Maria Luisa Ritorno (Milano, Contemporanea) - Pensieri che vanno - 2014
Facebook e Web: divergenze parallele, stavolta
di Marco Valerio Principato
Qualche tempo fa argomentavo sulla convergenza, pur nell’indipendenza, tra i due mondi. Oggi accade qualcosa di diverso.
Correva l’anno 2014 quando – arditamente, lo ammetto – argomentavo sul concetto di “convergenze parallele”[1], l’ossimoro caro all’On. Aldo Moro, sostenendo la tesi secondo cui Facebook e il Web erano, pur restando parallele, due realtà convergenti. Oggi però le cose son cambiate.
Non si può più dire che Web e Facebook convergano pur essendo paralleli, cioè che siano due mondi al contempo conviventi (Facebook convive con altri siti Web) e convergenti in quanto “l’uno contenuto nell’altro” (App mobili a parte, a Facebook si accede come sito Web, è “contenuto” nel Web), per diversi ordini di ragioni.
Facebook ormai ha praticamente “sostituito” il Web. Se pubblichi su Facebook, qualcuno ti leggerà. Ma se pubblichi “solo” sul Web, a leggerti ci sarà una sparutissima minoranza, a volte quasi nessuno. Non è colpa di chi scrive, che improvvisamente lo fa in modo dissonante, incomprensibile, inadeguato; non è colpa di Google, che non ti indicizza o non fa reperire il tuo sito correttamente; tecnicamente, è colpa di – o, meglio, è dovuto a – Facebook.
Non a caso, i media mainstream e gli acchiappaclick oggi sono tutti su Facebook e chi non c’è – come ad esempio La Verità di Belpietro - o pensa di farcela per via di un proprio, affezionato parco lettori ben noto, circoscritto, misurato e opportunamente fidelizzato, o ha un target particolare, ben delineato e affezionato già di suo, o resiste con forze proprie (leggasi finanziamento diretto dell’estensore), oppure è destinato a soccombere.
Un’altra “spia” della degenerazione è rappresentata dai commenti diretti (quindi sui siti, non su Facebook). Prima fioccavano, sempre e comunque. Oggi no. Oggi i commenti aleggiano ancora solo in poche realtà Web, e spesso solo in certi casi, a fronte di certe argomentazioni, ma in gran parte latitano. Dove sono finiti i commentatori, specie quelli di “cattiva qualità” come i criticoni a oltranza, i logorroici, i leoni da tastiera (che sono sempre esistiti, contrariamente a quanto si vuol far credere), eccetera? Ma è facile: su Facebook.
Un’ulteriore “spia” del calle degenerativo è la sempre minore efficacia del concetto stesso di collegamento ipertestuale. Se, oggi, utilizzi un collegamento ipertestuale nel tuo testo sul Web per spiegare un concetto, “esplodere” una spiegazione o un grafico o qualsiasi altro impiego tradizionale del meccanismo, devi far bene attenzione: il sito Web contenuto nel tuo collegamento ipertestuale ci sarà ancora tra qualche tempo, tra qualche mese, o anno, a seconda della longevità del tuo testo sul Web? Se non si tratta di istituzioni radicate, note e solide come enciclopedie, istituzioni pubbliche, grandi quotidiani e simili, non è (più) detto.
Quelli che una volta si chiamavano link rotti, cioè collegamenti ipertestuali che puntano a una risorsa Web non più esistente o non più funzionante, oggi sono all’ordine del giorno. Come niente, le risorse cambiano URL – perché i siti, per star dietro a Google e alle sue fisime, si ristrutturano frequentemente, incluse alcune grandi realtà – oppure gli stessi nomi di dominio (ciò che segue “www”, quando c’è il “www”, e che costituisce la risorsa base di un sito, restando invariata per ogni contenuto dello stesso sito) spariscono da un giorno all’altro. Perché molti siti, magari nati per sfida o per gioco, una volta realizzato che per loro non c’è spazio, in men che non si dica chiudono.
Tutto questo (e molti altri sotto-scenari) sottende, però, un altro problema di cui nessuno, per ora, sembra preoccuparsi in modo analitico: quello del sovraccarico cognitivo. Ricordiamoci, a spanne, alcune date, anche approssimative.
