Peder Balke (1804-1887) - Moonlit View of Stockholm – 1850 ca
La Sindrome di Stoccolma, come stile di “attaccamento”: ti amo, mio carnefice.
La Sindrome di Stoccolma prende il nome dalla città omonima presso la quale, a seguito di alcuni rapimenti, gli ostaggi manifestarono, una volta liberati, dei sentimenti positivi verso i loro criminali.
Questo fenomeno rappresenta, storicamente, uno stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che è stata riscontrata in alcuni soggetti che hanno subito violenze fisiche, verbali o psicologiche. In questi casi, durante i maltrattamenti subiti, si prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può arrivare fino all'amore e alla totale sottomissione, instaurandosi in questo modo una vera e propria alleanza tra vittima e carnefice.
La sindrome di Stoccolma non viene considerata un vero e proprio disturbo, non è inserita, infatti, nel D.S.M. 5, ma rappresenta un insieme di attivazioni emotive e comportamentali in alcuni soggetti sottoposti a eventi molto traumatici, come un rapimento oppure una serie di abusi fisici e mentali.
Quanto queste attivazioni emotive rappresentino un meccanismo di difesa da situazioni che l’Io vivrebbe come intollerabili (e quindi la vittima adotterebbe delle strategie di sopravvivenza) se le considerasse mera violenza, e quanto rappresentino, invece, una sorta di legame masochistico di manipolazione che si instaura con un soggetto sadico, non è noto e comunque andrebbe valutato caso per caso.
Quali sono gli stati d’animo esperiti dalla vittima?
Sono variabili da sentimenti positivi verso l’aggressore, generati dalla consapevolezza che dall’altro dipenda la propria vita e dalla percezione di poter essere risparmiati, a sentimenti negativi provati verso la propria famiglia e le forze dell’ordine, che vengono addirittura percepite come minacciose nei confronti del legame che si è instaurato. Non è, altresì, rara l’identificazione con l’aggressore da un punto di vista culturale ed ideologico e, quindi, la messa in atto di resistenze da parte degli ostaggi alla loro liberazione. Questo tipo di sentimenti potrebbe derivare in parte dalla alternanza di comportamenti minacciosi e piccole gentilezze o concessioni da parte del “carnefice”. Addirittura, a volte, la semplice mancanza di violenza viene avvertita come una forma di gentilezza.
Forte appare, inoltre, il vissuto di impotenza relativo alla possibilità di mettersi in salvo da soli, per cui le vittime tendono a mantenere un atteggiamento docile e remissivo al quale possono seguire feed-back positivi da parte dell’altro, rinforzando il circolo “emotivo”. In effetti, questi sentimenti coinvolgono anche gli aggressori, che finiscono per sviluppare, a loro volta, sentimenti positivi verso le vittime.
In un’ottica di psicologia clinica appare interessante indagare gli stili di attaccamento e i profili comportamentali dei soggetti che hanno vissuto lo stato di identificazione vittima-carnefice, alla luce dei modelli di attaccamento infantile.
A partire dalla prima metà del 1900 si vedevano già le prime teorie sul ruolo dell’attaccamento nello sviluppo psico-fisico del bambino, fino ad arrivare agli studi di John Bowlby, considerato ancora oggi il padre di questa teoria, che indagò sulle motivazioni intrinseche che legano il bambino ad una figura primaria, per lo più la madre. Lo psichiatra notò che il piccolo non cercava la madre solo per il nutrimento ma il legame, o meglio l’attaccamento a lei, era motivato dalla ricerca di protezione, di calore e di affetto. Dunque se le ragioni che spingevano il bambino verso la madre erano tutte abbastanza simili, evidentemente le risposte che la madre forniva erano diverse, se i modelli di attaccamento che lo psichiatra individuò, risultavano differenti.
L’attaccamento, infatti, poteva essere di due tipi fondamentali, con delle variabili tra di loro lungo un continuum, il tipo sicuro e quello insicuro.
