Michael Nixon (Digital artist) - Jack the Ripper
La Psicologia e la Psicopatologia criminale (Parte prima)
[...la follia non viene mai ascoltata per ciò che dice o che vorrebbe dire]
«Voce confusa con la miseria, l'indigenza e la delinquenza, parola resa muta dal linguaggio razionale della malattia, messaggio stroncato dall'internamento e reso indecifrabile dalla definizione di pericolosità e dalla necessità sociale dell'invalidazione, la follia non viene mai ascoltata per ciò che dice o che vorrebbe dire. La psichiatria non è stata che il segno del sovrapporsi della razionalità dominante su questa parola che le sfuggiva e la conferma - necessaria a questa razionalità - di una comunicazione impossibile. Dal razionalismo illuminista al positivismo si tratta sempre di una razionalità che definisce, suddivide e controlla ciò che non comprende e non può comprendere, perché lo ha oggettivato nel linguaggio della malattia, che è il linguaggio di una razionalità che "constata".»
Franco Basaglia in Follia/Delirio in Scritti, 1982
[ ...riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita ]
«Io ho detto che non so che cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. E' una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia. Invece questa società riconosce la follia come parte della ragione, e la riduce alla ragione nel momento in cui esiste una scienza che si incarica di eliminarla. Il manicomio ha la sua ragione di essere, perché fa diventare razionale l'irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in un manicomio, smette di essere folle per trasformarsi in malato. Diventa razionale in quanto malato. Il problema è come sciogliere questo nodo, superare la follia istituzionale e riconoscere la follia là dove essa ha origine, come dire, nella vita.»
Franco Basaglia in Conferenze brasiliane, 1979
Lo studio dei crimini violenti costituisce uno dei principali aspetti di cui si occupa la psicologia criminale. Nei casi di violenza emerge sempre l’interrogativo su una presunta origine patologica del comportamento violento dalla quale far partire le motivazioni che spingono gli uomini a creare situazioni in cui vengono inflitti gravi dolori o addirittura la morte. Mentre il diritto penale si occupa di delimitare le circostanze che delimitano gli ambiti di procedibilità penale, la psicologia cerca invece di spiegare quali possono essere i meccanismi genetici e dinamici che accompagnano l’atto criminale: si domanda quale possa essere lo stato mentale che ha sorretto il sistema psicologico guidandolo verso il compimento del male, se esiste sul serio una malattia di fondo in grado di spiegare in modo convincente una presunta fonte etiologica di carattere psichiatrico.
In questo capitolo tratterò i principali approcci della psicologia criminale che hanno cercato di fornire una spiegazione ai comportamenti violenti nel corso degli anni.
Lo studio della personalità criminale appare come uno dei momenti più significativi all’interno del positivismo tedesco. E’ evidente una connessione con il paradigma scientifico di tipo medico-psicologico che emerge dalla lettura psichiatrizzante delle teorie di origine darwiniana. Autori come Lombroso o Morselli sono rimasti sorpresi dalla possibilità di giungere ad una lettura dei comportamenti estremi che l’uomo era in grado di compiere, tramite il riferimento alle idee esposte in primo luogo da Darwin e Haeckel e perfezionata, proprio in senso antropologico, da Lombroso e Morselli.
Secondo la “Legge biogenetica fondamentale” nell’ontogenesi (la formazione embrionale) si riassumerebbe l’intero percorso della filogenesi naturale. L’evoluzione complessiva del phylum genetico a cui la specie appartiene verrebbe riprodotto in forma ridotta attraverso i vari passaggi che conducono dal germe fecondato all’individuo completo. Il prodotto embrionale umano attraverserebbe tutte le stazioni evolutive condivise dal tipo dei primati, fino a manifestare le caratteristiche della specie attuale. Ma non solo, secondo Lombroso e Morselli, il raggiungimento dell’ultimo stadio assumerebbe un particolare andamento poiché negli istanti finali si concentrano le successioni che danno luogo al completamento del processo anche per ciò che riguarda aspetti collegati direttamente alla psicologia e alle “qualità morali” trasfuse nella condotta del soggetto.
