Katie m. Berggren (Washington - ) – Mother nursing child
Nascita del gusto: rapporto madre-figlio
di Mara Antonaccio
L’incontro dell’uomo con il cibo avviene da neonato, quando la prima forma di relazione che ha con il mondo esterno, passa attraverso la madre ed ha come strumento l’allattamento, poiché il latte è il primo alimento conosciuto. In queste fasi iniziali il cibo è importante sia per lo sviluppo fisico, che per quello della dimensione sociale e psicologica, esso diventa modulatore della relazione tra il piccolo e il mondo esterno: il cibo non è solo nutrimento ma diventa un “canale comunicativo”.
Attraverso il latte prima, e con lo svezzamento poi, il bambino vede soddisfatti i propri bisogni primari di sicurezza e di benessere e inizia la sua formazione alimentare; il gusto infatti si costruisce sin dai primissimi giorni di vita ed è nel primo anno che si forma il palato, e il responsabile maggiore del suo sviluppo ed evoluzione è la madre.
Nei bambini allattati al seno il problema si sposta di qualche mese, mentre nei neonati che bevono latte artificiale si presenta da subito: comunque avvenga la loro nutrizione, da che è la madre ad occuparsene, sarà lei a decidere quantità e tipologie di cibo. La continua interazione tra il bambino e la persona che si prende cura di lui, ha un peso importante nella caratterizzazione dei differenti stili di comportamento, sino all’adolescenza prima, e all’età adulta poi. Istintivamente i genitori sono spinti ad occuparsi dei piccoli, se i Mammiferi (di cui noi umani rappresentiamo l’espressione evolutiva più sofisticata, che ci pone in cima alla catena alimentare) sono diventati la Classe animale dominante sulla Terra, lo si deve soprattutto alla loro capacità di occuparsi della prole.
Essi infatti, oltre che ad aver sviluppato la termoregolazione, hanno imparato a produrre latte; le femmine hanno modificato delle ghiandole sudoripare e le hanno trasformate in mammelle, permettendo di garantire nutrimento ai nuovi nati, con cibo sempre caldo e a disposizione; inoltre hanno sviluppato tutta una serie di comportamenti che permettono ai genitori di far durare nel tempo la coppia e di garantire ai figli la permanenza nel clan, sino all’indipendenza alimentare. Le cure parentali, così si chiama l’insieme di attenzioni citate, oltre a modificare il corpo dei Mammiferi, ne hanno modificato i comportamenti sociali.
Nel cervello umano infatti, il pianto del neonato e del bambino eccitano la parte più antica dell’encefalo: l’Ipotalamo.
In tutti noi, anche se i figli sono cresciuti o se non ne abbiamo avuti, il pianto innesca atteggiamenti attentivi; chi non pensa in tale situazione del piccolino: «avrà fame, sentirà freddo, ha mal di pancia?».
Queste reazioni di allarme, da milioni di anni a questa parte, hanno significato un fattore evolutivamente vincente, inoltre tutto il complesso sistema di regolazione ormonale ipofisaria, ha messo il suggello alla faccenda. L’Ipofisi, infatti, ghiandola centralina che si trova al centro dell’Ipotalamo, produce una serie di ormoni detti della famiglia, il più importante di essi è l’ossitocina. Questo viene rilasciato durante il rapporto sessuale e nell’orgasmo, provocandone le piacevoli contrazioni, e ha come funzione principale quella di rendere gradevole l’accoppiamento e favorirne la ripetitività (solo l’uomo e pochi primati fanno sesso anche in momenti non legati alla riproduzione, solo per piacere e per modulare dinamiche sociali). Durante il parto induce le contrazioni delle doglie, attraverso le quali il muscolo uterino espelle il bambino, passando dal canale del parto. La stessa ossitocina fa spremere gli acini mammari nell’allattamento e rende piacevoli le sensazioni tattili del seno femminile; nel maschio favorisce l’erezione e rende gratificante il piacere sessuale.
