Aggiornato al 28/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Leon Zernitsky (Mosca, 1949 - Ontario, Canada) - Technology and Working Woman

 

Dall’emergency working allo smart working al tempo del Corona Virus e oltre

di Bruno Lamborghini

 

L’epidemia di CoVid19 ha prodotto uno straordinario sviluppo di Emergency working cioè di lavoro remoto o telelavoro, come mai era avvenuto in Italia.

Infatti, precedentemente in Italia operavano stabilmente anche in remoto solo 600/700.000 persone (3%), principalmente professionisti (architetti, programmatori SW, avvocati, consulenti, ricercatori, i cosiddetti lavoratori ubiqui) e invece non erano presenti i cosiddetti telelavoratori. La pandemia ha costretto ad operare in remoto 8 milioni di lavoratori (30/35%), che si sono improvvisati remote workers, con grossi problemi di collocazione in casa, disponibilità di computer e di connessione adeguata (banda), limitate conoscenze digitali di base e carente metodo di lavoro. Di conseguenza si sono verificati disagi, bassa produttività e poco interesse.

In più, l’emergency working è stato erroneamente chiamato solo in Italia smart working che in realtà è tutt’altra cosa.

Infatti, gran parte delle attività di remote working che necessariamente sono state introdotte devono essere considerate come puro trasferimento di lavoro d’ufficio, un telelavoro ancora destrutturato, non collegato a specifiche modalità di riorganizzazione delle attività, con seri problemi di collocazione in spazi domestici inadeguati, così come appaiono ancora destrutturate le riunioni di lavoro divenute team working a distanza utilizzando canali occasionali spesso privi di sicurezza e spesso fonte di perdita di connessione e tempi morti.

Il vero concetto di smart working si può utilizzare solo per attività di hightech, fintech, sviluppo software, ricerca e attività che interagiscono a distanza anche a livello internazionale, operanti con procedure di lavoro e di team in fase avanzata di smart working, cioè attività ibride in remoto o in mobilità od anche presso specifiche sedi aziendali o di coworking, caratterizzate da relativa autonomia, responsabilizzazione, partecipazione, management by objectives senza specifici vincoli di spazio e tempo. Ne sono esempi centri di ricerca e progetto da tempo operanti in Italia in vero smart working a livello internazionale, ma anche attività in campo commerciale e di servizio.

La domanda è se l’emergency working potrà evolvere in Italia verso lo smart working.

Durante e dopo la fase 2 si ritiene che la maggior parte delle persone in remote working potrà rientrare in ufficio, ma dato che il rischio di contagi (o ritorni epidemici) si potrà protrarre almeno per l’intero 2020, è probabile che si intenderà proseguire in molti casi nel remote working da casa. Per questo, appare necessario cercare almeno di migliorare l’efficienza del remote working, anche senza rivoluzioni organizzative:

a) promuovendo una digital literacy di conoscenze digitali di base;

b) migliorando le condizioni di accesso alla connettività;

c) strutturando meglio le attività di lavoro, in accordo con l’organizzazione, sino anche a proporre qualche iniziale programmazione e verifica dei risultati (forme di cottimo già applicate nel lavoro d’ufficio, non ancora per obiettivi), al fine di rendere l’attività in remoto più produttiva e più partecipata.

La diffusione del remote working come emergency working causa pandemia può invece essere considerata una occasione di trasformazione delle attività lavorative in specie di molti occupati in attività impiegatizie d’ufficio nelle imprese e nelle pubbliche amministrazioni, cercando di tradurre tali attività in smart working, sia in remoto (a casa o in mobilità/ubiquità) che in ufficio, passando l’organizzazione tradizionale del lavoro dalle generiche mansioni secondo gli schemi contrattualistici attuali ai ruoli che ciascuno svolge secondo le sue specifiche competenze nel quadro del sistema organizzativo. Si tratta in sostanza di procedere, come Federico Butera ha bene chiarito, passando dal concetto di mansione a quello di ruolo verso una graduale professionalizzazione del lavoro di ciascuno (di qualsiasi lavoro) in grado di produrre collaborazione, partecipazione, autonomia, responsabilizzazione ed impegno al raggiungimento dei risultati secondo obiettivi prefissati, indipendentemente dal luogo e dal tempo in cui l’attività viene svolta.

Non vi è dubbio che tale processo di cambiamento in grado di manifestare straordinari effetti in termini di qualità, innovazione e produttività del lavoro si scontra contro i “muri”, come li definisce Butera, del fordismo tuttora operante nelle attività d’ufficio e non solo, nelle imprese ed a ancor più nell’ordinamento burocratico delle amministrazioni pubbliche, in conseguenza della rigida contrattualistica del lavoro e delle strutture e limiti culturali del sindacato.

In realtà, questa nuova modalità del lavoro è già parte del modo di affrontare il futuro da parte di molti giovani, in specie coloro che stanno facendo esperienza a livello internazionale e in nuova imprenditorialità.

Ma anche una strada sempre più aperta dall’innovazione digitale, dalle reti di connessione, dalla diffusione dell’intelligenza artificiale in tutte le attività, dai roboadvisors, che non vanno interpretati come sostitutivi del lavoro umano, ma come abilitatori (enablers) dell’innovazione nelle modalità di lavorare, di produrre, di innovare, di riorganizzare, di dare nuovi valori alla vita delle persone.

Grazie anche al digitale, si aprono nuovi orizzonti al rapporto tra lavoro e vita di ciascuno, al rapporto tra salute della terra e salute dell’uomo, al rapporto tra globale e locale, al rapporto tra comunità e persona.

Per questo, l’impatto della pandemia e la diffusione del remote working devono essere una opportunità per uscirne con nuove e migliori prospettive.

 

Inserito il:28/04/2020 12:08:09
Ultimo aggiornamento:28/04/2020 12:27:54
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