Lombroso avanza l’ipotesi che l’uomo criminale sia portatore di stimmate congruente con le caratteristiche di una modalità comportamentale primitiva e selvaggia. Una modalità adattiva circa una lotta per la vita nella quale violenza e mezzi di sopraffazione erano del tutto fisiologici. Egli riteneva che una simile organizzazione psichica fosse espressione del funzionamento del cervello umano, normale per quell’epoca lontana, ma del tutto incoerente con la necessità che il vivere civile aveva imposto nei secoli. Secondo il paradigma lombrosiano l’uomo delinquente sarebbe quindi portatore di uno psichismo anormale, non tanto perché espressione di una mente malata, ma a causa dell’emergere di strutture comportamentali anticamente adattive, al giorno d’oggi tuttavia del tutto incongruenti con il livello della competizione evolutiva. In questo senso si può notare la tendenza decisamente antropologica che segna l’orientamento del pensiero di Lombroso.
Più legata alla dialettica psichiatrica è invece la lettura fornita da E. Morselli, il quale, seppure avesse condiviso in un primo momento le idee originali del fondatore dell’antropologia criminale, finisce con il promuovere un modello di lettura proprio. Cimentandosi sul tema del suicidio nei criminali e sul rapporto fra omicidio e suicidio, Morselli comincia a manifestare un punto di vista autonomo in grado di spiegare come la malattia mentale, il suicidio e la condotta criminale fossero i segni della degenerazione che accomunava in un unico raggruppamento antropologico i perdenti nella lotta per la vita. Nel volume sul suicidio si trova ben descritta la sua posizione, secondo cui la condotta criminale è del tutto assimilabile alla malattia mentale e con essa condivide la fonte di origine che contempla il processo degenerativo come sostegno a livello genetico di entrambe le manifestazioni (condotta violenta e follia). I delinquenti, al pari dei folli, esprimono una dialettica mentale patologica e per questo finiscono con il vestire i panni di chi è portatore di uno psichismo malato. Dotato di un simile strumento di lavoro Morselli inaugura la stagione della psichiatria forense positivistica, destinata a lasciare un segno molto profondo nell’insegnamento specifico e nella teoria della perizia criminale.
Il lavoro dello psichiatra criminologo diventa quello di stimare il peso dell’infermità mentale che guida l’azione del delinquente, fino a stabilire una diagnosi capace di rendere chiaro il legame specifico agito e inquadramento nosografico di riferimento, per quanto concerne la causa. Il criminale reca nel gesto fatale che qualifica il senso della sua esistenza il segno della malattia: una malattia in grado di spiegare il perché della sua condotta dissennata. Ciò che per Lombroso si presenta genericamente abnorme, in Morselli acquista per sempre il segno della patologia mentale. Morselli unifica in un solo approccio i poteri della classificazione della psichiatria nosografica con le esigenze di certezza che l’indagine richiede di fronte al singolo caso e spinge la sua analisi fino a considerare i fattori che riguardano il nesso di causa fra condizione morbosa e l’atto criminale. Le analisi effettuate da Morselli e l’univocità del modello darwiniano che adotta come modello di lettura del fenomeno criminale sono incongruenti con la varietà dei contesti applicativi verso cui sono indirizzate. Nonostante la possibilità di operare un superamento delle sue teorie, Morselli non va oltre. Le letture delle opere di Freud non apporta alcuna modifica alle teorie di Morselli, che trova delle note positive solamente nelle opere di sociologia di Durkheim.
L’approccio psico-sociale alla criminalità e alla devianza.
La visione organicista imposta da Lombroso inizia a mostrare delle mancanze e ad essere in crisi già a partire dal primo quarto del secolo. Emerge la volontà di dare una spiegazione ai fenomeni criminali tenendo conto di fattori diversi come quelli di natura sociale che sottendono l’azione antigiuridica.
Si sviluppano quindi nuove teorie sia in ambito sociologico che in ambito della ricerca empirica. Il contributo più rilevante sull’argomento devianza ci viene dato da Merton che pubblica nel 1938 il volume “Social Structure and Anomie”, volume che viene ampliato nel corso degli anni fino alla versione finale datata 1964.
Alla base della teoria di Merton c’è un distacco dalle ipotesi di tipo organico o psicologico che vengono date sulla devianza. Nel 1938 Merton scrive: “ L’immagine dell’uomo come di un fascio di impulsi non domati comincia a sembrare più una caricatura che un ritratto […] Perché, qualunque possa essere il ruolo degli impulsi biologici, resta pur sempre da spiegare per quale ragione la frequenza dei comportamenti devianti varii in differenti strutture sociali, e come accada che in strutture sociali differenti le deviazioni si manifestino in forme e modelli diversi” [1].
