nascita del gusto e Disturbi alimentari
di Anna Maria Pacilli
Questo è il riassunto della mia relazione tenuta il 6 Aprile presso il Centro Pannunzio di Torino, in occasione dell’evento “ Il cibo all’alba del Millennio”.
Il gusto che in questa sede è assimilabile all’oggetto “ cibo”, che pure rappresenta per tutti gli esseri umani una parte fondamentale della vita, ha, nella realtà di tutti i giorni, un significato molto più ampio.
Il gusto, infatti, si rifà all’arte.
Avere gusto, quindi, assume il senso non solo di assaporare una pietanza prelibata, ma anche di ammirare un paesaggio, un’opera d’arte, un romanzo.
Il gusto (bello od anche brutto che sia, perché se pensiamo a certi sapori o a certe opere d’arte, ci viene spontaneo pensare che di bello abbiano ben poco), permea molti aspetti della nostra vita, direi tutti, ma, se ci soffermiamo sul cibo, è necessario analizzare come sia possibile il passaggio da uno stato fisiologico di amore per il cibo, la buona tavola e le situazioni di convivialità, ad uno stato in cui si arriva ad odiare il cibo (e la convivialità), che viene visto come un nemico, come accade nei disturbi del comportamento alimentare.
La nascita del gusto avviene già nella vita intrauterina e di questo è “responsabile” la madre. Il cibo di cui si alimenta la madre passa attraverso la barriera placentare che diventa così veicolo tanto di nutrimento che di gusto.
Quindi un’alimentazione materna carente o non corretta non solo causa carenze di nutrienti nel feto, ma anche difficoltà ad “amare” il cibo dopo la nascita. Successivamente l’ “apprendimento” del cibo avviene per imitazione.
Certe forme di Neofobie precoci potrebbero essere ricondotte a questo atteggiamento, quando, invece la neofobia è pressocché sconosciuta nei primi due anni di vita (quanti bambini si mettono a leccare i pavimenti se lasciati a terra, come se fossero cibi gustosissimi!) e si manifesta solo successivamente: il bambino acquisisce la capacità di apprezzare determinati cibi e si tiene lontano dai gusti nuovi.
La Neofobia aveva, antropologicamente, nei nostri antenati, un significato protettivo rispetto alla ingestione di erbe velenose od alimenti deteriorati, quando essi iniziavano ad esplorare ambienti veicolanti possibili pericoli alimentari.
Certe scelte alimentari alquanto discutibili se compiute al posto dei propri figli, oggi sono rappresentate dagli estremismi alimentari, come il vegetarianesimo o, ancora di più, il veganesimo, al quale vengono educati i bambini già molto piccoli dai genitori che “professano” questa scelta di cibo, spesso portandoli al rischio di grosse carenze nutrizionali o, se non a questo, sicuramente alla incapacità di acquisire gusti variati in fatto di alimentazione.
Il cibo, si diceva, è convivialità, è comunicazione, è compagnia.
In una alimentazione non più “piacevole”, come accade nei Disturbi del comportamento alimentare, si perde il piacere della comunicazione.
Chi è affetto da questi disturbi, sia in senso anoressico, che sul versante bulimico, non riesce più a mangiare in compagnia. Si rimane soli con il proprio cibo, assolutamente insufficiente nelle anoressiche e decisamente eccessivo nelle bulimiche.
Il cibo diventa una sorta di esperienza drogastica: da evitare nel primo caso e da vivere in maniera sconsiderata nel secondo.
Così come accade nei soggetti affetti da binge eating disorder, nei quali inevitabilmente si arriva al sovrappeso ed alla obesità, perché non viene adottata nessuna condotta di eliminazione.
Al pari del cibo, per quanto concerne la sessualità, essa rappresenta comunicazione, relazione, gioia.
Anche questo lato fisiologico della vita viene vissuto in modo patologico da coloro che sono affette dai disturbi del comportamento alimentare: negazione e rifiuto della sessualità, assieme alla negazione della femminilità nel disturbo anoressico, ed esperienze affaccendate e spesso promiscue nel disturbo bulimico, laddove però, non si riscontra, come spesso raccontano le nostre ragazze, il raggiungimento del piacere, ma una “abbuffata” di sesso che tutto fa, fuorché colmare il vuoto interiore che le assale e che, anzi, rimane, paradossalmente, sempre più “vuoto”.
La cura di questi disturbi non può prescindere dall’amore.
Dal nostro amore per queste ragazze, prima ancora che dalla somministrazione di farmaci o da consigli psicoterapeutici.
Non dimentichiamo mai, nel nostro lavoro, che M. Balint (1896-1970), riteneva, ed a ragione, che il primo farmaco che il medico somministra è se stesso. L’accettazione di ogni terapia non può venire prima dell’accettazione del curante, che, invece, se accettato, riesce ad anticipare e a migliorare la riuscita di ogni programma terapeutico.
(Pubblicato anche su www.annamariapacilli.it)