Avere un attaccamento sicuro, come dice l’aggettivo stesso, significa sentirsi sicuri e protetti (la base sicura), mentre avere un attaccamento insicuro implica una moltitudine di emozioni positive e negative, spesso coesistenti e contrastanti verso la figura primaria, da amore a timore del rifiuto, fino a stato di allerta e irritabilità.
Il comportamento di attaccamento, invece, secondo lo psichiatra, verrebbe attivato da una situazione di separazione dalla figura primaria, o dalla possibilità che questa avvenga. Dunque il comportamento sarebbe secondario al tipo di attaccamento instaurato.
L’attaccamento in sé è un comportarsi in un modo pressoché invariato nel corso del tempo, che non cambia in modo repentino, come invece accade per il comportamento di attaccamento.
Altra distinzione riguarda i soggetti verso cui si manifestano attaccamento e comportamento di attaccamento. Mentre quest’ultimo può manifestarsi in condizioni diverse verso persone diverse, il primo si manifesta prevalentemente verso una sola figura di riferimento, di solito la madre.
Un bambino che “sa” di avere una base sicura, si sente sostenuto e questo gli permette anche di rimanere solo con se stesso e di esplorare il mondo circostante senza paure.
Gli adulti ripropongono le relazioni interiorizzate nell’infanzia grazie ai modelli operativi interni, ovvero alle rappresentazioni mentali che contengono un grande numero di informazioni su di sé e sulle figure di riferimento, e che riguardano il modo più probabile in cui ciascuno risponderà all’altro con il variare delle condizioni ambientali. Tali rappresentazioni mentali sono quelle che indicano le modalità di comportamento in quelle situazioni in cui un soggetto si prende cura di un altro. Questo accade, ad esempio, nel diventare genitore, quando si deve rispondere alle richieste ed ai bisogni del figlio. L’elemento di continuità delle relazioni non è dato, però, semplicemente dalla riproposizione di quelle relazioni che hanno caratterizzato l’infanzia del genitore, ma soprattutto dal modo in cui l’adulto le ha rielaborate.
Il bambino che esperisce un attaccamento sicuro, sviluppa un modello dell’altro come affidabile e disponibile, e un modello di se stesso come degno delle cure che riceve. Sarà protetto da stress e traumi, attraverso la ricerca attiva di risorse e la resilienza. Inoltre, la creazione di una relazione di attaccamento sicuro tra madre e bambino è il principale fattore protettivo contro i comportamenti violenti e antisociali.
Il bambino, invece, che non riceve cure adeguate può sviluppare sentimenti di rabbia e di angoscia nei confronti degli altri, e nei propri confronti sentimenti di insicurezza, spesso diventa impulsivo, oppositivo, manca di empatia, è incapace di dare e ricevere affetto e amore, esprimendo, quindi, aggressività e violenza
Secondo Goldwyn e Main, dopo la somministrazione dell’ “Adult Attachment Interview” , esisterebbero tre classificazioni principali di attaccamento nell’adulto, secondo cui i soggetti vengono classificati come “autonomi o sicuri”, quando la relazione emerge come positiva, come “distanzianti”, quando tendono a minimizzare le proprie relazioni di attaccamento. Quei soggetti che mostrano, invece una preoccupazione, un sentimento di rabbia o passività verso la figura di attaccamento, vengono classificati come “preoccupati”. I soggetti “distanzianti” e “preoccupati” avrebbero avuto un attaccamento insicuro. Un’ultima categoria comprende i soggetti “irrisolti-disorganizzati”, che avrebbero fatto esperienza di situazioni traumatiche come una perdita o un abuso. Questi ultimi potrebbero essere, a mio avviso, quelli che ripropongono il trauma subìto come Sindrome di Stoccolma.
Questo, ovviamente, non può essere considerato come l’unico fattore predisponente, ma in un’ottica multifattoriale e pluricausale, vanno considerati anche l’ambiente, familiare e sociale, lo spazio di vita, i fattori culturali, in cui si instaura la relazione; la sensibilità dell’adulto, da un lato, ma anche il temperamento del bambino, dall’altro.