In questa breve parte dell’opera di Merton sono evidenziati i riferimenti all’influenza che la struttura sociale mette in atto sul comportamento del singolo. Sono i sistemi simbolici, normativi e culturali che permettono di definire i comportamenti di ogni singolo individuo che vive all’interno di una determinata società. La manifestazione di un comportamento dipende soprattutto dal significato che il soggetto attribuisce ad esso, in relazione agli scopi sociali che intende perseguire, e che la società stessa gli presenta come modelli da assimilare. Come possiamo ben notare è una posizione completamente opposta a quella avanzata dagli psicologi, che prestano maggior attenzione alle problematiche di tipo soggettivo.
Il punto di partenza di Merton per quanto riguarda l’analisi della devianza, è chiedersi quali siano i motivi per cui una società esercita una pressione sui suoi affiliati che va non solo nella direzione del conformismo ma anche della diversità. Perché, Merton si chiede, una struttura sociale contempla anche al suo interno delle sollecitazioni riguardanti devianza e processi di tipo innovativo. Viene operata quindi una distinzione in merito, da Merton, tra mete culturali e i mezzi istituzionali. Le mete rappresentano ciò che una società mostra come obiettivi desiderabili da parte di ogni membro; il benessere, ad esempio, la possibilità di accedere a livelli di acculturamento elevati. I mezzi invece sono gli strumenti legittimi di cui i soggetti possono disporre per raggiungere i propri obiettivi solitamente i mezzi sono socialmente mediati. Nella sua analisi Merton, analisi principalmente riferita al contesto degli Stati Uniti, osserva che queste due componenti non siano fortemente integrate tra loro e l’esaltazione eccessiva delle mete abbia condotto ad una demoralizzazione cioè ad una de-istituzionalizzazione dei mezzi. Egli sostiene che via via che questo processo di attenuazione continua la società diventa instabile, e si sviluppa in esso quella che Durkheim chiama “anomia” cioè la mancanza di norme. Mentre per Durkheim l’origine delle anomie sono da ricercarsi nell’eccessiva stimolazione delle aspirazioni individuali, per Merton l’anomia nasce dalla dissociazione fra valori socialmente riconosciuti e mezzi leciti per raggiungerli da parte del singolo. Viene anteposta la liceità dello strumento alla sua efficacia pragmatica.
I tre assunti culturali di base emergente dalle teorie di Durkheim sono:
a) Ogni individuo deve mirare alle stesse mete, convinto che queste possano essere alla portata di tutti.
b) Le difficoltà per raggiungere queste mete, e gli eventuali insuccessi, devono essere considerate come momentanee e preludono ad un successo.
c) L’insuccesso definitivo e vero consiste nella rinuncia alle ambizioni culturali proposte.
Dal punto di vista psico-sociale questi assunti costituiscono un consolidamento simbolico relativamente a chi si trova in condizione di svantaggio. Merton presenta la scalata sociale come raggiungibile a tutti gli associati e attribuisce il fallimento come responsabilità del singolo.
Per spiegare come gli individui si adattano al sistema culturale Merton introduce cinque tipologie di adattamento: conformità, innovazione, ritualismo, rinuncia e ribellione.
· Conformità: non ha particolare rilevanza per quanto riguarda la nascita del comportamento deviante, in quanto indica il modo più tradizionale per raggiungere i proprio obiettivi e per dimostrare il proprio adattamento sociale.
· Innovazione: rappresenta, al contrario, una modalità di adattamento che rifiuta di assumere dei mezzi legittimi per raggiungere i propri obiettivi e quindi diventa rilevante per quanto riguarda lo sviluppo di comportamenti di natura criminale. Chi modella la propria azione su progetti di tipo innovativo solitamente appartiene ad una classe sociale inferiore, e quindi possiede scarse risorse per ottenere il successo. Lo status sociale, per Merton, assume quindi un ruolo importante nello sviluppo del comportamento deviante.
· Ritualismo: esprime la modalità di adattamento di chi ha abbandonato la meta del successo economico, ma i suoi comportamenti rimangono fortemente vincolati ai mezzi di tipo istituzionale. Merton dipinge quindi in questo caso i contorni di un soggetto che ormai ha rinunciato al benessere che può derivare dalla scalata sociale.
· Rinuncia: riguarda solitamente sia le mete sia i mezzi. Chi mostra questo comportamento è spinto a portarsi ai margini della società., non condividendo i criteri di appartenenza alla società. Questa diventa una posizione di fuga e spesso dal punto di vista della personalità queste persone presentano problemi psicologici anche severi.
