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Statalismo e Democrazia
di Ruggero Cerizza
Negli ultimi trecento anni abbiamo assistito ad un continuo e progressivo incremento dell’attenzione rivolta alle “scienze sociali” (economia, economia politica, sociologia, scienze politiche, geopolitica, demografia, antropologia culturale, scienze storiche, ecc.); e in tutto il periodo l’orientamento scientifico prevalente ha oscillato tra due interpretazioni, nate dalla stessa matrice di pensiero, il “liberalismo” in senso ampio, ma ritenute antitetiche : l’ala conservatrice e l’ala radicale.
Entrambe le posizioni partivano dallo stesso assunto dell’esistenza di un “benessere comune” di un interesse generale della società che noi possiamo conoscere e determinare mediante l’indagine scientifica; questa idea ci ha seguito sino ai giorni nostri.
Pur avendo lo stesso fine, le due ali prediligevano mezzi tra loro differenti.
L’ala radicale sosteneva l’idea che un’armonia di interessi esisterebbe solamente in una società nella quale le istituzioni – in particolare la distribuzione della proprietà – fossero modificabili e dovessero essere modificate.
L’ala conservatrice, invece, fu caratterizzata da un maggiore “realismo”: si astenne dallo speculare su un “ordine naturale” diverso dall’ordine esistente, studiò la società com’essa era. Con quest’approccio essa pose le basi per la moderna scienza sociale, ma, nel contempo, si orientò, in senso politico, verso la filosofia del non fare niente (laissez-faire).
L’azione politica prevalente nell’ottocento si ispirò alla posizione “conservatrice”; dopo la prima guerra mondiale, adottò, invece, mezzi e strumenti ispirati alle tesi radicali, con una inclinazione verso l’“ingegneria sociale” ante-litteram.
Infatti, come reazione ad una situazione di arretratezza economica e sociale si assiste agli sconvolgimenti politici di impronta comunista in Russia (rivoluzione bolscevica) e in Cina (rivoluzione comunista e poi culturale); come reazione ad un modello democratico debole e ad una deriva sovietica si assiste agli sconvolgimenti di impronta totalitaristica, in Germania (nazionalsocialismo) ed Italia (fascismo); come reazione ad una grave recessione economica scatenata da una bolla nei mercati azionari si assiste ad un intervento di impronta pattizia negli Stati Uniti di America (New Deal Roosveltiano).
Questi cinque fatti storici sono estremamente diversi e peculiari, tuttavia, a mio avviso, sono accomunati da due soli aspetti: (i) tutti avevano come fine ultimo il “benessere comune” e (ii) tutti sono stati caratterizzati dal più centrale e predominante ruolo assunto dalle istituzioni pubbliche orientato a modellare e modificare in maniera strutturale e continua la società, sia nelle sue istituzioni che nelle sue consuetudini e costumi.
Possiamo dire che lo “statalismo”, anche qui nel senso più ampio, ha avuto il sopravvento sull’impostazione più statica e fatalista che il comportamento dello stato non può cambiare le consuetudini del suo popolo.
Orbene, vi chiederete, tutta questa premessa cosa centra con la democrazia?
È presto detto, tutti noi occidentali siamo e ci dichiariamo assolutamente a favore del sistema democratico, e questo è assolutamente un bene.
Tuttavia, nel tempo, l’orientamento politico-sociale prevalente, sia in ambito scientifico che nell’opinione pubblica, ha associato, come fosse necessario, il modello democratico ad un sempre più pervasivo intervento delle istituzioni statali e sovranazionali nella vita privata del popolo, sia nel loro essere cittadini, che negli aspetti economici, ludici, culturali, sanitari, lessicali, e financo in quelli personali e delle tendenze sessuali.
Perché accettiamo così di buon grado, anzi addirittura, auspichiamo questa ingerenza che limita progressivamente le nostre libertà individuali? Sono davvero così necessarie ed efficaci per rendere più armonica la convivenza sociale?