Negli anni 90 del 900 il Web era un astro nascente. Curiosità, inesperienza, mezzi limitati, complessità di uno scenario nuovo e rete ben più lenta fecero si che ad avvicinarsi fossero in pochi, gente di solito preparata e acculturata, con qualcosa da dire di serio e rilevante.
Negli anni 2000 l’esplosione del Web, Google, i server pubblici, l’aumento spropositato dei siti. Nuove tecnologie, l’arrivo dell’ADSL, le prime timide connessioni a Internet mobile. Nuovi microprocessori, grafica cresciuta in quantità e qualità. Nasce timidamente Facebook (2004), e non se lo fila pressoché nessuno.
A inizio anni 10 del 2000 i siti Web intanto diventano troppi. Inizia il sovraccarico cognitivo e Google s’inventa nuove strategie su Google News per ridurlo. Ci riesce, fa una gran fortuna, al punto che i media ricevono più traffico da Google News che da visite dirette (anche se lo hanno sempre negato). Alcuni quotidiani si ribellano, nel frattempo Facebook s’allarga a dismisura e comincia ad avere diversi milioni d’utenti, che arriveranno presto a superare il miliardo, con l’ausilio (in tempi successivi) di WhatsApp, Messenger e Instagram.
A oltre metà anni 10 del 2000 neppure Google News ce la fa più: ha troppe fonti, molte delle quali di scarsa qualità. Gli utenti iniziano ad abbandonarlo e si spostano su Facebook. Pian piano, i media mainstream “li seguono”, altrimenti li perdono[2]. Facebook agevola nel tempo questa migrazione con vari strumenti, tra gli ultimi i cosiddetti Instant Articles (un modo per pubblicare su Facebook pagine del proprio sito con visualizzazione immediata, senza attese di caricamento).
In buona sostanza, l’intera “conversazione” tra lettori e con i fornitori di contenuti pian piano migra su Facebook e, contemporaneamente, crescono a dismisura pagine Facebook assolutamente inutili e proprio per questo molto seguite, molte delle quali gestite da siti acchiappaclick, di quelli che ti promettono di farti sapere chi ha letto il tuo profilo negli ultimi 15 giorni, quali sono le origini genetiche del tuo viso e altre vacuità intellettuali del genere, anch’essi intenzionati a non perdere quelle “conversazioni” per continuare a perseguire il proprio losco obiettivo: rastrellare ogni dato possibile grazie al (nel frattempo enormemente aumentato) livello di credulità e superficialità della media degli utenti, di uno spessore intellettuale medio paurosamente eroso.
Ma ora con Facebook tutto è più comodo, immediato e semplice, consente elevate dosi di protagonismo, mette in evidenza i profili più spregiudicati, spopola. Mark Zuckerberg inizia pesantemente a “modulare” la visibilità di profili e pagine, legandola al grado di interazione e di fidelizzazione dei “fan” e al riscontro “virale” del materiale condiviso in base alle interazioni generate. Diventa più difficile avere fan, Zuckerberg a questo punto li “vende”, ma ormai il grado di interazioni spontanee è sceso praticamente a zero, quasi come se i propri post non interessassero nessuno.
Cos’è accaduto? Niente, semplicemente l’eccesso di fonti, di profili, di siti e di pagine che “estendono” la propria presenza su Facebook è tornata a produrre lo stesso sovraccarico cognitivo di prima, forse anche peggiore. La gente si stanca di Facebook e lo frequenta poco, preferisce WhatsApp perché, rispetto a Facebook, consente di scegliere meglio con chi avere a che fare, in quali gruppi stare oppure no, eccetera. Zuckerberg sapeva bene che sarebbe finita così, per questo l’ha comprato: almeno non perde il contatto con l’utenza, giacché attraverso WhatsApp sa ugualmente tutto su tutto di tutti. Altri scelgono Instagram, magari con un profilo “privato” (ossia tale che, per essere “seguito”, richiede l’autorizzazione del titolare). Ma anche Instagram è di Zuckerberg: lui non perde nulla. Gli altri social sono una minoranza: lo stesso Google Plus ha ormai quote di utenza da prefisso telefonico del Nord Italia.