· Ribellione: costituisce l’ultimo modello di adattamento, in questo caso il rifiuto delle mete e dei mezzi è sostituito con l’utilizzo di altre mete e altri mezzi. Il ribelle svolge un ruolo attivo al servizio di un ideale innovativo e lotta per la sua conquista. Viene portato quindi a scontrarsi con i sistemi legali di controllo di ogni società.
Dalla psicosociologia della devianza all’approccio social – cognitivista.
Anche le scuole social - cognitiviste si interessano all’argomento devianza, dando vita ad un modello esplicativo che poco alla volta va a definire un approccio alla teoria della devianza basato su una teoria dell’azione. Si tratta principalmente di un approccio all’indagine basato legato ai fattori di cornice che mette in secondo piano o elimina i fattori interni, legati alla personalità legata ai suoi rapporti con la corporeità e con i fattori individuali.
L’interesse degli autori di questa corrente, come Herrè, si è concentrato sui processi che riguardano l’attribuzione di senso sociale alle condotte devianti e criminali, fino a prendere in considerazione quasi esclusivamente il valore contestuale del comportamento, stabilendo un legame di sudditanza tra esso e l’azione sociale. Il comportamento viene privato di un valore autonomo, al centro dell’indagine viene posta l’azione del soggetto ovvero “la traduzione delle condotte all’interno dell’universo simbolico e interattivo che consente al sistema sociale di categorizzare gli atti umani e di collocarli all’interno di una casella di senso. Ciò permette di considerare le azioni devianti alla luce di un conflitto fra pressioni socio-culturali, giuridiche e morali da un lato e necessità di esprimere la propria identità sociale e personale attraverso un’azione dotata di senso, ovvero riconoscibile all’interno dell’orizzonte simbolico stabilito dall’appartenere a una determinata civiltà.”. [2]
Merton nei suoi studi fa un riferimento anche alla teoria dell’adattamento sociale, infatti, considera il comportamento deviante come una modalità di adattamento dell’uomo alle norme, attraverso lo strumento del rifiuto. C’è però una mancanza nel lavoro di Merton: l’assenza di un riferimento ai due piani nei quali si presenta la personalità: il piano individuale e quello relazionale. È un’assenza importante, perché uno studio della condotta umana non può escludere una delle parti essenziali di essa che le danno origine. Nell’analisi delle teorie di Merton anche Zappalà e Rossi si trovano in disaccordo con quanto enunciato da esso, e più ampiamente con le teorie degli psicologi sociali sulla devianza, poiché si rifiutano di valorizzare la fisicità della devianza mettendo in evidenza solo la parte empirica e teorica di essa. È limitante considerare l’azione criminale come una sottocategoria dell’atto sociale.
Anche Harrè aggiunge una sua definizione dell’atto sociale, rifacendosi a concetti già apparsi nella teoria sociologica di autori classici. Herré definisce l’atto sociale come elemento di differenzazione capace di attribuire un significato all’azione sociale. Legando questa definizione alla riflessione sulle regole il suo significato assume una nuova valenza. Herré sostiene che le regole e il loro significato richiamino “ un sistema condiviso di impegni e aspettative” da parte del soggetto e della comunità nella quale egli opera. I comportamenti sono valutati come semplici mezzi tramite i quali ogni individuo sviluppa il suo gioco, adeguandosi alle regole del sistema. Questo vale anche quando le regole sono prese di mira, in senso critico e creativo, come pure in senso criminale e distruttivo. L’atto ha efficacia quando viene data un’interpretazione da parte del contesto normativo socio-culturale. L’intera espressività umana soggiace a questo, compresa quella parte che manifesterebbe anche solo in modo superficiale la propria origine somatica o intrapsichica: le emozioni.
Pur sottolineando il ruolo sociale che le emozioni possiedono, possono conferire alla condotta un potere aggregante o disgregante, diventa riduttivo considerarle un puro prodotto della costruzione sociale. Oltre all’aspetto psicologico delle emozioni va tenuto in conto anche l’aspetto neurobiologico ed endocrinologico, non ci si può distaccare da questi due aspetti se si vuol comprendere il ruolo che le emozioni hanno sul piano dei rapporti sociali. La realtà corporea assume un ruolo importante al pari di quella psicologica, e non può essere tralasciata. Nella teoria social - cognitivista il rapporto tra natura e cultura viene messo da parte, o appare in maniera molto ridotta.
