Libico Romano Maraja (1912-1983) - Peter Pan
L’Adolescenza Protratta o infinita: la Sindrome di Peter Pan. Un’esperienza clinica.
L’ “Adolescenza Protratta” definita dai sociologi l’ “handicap della gioventù moderna”, in realtà ha in sé qualcosa di antico, che risale al 1923, quando fu descritta per primo da Siegfried Bernfeld, anche se soltanto successivamente Peter Blos, psicoanalista americano, le diede il connotato di quadro psicopatologico di tipo evolutivo ( o, meglio, involutivo). Egli utilizzò per i suoi studi un gruppo di ragazzi che frequentavano un college americano, individuando, tra di essi, una specifica tipologia a rischio, quella in cui i tratti di personalità si caratterizzavano per un “blocco evolutivo” che impediva ai giovani di diventare adulti. Fu proprio Blos ad utilizzare il termine “protratta”, e valutò che risultava indipendente da fattori esterni, come quelli sociali ed economici.
La caratteristica di questo stato mentale è la statica “permanenza” nella posizione adolescente da parte del giovane adulto. L’adolescenza, una fase di sviluppo, sicuramente irto di difficoltà, ma che deve necessariamente essere superata per giungere nell’età adulta, diventa cosi, in Italia, sempre più un modo di vivere comune ed “in-comune”.
Fenomeno diverso, ma affine, è la Sindrome di Peter Pan, di cui parla lo psichiatra americano Dan Kiley. Esattamente come il personaggio di J. M. Barrie, di Walt Disney, le persone affette da tale sindrome continuano anche in età adulta a comportarsi come bambini.
Il gioco, di qualsiasi tipo esso sia, a venti, quaranta anni e più, non smette mai di essere una costante nella loro vita, come se proprio non sapessero o potessero rinunciarci.
I Peter Pan non cercano di ritrovare la loro infanzia, non devono cercarla nei ricordi passati, la vivono nel presente, così come vivono la loro vita senza coscienza del tempo e della morte. Come se potessero essere immortali, rimandano le cose da fare ad un futuro improbabile fatto di illusioni.
Sono proprio la nozione del tempo e della morte, scoperte nella fase adolescenziale, che differenziano le due patologie. L’Adolescenza Protratta conosce, invece, entrambe le nozioni, ed è proprio per questo che, al risveglio della propria coscienza, l’individuo sfocia spesso in crisi depressive. L’incapacità di assumersi le proprie responsabilità da adulto diventa insicurezza ed invincibile paura, mentre i Peter Pan rimangono cullati da dolci illusioni e dai sogni più strani e fantastici.
Secondo alcune teorie di psicologia clinica, in entrambi i quadri psicopatologici mancherebbe l’incontro con il vero amore. Queste teorie, infatti, sostengono come l’incontro con una donna da amare veramente, attivi i meccanismi mentali dell’immaginazione di una vita futura. A livello cognitivo il giovane si libererebbe del superfluo, iniziando a lavorare su obiettivi concreti da raggiungere ed, in tal modo, organizzando praticamente e non illusoriamente il suo tempo. La responsabilità di un matrimonio ed il desiderio di creare un proprio nucleo familiare, farebbe crescere questi “fanciulli”.
A mio avviso sembrano soluzioni sicuramente auspicabili ma abbastanza utopiche e spesso irrealizzabili e questo per una serie di ordini di problemi, tra cui spiccano la conflittualità, spesso psicologicamente lacerante, tra il desiderio di autonomia ed il legame simbiotico con le figure parentali, soprattutto quella materna, spesso soverchiante e castrante e la scarsa possibilità di instaurare una relazione affettiva, se non già adulta, per lo meno simile ad un rapporto in cui i due membri siano disposti a “crescere” insieme, come vedremo nel nostro caso clinico.