Pensate che quando un adulto prende per mano un bambino o un altro adulto verso il quale prova sentimenti di affetto, l’Ipofisi produce ossitocina, che inoltre attenua lo stress, accresce la fiducia e aiuta a socializzare. Meravigliosa natura!
Come comprenderete, tutto questo fa sì che i nuclei familiari degli esseri umani mantengano rapporti affettivi e di frequentazione anche dopo lo svezzamento dei figli, e nel mondo animale questo rappresenta una rarità.
La madre è dunque colei che crea il primo contatto del bambino con il cibo ed è lei, spesso, il problema; è lei che educa i figli all’alimentazione, proponendo cibi da assaggiare e decidendone le quantità, che nei primi anni di vita, segna indelebilmente le loro abitudini future e la loro struttura fisica. È risaputo che le cellule adipose si moltiplicano nell’ultimo mese di vita intrauterina e nel primo anno: bambini grossi alla nascita e in sovrappeso i primi 12 mesi, hanno maggiori possibilità di essere adulti obesi, con percentuali che sono molto più alte dei bambini normopeso. Freud ed altri terapeuti famosi hanno scritto molto sul rapporto madre-figlio e non è questa la sede per affrontare argomenti psicoanalitici, di certo però esso è segnante per il modo di nutrirsi di un adulto. Dicevo che anche negli anni dell’infanzia e poi dell’adolescenza, le abitudini alimentari sono determinate dalla madre in primis, e dal nucleo familiare successivamente; nella pratica professionale vedo spesso genitori robusti o obesi con figli in sovrappeso. Già dallo svezzamento, quindi, la madre decide cosa piacerà al figlio. Solitamente tendiamo a non far assaggiare ai piccoli cibi che non ci piacciono o verso i quali proviamo ribrezzo o che sono frutto di prescrizioni religiose: spesso nelle mie terapie alimentari familiari, scopro che il paziente non ha mai assaggiato un certo alimento, perché mamma non lo mangia. Per contro, le cattive abitudini familiari sono subito recepite dal bambino. Genitori che mangiano fuori pasto, che non preparano le pietanze a casa, che non hanno voglia di perdere tempo con una cucina sana, faranno passare queste abitudini ai figli, per i quali tutto ciò rappresenta la normalità.
Dai dati raccolti in vari studi, emerge che è scarsa da parte dei genitori la consapevolezza del problema, infatti quasi nel 40% dei casi, essi non si accorgono del sovrappeso o dell’erroneo sviluppo dei figli; tra le madri di bambini obesi, il 40% circa non ritiene che il proprio figlio sia in eccesso ponderale e solo il 30% circa pensa che la quantità di cibo assunta sia eccessiva. Inoltre, solo il 40% circa delle madri di bambini che non svolgono attività fisica o ne fanno poca (una volta a settimana) ritiene che il proprio bambino sia pigro.
Sempre per la mia professione visito bambini dai 6 ai 12 anni circa, che svolgono attività sportiva, e ogni volta che vedo le dinamiche genitore-figlio, inorridisco. Quasi sempre i piccoli e i ragazzi, che solitamente svolgono un paio di allenamenti nei 7 giorni, vengono accolti dagli adulti con pacchetti di patatine, panini con marmellata o cioccolata, tranci di pizza; se consideriamo che in un’ora di sport a quell’età (nuoto, minibasket, calcio etc.) si dispensano tra le 100 e le 300 kcal., e che una sacchetto da 30 gr. di patatine ne fornisce 150, un panino più o meno uguale e un trancio di pizza sulle 200/300, si comprende come lo scopo di ottenere consumo calorico sia vanificato. Anzi, siccome le merende solitamente proposte sono le stesse, sport o meno, i bambini finiscono con l’acquistare dai 2 ai 3 chili all’anno, costantemente. Dove sono finite le mele in cartella, gli yogurt e la sana fettina di pane con un po’ di prosciutto? Scomparse come la volontà e il buon senso alimentare degli adulti.