Ma la soluzione è peggio del problema. Troppi gruppi, troppe interazioni, perdita della concentrazione, invadenza eccessiva nella propria sfera personale. Troppe notifiche, troppe sollecitazioni, la gente inizia a “silenziare” i gruppi e anche molti singoli; chi può (cioè chi usa dispositivi Apple) arriva persino a togliere del tutto le notifiche, a disinstallare Messenger e preferisce usare iMessage (la messaggistica nativa mobile di Apple). Chi usa Android, che tutte queste possibilità non le ha o sono molto limitate, prova a migrare su altri circuiti.
Cos’è accaduto? Niente, il problema è il medesimo: sovraccarico cognitivo a fiumi. Troppo difficile seguire tutto, troppa conflittualità nel decidere chi seguire e chi no, chi “silenziare” e chi no.
La soluzione? Non c’è. Occorre solo capire che Facebook e i social in genere – instant messaging compreso – sono realtà non più in grado di convergere con il Web, perché prima lo hanno “ucciso”, appropriandosi della maggior parte delle sue prerogative, poi ne hanno incamerato anche tutti i difetti emersi da un’eccessiva e incontrollata prolificazione di presenze.
In altre parole, la colpa non è del “nuovo medium”, ma degli esseri umani, che gli hanno attribuito un ruolo, un’importanza e una precedenza – per carità, agevolati dai media stessi – nettamente superiori al dovuto, sproporzionati, immeritati e privi di senso.
Ha ragione il filosofo Diego Fusaro, quando paragona i social a un nuovo, riedito Panopticon: è esattamente questo che è accaduto, sostenuto e accompagnato da una disgustosa degenerazione sociale in termini di rispetto reciproco, sensibilità, moderazione, diplomazia, correttezza, ampiezza di vedute, vivacità intellettuale, profondità culturale e storica, capacità critica e brillantezza concettuale. Il tutto unito a una spaventosa crisi di valori morali, etici e civici, dei quali si è persa quasi ogni traccia, complici un sistema educativo e formativo inquinati da un panorama politico dove tutti i personaggi che lo costituiscono, dai vertici fino alla bassa manovalanza, sono personaggetti di bassa lega, furbi ma non intelligenti, trascinati nel vortice della corruttela e del proprio personale tornaconto, ma del tutto indegni di calcare una scena politica propriamente detta e percepirne i relativi oboli.
Basti guardare le famiglie, ufficiali o di fatto che siano, ormai incapaci di educare i propri figli come si dovrebbe convenire o, addirittura, perniciose persino per le caratteristiche positive istintuali di un essere umano in erba, il cui pensiero ne esce avariato e il cui intelletto ne viene disgregato, per poi essere adeguatamente cementati e amplificati da un sistema di istruzione penoso, inefficace e inefficiente, incapace di dare una formazione non dico ineccepibile, ma almeno dignitosa.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. E Facebook non è altro che lo specchio di una società allo sbando, priva di valori, senza riferimenti, totalmente anarchica, incapace di ergersi al ruolo di vera società e preferendo, invece, una convivenza fondata sulla mera sopravvivenza e qualche lontana reminescenza – se c’è – di non belligeranza. Praticamente un’accozzaglia di cavernicoli trogloditi, che è già miracoloso quando non si uccidono tra loro.
Questo è quanto si incontra per strada, salvo le poche e debite eccezioni, e questo è quanto si incontra sui social oggi. L’unica via di salvezza è saperlo, regolarsi di conseguenza e scegliere con grande cura e selettività le proprie frequentazioni, tanto social, dal momento che le maggioranze quasi ti “obbligano” a esserci, quanto reali.
I “civili” resteranno confinati in pochi, striminziti e sparuti gruppi. Tutto il resto… meglio non pensarci. Ah, il Web quello bello, interessante? S’è fatto da parte, ha origini troppo nobili per confondersi con certa gentaglia. Tornerà di moda fra qualche decennio, in versione aggiornata, nella speranza che nel frattempo qualche epidemia mortale stermini senza pietà il trogloditismo imperante.
[1] Marco V. Principato, Facebook e Web: convergenze parallele?, su Nelfuturo.com, 4 febbraio 2014, non più online. Copia in http://nibble.it/wp-content/uploads/2014/09/Facebook-e-Web-convergenze-parallele
[2] Già nel 1995 il Cluetrain Manifesto indicava che “i mercati sono conversazioni”. Dunque, se la “conversazione” s’è spostata su Facebook, bisogna seguirla, altrimenti… si perde quel mercato.