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La vergogna prometeica
di Achille De Tommaso
La vergogna prometeica è un concetto filosofico e antropologico che si riferisce al senso di inadeguatezza, colpa o disagio che l’essere umano può provare di fronte alla creazione di macchine o tecnologie che lo superano o lo eguagliano in capacità, intelligenza o prestazioni. Il termine deriva dal mito di Prometeo, il titano greco che donò il fuoco agli uomini, permettendo loro di acquisire conoscenza e potere divino, ma che subì una punizione eterna per la sua audacia. Il filosofo tedesco Günther Anders introdusse il termine nella sua opera “L'uomo è antiquato” (Die Antiquiertheit des Menschen, 1956), analizzando come l'uomo moderno sia diventato un osservatore impotente di fronte alle tecnologie che ha creato. La vergogna prometeica non è solo un timore reverenziale verso la macchina, ma una crisi esistenziale che nasce dal confronto tra l'umanità limitata e la perfezione delle sue creazioni.
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C’era una volta l’Uomo, figura centrale del cosmo, abile artefice del proprio destino e signore incontrastato della natura. Con le mani callose e lo sguardo verso l’orizzonte, domava le onde del mare e cavalcava la terra selvaggia, e sognava un futuro radioso, alimentato dalla convinzione che il progresso avrebbe liberato l’umanità da ogni catena.
Era il fuoco di Prometeo, il gesto audace di chi osa sfidare il limite, che gli ardeva nel cuore. Ma ora, di fronte alla perfezione lucida delle macchine, egli non si riconosce più. E quel fuoco, anziché illuminarlo, lo abbaglia.
Le macchine saranno più intelligenti di noi? Già ci battono a scacchi (e a “GO”, che è un gioco più complesso degli scacchi). Siamo nell’era della vergogna prometeica, un tempo in cui l’essere umano si trova, come un dilettante maldestro, a competere contro le sue stesse creazioni. È la vergogna di chi osserva il proprio smartphone con venerazione e non ci dorme la notte se lo perde; come se fosse una nuova divinità silicea: sa tutto, ricorda tutto, scrive meglio e risponde più rapidamente. Se Goethe affermava che l’uomo deve essere “più grande delle sue opere”, oggi sarebbe difficile dirlo con una faccia seria davanti a un algoritmo che, oltre a batterti a scacchi e a go, sa scrivere anche meglio di molti di noi.
Ironia della sorte, questa “vergogna” è un mostro generato dalla stessa fede nel progresso che tanto entusiasma le ideologie di un tempo. Quegli stessi paladini della libertà universale e della giustizia sociale, che celebravano la marcia trionfale dell’umanità contro ogni oppressione, hanno finito per inciampare in una strada senza ritorno: l’uomo è superato, sì, ma dal robot operaio che lavora giorno e notte senza scioperi e senza pretese. La macchina è il vero proletario perfetto, alienato per natura, ma instancabilmente produttivo. Quasi un trionfo marxiano, se solo il “lavoratore” non fosse di latta e silicio.
E così, mentre si gridava “potere al popolo”, il potere, quello dei nostri dati, si è trasferito a un server remoto in una qualche Silicon Valley: silenzioso, infallibile, onnisciente. La verità è che l’ideale di emancipazione umana è stato tradotto in “efficienza tecnologica”, e alla fine, a liberarsi dal lavoro non è stato l’uomo, ma la macchina che lo ha sostituito. Il lavoro meccanico, oggi, ha poco valore: è il software quello che vale. Un insieme di codici elaborati al tavolino, o anche a mente, che la macchina può maneggiare meglio di noi. O no?
E non appena i vecchi slogan hanno perso la loro eco, ecco spuntare un sentimento nuovo: la vergogna. Vergogna di essere meno efficienti non solo di un braccio meccanico, ma anche meno precisi di un software, e meno pazienti di un algoritmo di customer care. Che può assistere un cliente rognoso per ore senza adirarsi.
Certo, qualcuno, in un angolo buio di un’università progressista, dirà che la colpa è del capitalismo neoliberale, che ha asservito la tecnologia al profitto anziché al bene comune. Ma non è forse vero che il progresso stesso è una forza cieca? Non va forse avanti come un treno senza freni, qualunque siano i sogni di chi costruisce i binari? L’umanità, con le sue utopie, non ha mai davvero governato il progresso: lo ha sognato, lo ha acclamato, ma poi è rimasta indietro a guardarlo correre via, meravigliata e terrorizzata.
E mentre il braccio tecnologico si allunga per piegare anche l’ultima resistenza umana, qualcuno prova a riciclare antiche promesse. Si dice che l’intelligenza artificiale porterà uguaglianza, renderà tutti competenti e ricchi di opportunità, come fossero slogan presi direttamente da una piazza operaia del Novecento. Ma è una favola sbiadita. La macchina, ahimè, è meritocratica: chi la sa usare prospera, chi la teme rimane indietro, mentre le vecchie ideologie arrancano con proclami anacronistici. E così la rivoluzione, stavolta, non è collettiva: è algoritmica e silenziosa. E non ammette scioperi o manifestazioni politiche adombrate da sostegno al lavoro. Con le macchine non funziona.
In fondo, la vergogna prometeica è il conto che paghiamo per la nostra arroganza: abbiamo voluto fare gli dèi, e ora ci vergogniamo di non esserlo. Abbiamo voluto liberare l’uomo, e ora l’abbiamo lasciato solo, sconfitto dalle sue stesse mani. È un paradosso elegante, quasi una commedia greca: l’essere umano, autore della sua disfatta, guarda con malinconia al passato, quando le idee promettevano il paradiso e non c’era ancora una macchina che sapesse fare tutto meglio.
Eppure, forse, la vergogna è anche una presa di coscienza. Come Prometeo incatenato alla roccia, l’uomo si ritrova fermo a osservare il mondo che avanza. E mentre l’algoritmo calcola, silenzioso, egli si scopre fallibile e meraviglioso. E magari, per un istante, trova sollievo nel ricordare che, nonostante tutto, nessuna macchina sa ancora provare vergogna. Quella è la nostra ultima, umanissima imperfezione.