E’ necessario prestare molta attenzione all’educazione alimentare dei bambini, affinché un giorno diventino adulti sani e consapevoli, formati a non accettare un alimento solo perché è “bello” o “figo”, senza sapere se è in realtà anche buono per la salute.
Soprattutto, il cibo non deve essere utilizzato dagli adulti come premio, punizione o consolazione, veicolando un messaggio distorto: le motivazioni sono serie.
Il rapporto cibo-emozioni nasce sin dalle prime fasi della vita e mantiene forti valenze psicologiche per sempre.
Le emozioni influiscono sulla qualità e quantità di cibo assunto in ogni fase e in ogni momento della vita.
Una madre naturalmente attenta alle necessità del bambino, dà cibo in risposta al bisogno nutritivo e basta, non per calmare capricci o per lenire suoi sensi di colpa, questo permette lo sviluppo della fame come idea separata da altri bisogni emotivi. Una madre che risponda in modo differente a queste necessità infonde confusione, perché non sa distinguere tra un bisogno fisiologico e un sentimento di stress.
Le mamme ipernutritive consolano il bambino mettendogli in bocca il biberon o dandogli un biscotto, questo comportamento gli fa associare il cibo a una cura per lenire le esperienze spiacevoli, in un meccanismo di causa-effetto che presto diventerà automatico e che porterà ad effetti devastanti nel tempo.
Così nasce il rapporto distorto con il cibo, quel famoso demone che chi, come me, combatte con l’inutile fame emotiva, si porta dentro e che potrà tenere a bada, senza mai scacciarlo, solo a fronte di esercizio, costanza ed applicazione.
Trasformare in un meccanismo naturale un rapporto distorto può indurre il bambino a usare il cibo nella relazione, utilizzandolo come arma di ricatto: non mangio o mangio troppo e comunico così il mio disagio emotivo. Le disfunzioni del comportamento alimentare sono in realtà sintomi che creano un rapporto non sano in famiglia e ne sono anche conseguenza.
Del resto, per i genitori la tentazione di usare il cibo come mezzo per ottenere un determinato comportamento è molto forte, soprattutto perché garantisce l’ottenimento del risultato desiderato, senza grandi sforzi. Il cibo riesce a calmare, rassicurare; le origini sono lontane, ne ho parlato solo poche righe fa, il pianto del neonato si acquieta accostandolo al seno e allattandolo e quasi tutti i genitori non resistono al piacere di vedere il figlio felice di mangiare. Chi di noi per tranquillizzare capricci, grida e comportamenti stressanti dei bambini, che non siamo riusciti a gestire diversamente, non è ricorso ad un sacchetto di patatine, ad un gelato o ad una brioche? Il problema è che manipolare il comportamento del bambino attraverso il cibo può generare conseguenze difficilmente gestibili nell’adolescenza e nell’età adulta. Utilizzando il cibo come ricompensa o castigo o come mezzo, insegniamo ai piccoli ad associare la gestione di una situazione stressante al cibo stesso. Quante volte ci scopriamo a mangiare sovrappensiero, senza consapevolezza, fuori pasto o in dosi eccessive e non per fame? Lo facciamo in molti, e lo facciamo se siamo nervosi, annoiati, stanchi o distratti. Perché si innesca questo comportamento che finisce coll’ incidere sul peso?
L’associazione alterata emotività-cibo, con il tempo diventerà alimentazione compulsivo-emozionale, con un meccanismo di causa-effetto e porterà al sovrappeso e all’obesità o al calo ponderale esagerato ed infine all’anoressia.
Come genitori ed adulti in generale, abbiamo la responsabilità e il dovere morale di farli crescere sani fisicamente ed emotivamente e dobbiamo creare in loro una coscienza alimentare che li aiuti ad adottare uno stile di vita sano. Il cibo è nutrimento, relazione e convivialità ed è bene educare i piccoli ad apprezzarlo con dinamiche sane e naturali.