Aggiornato al 21/11/2024

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Voltaire
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Flavio Faraoni (Roma - ) – Occhi che spiano - 2003

Ma come: Facebook Moments no, e WhatsApp sì?

Nel mondo è uscita Facebook Moments, l'App di Facebook che ricostruisce i «momenti» fatti di immagini di valore semiotico univoco. In Europa non è uscita: lede le normative sulla privacy. Come mai non vale lo stesso per WhatsApp?

 

C'è qualcosa che non quadra. Le grandi News Outlet (*) hanno annunciato con squilli di tromba e rulli di tamburi l'arrivo di Facebook Moments, la nuova App di Facebook che, grazie a un accorto impiego di intelligenza artificiale, è in grado di raggruppare fotografie appartenenti ad uno stesso “momento” – da cui il nome Moments – servendosi dell'individuazione automatica dei volti. Poi scopriamo che in Europa Facebook Moments non è disponibile. E perché, di grazia? Perché in Europa Facebook Moments è contro legge. Semplice e lapalissiano.

Non che sia proprio impossibile, per chi proprio volesse, averla: bisogna solo trafficare un po'. Installarla ugualmente, tuttavia, è piuttosto contraddittorio, almeno per un'Europa vista dall'estero: sin dal 2010, qualcuno ricorderà, Facebook aveva iniziato a rendere disponibile il riconoscimento del volto. Ma i garanti europei proprio non l'hanno mandata giù: secondo loro è una tecnologia invasiva, il cui impiego lede i principi ai quali si ispirano le normative europee in tema di tutela dei dati personali. E allora qualsiasi ricerca di quell'App sul PlayStore di Google, sia da fisso che da mobile, non fornisce la possibilità di reperirla e, dunque, di installarla, almeno per le vie... brevi.

Strano, però, che i garanti della privacy europei non sembrino altrettanto solerti nell'individuazione di App ben più invasive sotto il profilo della privacy. Ovviamente parliamo di WhatsApp, l'applicazione di Instant Messaging più diffusa al mondo e in corsa per il miliardo di utenti, che ormai usano veramente tutti, nonostante tutto, nonostante persino il divieto di impiego a meno di 16 anni, regolarmente disatteso.

Nonostante tutto perché parrebbe che nessuno, di lor signori garanti, ricordi che WhatsApp: a) opera un'integrale duplicazione delle rubriche telefoniche di tutti gli smartphone in cui è in uso, replicandola nei propri server, con la “scusa ufficiale” della strumentalità al funzionamento dell'App ma con evidenti, presumibili altri scopi; b) WhatsApp, intesa come azienda, pur essendo una società separata, è di proprietà di Facebook, ossia di Mark Zuckerberg, che come noto non sta lì a cambiare aria: sta lì per monetizzare e può farlo esclusivamente lucrando sui dati degli utenti.

Naturalmente, l'obolo annuale chiesto da WhatsApp è solo un dato di facciata: serve a classificarla come App “non gratuita” e ad abbassare, quindi, i “sospetti”. Ma è evidente che un costo di 79 centesimi l'anno sia da considerarsi neppure simbolico: semplicemente trascurabile. Dunque, il profitto deve essere altrove.

L'evidente violazione delle principali normative da parte di tutti coloro che impiegano l'App, infatti, consiste nell'acconsentire deliberatamente al trasferimento sui server di WhatsApp di un archivio di dati personali contenuto nel proprio device, al cui interno – ed è qui la grossa contraddizione – vi sono dati personali di altri, da ciascuno dei quali occorrerebbe ottenere il consenso alla disseminazione, prima di impiegare l'App. Ma non sembra che questo dettaglio abbia sollevato alcuna attenzione nei garanti suddetti.

Del resto, di fronte a una diffusione così granulare di quell'App, solo un loro provvedimento potrebbe fermarla: bisognerebbe impedire, per legge, l'accesso ai server di qualsiasi App svolga una simile attività, a partire sia da Internet “fissa” che “mobile”. Il che significherebbe bloccare non solo WhatsApp – il cui maggior pericolo intrinseco è dato solo dal fatto di essere di proprietà di Facebook – ma anche Viber, Telegram, WeChat, Line, Kakao e simili. La sola a salvarsi sarebbe BlackBerry Messenger (che BlackBerry chiama, facendo alcuni errori, BBM): essa è l'unica App di Instant Messaging dotata di una rubrica corrispondenti indipendente da quella dello smartphone. Al di là di questo, realizza le stesse funzioni di WhatsApp e simili, oltre a consentire la conversazione (video) telefonica senza conoscere il numero di cellulare dei corrispondenti.

Ma questo, ci possiamo anche giurare, non accadrà, nonostante persino la Electronic Frontier Foundation abbia classificato WhatsApp come «colabrodo di dati personali». Il problema vero è un altro, e fin lì non si è spinta neppure la EFF, probabilmente per timore di ritorsioni lobbyistiche capaci di mandarla a gambe all'aria: oltre a vietare simili App, occorrerebbe – sempre per legge – vietare del tutto Android, la cui intima architettura non prevede, ad oggi, alcun controllo sulla disseminazione dei dati personali ad opera delle App che fa funzionare. Un fatto gravissimo, del quale Google si rende perfettamente conto e per questo, a quanto sembra, con Android M (ri)introdurrà qualche scampolo di controlli a disposizione dell'utente. Prima di vedersi bloccato l'intero PlayStore in Europa.

Signori garanti: quest'incongurenza è paradossale, ossimorica, inaccettabile. Su WhatsApp sembrava aveste cominciato a indagare, ma sinora non avete battuto ciglio: o lasciate passare anche Facebook Moments, perdendo spessore ma riconquistando coerenza, o le bloccate entrambe e, a seguire, tutte quelle simili. Decidete, per favore: delle due, una.


(*) Così il comparto mediatico anglofono definisce le grandi fonti di informazione in Rete, da cui si diramano le notizie spesso riprese successivamente da altri.

Inserito il:23/06/2015 09:04:56
Ultimo aggiornamento:09/07/2015 10:26:51
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