Accettare ed essere disposti a lavorare sulle proprie fragilità diventa, spesso, senza un aiuto specialistico, un’impresa irta di difficoltà. Allontanarsi volontariamente da quell’equilibrio sognante che sembra far vivere bene e senza problemi non è tra i desideri dei “giovani”. Quando, però, il destino interviene e scompagina quell’equilibrio, la presa di coscienza, o meglio, il trovarsi “vis à vis” con le proprie fragilità, può diventare, a sua volta, la fonte di molti problemi.
Il caso clinico
Walter sembrava un eterno bambino. Anche se ormai aveva compiuto i quarant’anni aveva, per il momento, deciso di rimanere con i genitori anziani. Aveva avuto delle donne, ma erano stati più flirts adolescenziali che si erano ripetuti, con le medesime modalità, anche in età giovanile ed adulta. Anche lui aveva conservato nel fisico quell’aspetto e quell’atteggiamento tipico dei ragazzini. Eterno giocherellone, era al centro delle amicizie, perché appariva molto divertente e di compagnia.
Ma, al di là di quello, non voleva assumersi nessuna responsabilità. Aveva accettato un lavoro come impiegato, praticamente costretto dai suoi che almeno in quello lo avevano responsabilizzato, invece che continuare a coltivare i suoi sogni di gloria con la Laurea in Architettura. Ma di una compagna seria, non voleva saperne. Poi capitò Chiara, che lo attrasse subito per la sua maturità, nonostante avesse cinque anni in meno di lui, per la sua sicurezza e per il suo essere così seria. Iniziò come una sfida: lei era l’unica a rimanere seria alle sue battute, da quando era entrata a far parte della compagnia, e la sfida per Walter consistette proprio nel cercare di farla ridere. Capitò una volta in cui si ritrovarono da soli e lei rise di gusto. Lui ne fu felice, ormai dopo mesi che non ci sperava quasi più, e la baciò. Così per scherzo e per gioco iniziò la loro storia.
Walter non sapeva se si stava innamorando, gli sembrava un sentimento troppo più grande di lui. Tendeva a confondere ciò che provava per Chiara con il sentimento che nutriva per la mamma: nulla di paragonabile, Chiara nel suo cuore ne usciva sconfitta. Perciò fu felice quando la fece conoscere ai suoi ed ebbe la loro approvazione, soprattutto quella di sua madre. Diceva:” Se piace a lei che è così esigente…”. Ma le loro vite procedevano come su due binari paralleli: Chiara continuava ad evolversi e a fare carriera. Non stava mai ferma, frequentava lui, gli amici ed il lavoro con la medesima intensità emotiva, Walter si stava “immobilizzando” sempre di più, frequentando sempre meno gli amici, aggiornandosi sempre meno nel suo lavoro, dal quale, peraltro, rischiava di essere licenziato per scarso rendimento ed anche con Chiara le cose iniziavano ad andare male.
Lei era molto presa da lui, da quella specie di eterno bambino, gli faceva un po’ da mamma e questo sembrava gratificarla: ormai, alla sua età, sulla possibilità di avere figli aveva messo una pietra sopra. Poi fu l’inizio della fine della loro storia: Chiara rimase incinta e cominciò a fare progetti per una vita a due, anzi quasi a tre: cercare una casa più grande tutta per loro, possibilmente lontano dai genitori di entrambi, proprio per essere sempre più autonomi, ed iniziava a stimolare Walter a curare di più il suo lavoro e a metterci più impegno.
A Walter sembrava di soffocare. Nonostante l’età anagrafica non si sentiva ancora pronto ad andare via dai suoi, non se la sentiva di fare il compagno ed il padre a tempo pieno: si sentiva ancora troppo figlio per essere padre. Iniziarono gli attacchi di panico, le paure incomprensibili, la ricerca di compagnia come rassicurazione. Finì in Pronto Soccorso, una volta, in preda ad un’ansia fortissima e da lì si convinse ad iniziare una cura farmacologica ed un percorso psicoterapeutico.
Iniziava a migliorare l’ansia, quando Chiara lo lasciò: non se la sentiva più di continuare quella storia con un eterno bambino che non credeva sarebbe mai diventato un buon padre. Meglio, allora, pensò, crescere un figlio da sola.