Arrivando ai giorni nostri non si possono non citare Di Leo e Patrizi, che hanno analizzato il pensiero di Herré mettendolo a confronto con quello di Feldman e le conclusioni a cui sono giunti sono le seguenti:
“Nella sintesi proposta dallo stesso Herré, il significato si mostra come prodotto dell’agentività umana – sequenziale nel suo costruirsi, sincronico dell’attualizzazione interattiva – e rappresenta l’espressione più evidente della processualità che fonda la co-evoluzione sociale.
1. Le azioni sono i significati dei movimenti e delle espressioni.
2. Gli atti sono i significati delle azioni.
3. Impegni e aspettative sono i significati degli atti.” [3]
Dopo aver fatto queste considerazioni, De Leo e Patrizi si interrogano sui criteri che organizzano la mente di chi agisce e sui modelli interpretativi che possono essere utilizzati dagli psicocriminologi per poter comprendere i significati delle azioni devianti.
“ La questione cui ci stiamo riferendo è una questione cruciale nella storia del pensiero criminologico e psicologico - giuridico: quella delle funzioni della devianza, in particolare della sua capacità di innovazione, presente già in Durkheim e nella criminologia di stampo marxista, attiva oggi come premessa di ogni teoria che intenda non precludersi la capacità di mediazione esplicativa rispetto alla dimensione macro del mutamento sociale”
L’interesse dei due autori è centrato sui fattori soggettivi, che vengono analizzati secondo la prospettiva teorica sopra citata. Rispetto al piano generale “altro è il focus dell’analisi che attiene, piuttosto, alle forme individuali con cui l’interazione pragmatica e simbolica fra i sistemi sociali viene elaborata in azione e, per mezzo di essa, ricondotta a nuovo significato. E’ l’attività del meaning making (Bruner, 1995), considerata nella dimensione soggettiva del processo di equilibrazione attraverso cui l’individuo costantemente gioca fra adattamento alla regola, negoziazione situata, produzione di nuove forme regolative di rapporto.”[4] L’intero sistema si regge quindi sull’analisi dell’azione intesa come costrutto sociale, del tutto svincolata dal comportamento, un retaggio biologico estraneo al sistema del significato.
Il modello fa riferimento alla regolazione che riguarda il sistema sociale, che da rilevanza all’azione del soggetto, connotando l’atto deviante come meccanismo in potenza capace di introdurre una certa dose di novità, benché sconvolgente. Il meaning making sottende il riconoscimento degli stati intenzionali della mente (nel modello di Feldman non viene sufficientemente valorizzato questo aspetto), i quali emergono nella relazione, in particolare nei confronti faccia a faccia. Si tratta di una lettura profonda del contatto relazionale. Esistono criteri di significato che il sistema utilizza per uniformare condotte e criteri personali che formano uno spazio interiore del senso, che può e anzi spesso sfugge al controllo esercitato dal sistema mediante i suoi criteri normativi. Questo è uno spazio per sentimenti ed emozioni che sono destinati a creare spinte comportamentali autonome. Nel teatro della relazione trovano quindi spazio negoziale spunti di carattere esterno: la problematica sociale che pone al soggetto richieste dotate di un senso specifico sul piano socioculturale, e che costituisce la cornice entro cui i comportamenti assumono efficacia, ma non solo. Allo stesso tempo troviamo la componente soggettiva della relazione, che è l’espressione di una corporeità in cui dimensione psicologica e biologica si intersecano per formare una rete di riferimento capace di dar vita ad un valore teleonomico (con il termine Teleonomia si definisce il fatto che ogni essere vivente è dotato di un progetto conservato nelle sue strutture, e realizzato nelle sue prestazioni, senza interventi esterni), collegato allo scopo da raggiungere. Si tratta di una dialettica che in forma storica ha trovato una giusta espressione nei modelli psicodinamici, ma che oggi fa parte a pieno titolo dell’approccio bio-psico-sociale del cognitivismo comportamentale odierno.
[1] Tratto da: “Struttura sociale e anomia” in M.Ciacci, V. Gualandi, “ La costruzione sociale della devianza”, ed. Il Mulino, Bologna, 1977
[2] Tratto da: “Personalità e crimine Elementi di psicologia criminale” di L. Rossi, A. Zappalà, ed. Carocci, p. 29
[3] Tratto da: “Psicologia giuridica” di G. De Leo, P. Patrizi, ed.Il Mulino, p.21
[4] Tratto da: “Psicologia giuridica” di G. De Leo, P. Patrizi, ed.Il Mulino, p.21