Perché, argomentiamo, in un sistema democratico (i) coloro che ci governano sono espressione dei rappresentanti eletti da noi, (ii) perché decidono a maggioranza, (iii) perché il loro potere è “pro tempore”, ad ogni tornata elettorale, possiamo “mandarli a casa”, e, infine, (iv) perché si fanno consigliare e indirizzare dagli scienziati sociali (esperti e competenti disinteressati) e quindi “sicuramente” ed “efficacemente” perseguiranno il “benessere comune” nel breve, nel medio e nel lungo termine.
Rinunciamo consensualmente e volentieri ad alcune nostre libertà perché in cambio non dobbiamo più preoccuparci di nulla o quasi, ad ogni problema ci pensa lo stato e lui …… risolve.
Quasi come se lo stato democratico, in quanto tale, sia giusto e infallibile per grazia divina o per legge naturale e quindi possiamo affidare a lui serenamente il nostro presente ed il nostro futuro.
Questa impostazione mi appare un po’ semplicistica e “facilona” perché, in realtà, nasconde alcuni rischi:
- il processo di selezione dei governanti può essere falsato da criteri diversi dalla loro verificata capacità di azione (promesse in cambio di voto),
- la decisione assunta a maggioranza non ha, per ciò solo, alcuna valenza di correttezza scientifica,
- la classe dei burocrati, veri detentori del potere negli stati moderni, è diventata inamovibile e quindi non più temporanea e sostituibile, ed anzi orientata a mantenere nel tempo il proprio potere ed i propri privilegi,
- le scienze sociali sono per loro natura diverse da quelle naturali in quanto prive del requisito di riproducibilità del fenomeno e della intersoggettività, l’efficacia delle loro teorie può essere certificata solo a posteriori ed in un determinato periodo storico,
- infine perché il “benessere comune” è un concetto tutt’altro che universale.
Il concetto di ”ingegneria sociale”, o statalismo, può essere definito come il processo logico di collegare giudizi di valore a situazioni di fatto e a concrete tendenze di cambiamento e di derivare, da questa combinazione, piani scientifici di politiche dirette ad indurre alterazioni alle tendenze sociali previste.
E poiché queste ultime sono essenzialmente originate dalle opinioni degli individui, l’obbiettivo “ultimo” degli ingegneri della società è quello di cambiare l’uomo con metodi persuasivi o coercitivi, il più delle volte con un mix dei due.
Il concetto di ingegneria fa riferimento alla ricerca pratica di soluzioni di problemi tipicamente governati dalle leggi delle scienze naturali, che per loro natura si muovono su un piano deterministico e definito temporalmente.
Nel mentre le scienze sociali, in quanto tali, non possono prescindere dal fatto che le opinioni degli individui rappresentano non soltanto atteggiamenti volitivi verso i problemi sociali ma anche loro punti di vista incompleti ed inesatti sui fatti della realtà sociale.
Già questa differenza sostanziale dovrebbe instillare qualche ragionevole dubbio sulla validità dell’associare il concetto di ingegneria alla sfera sociale. Senza dimenticare che i processi sociali richiedono tempi generazionali per manifestare i loro effetti.
E’un rischio che vogliamo davvero correre o non è più prudente riservare alla sfera privata la gestione di alcune problematiche e accettare di “fare nulla” per tentare di risolverle?
Se diamo tutti questi poteri agli organismi statali ci esporremo sempre di più al rischio che qualcuno intenda usarli per fini difformi da quelli voluti, desiderati o auspicati quando abbiamo acconsentito a questa concentrazione di potere.
Ma non solo.
Se è vero, come è vero, che anche uno stato democratico, seppure ispirato dalle migliori e più nobili intenzioni, può imboccare una strada sbagliata, riducendone le sfere di azione, forse, riusciremmo a mitigarne i danni diretti e quelli collaterali.
La democrazia non è esente da rischi di degenerazione, è un modello che deve essere regolato attentamente e continuamente e la sua manutenzione non può essere data per scontata.