L’alimentazione come arte terapeutica: percorsi storici.
Degli altri sostegni non abbiamo bisogno in ogni tempo,
ma senza l’alimentazione non possono vivere né i sani,
né i malati.
Galeno, De alimentorum facultatibus, I, 1
La “dieta” o “regime alimentare” in riferimento al mondo antico, vuole intendere un concetto molto più esteso di quello di “alimentazione”.
La scienza dietetica, infatti, appare un elemento costitutivo della cultura alimentare e gastronomica dell’antichità e la cucina antica, evolutivamente con la scoperta della possibilità di cuocere il cibo con il fuoco, si sviluppa in stretta connessione con il pensiero medico e con la riflessione dietetica, ponendo le basi di una cultura complessa che contrassegnerà il pensiero occidentale fino all’avvento della chimica in età moderna (J. L. Flandrin e M. Montanari, 1997).
Le opere mediche dell’antichità che hanno trattato il tema dell’alimentazione, possono essere ripartite in:
- trattati esclusivamente “alimentari” o più ampiamente “dietetici”, dal corpus ippocratico del V-IV secolo a. C. ( De dieta, De dieta in acutis, De salubri dieta) alle opere dei Galeno (II secolo d.C.), di Oribasio (IV secolo d.C.) e di Antimo (VI secolo d.C.);
- raccolte di semplici (Dioscoride, Plinio, P. Apuleio ecc.);
- opere mediche afferenti alle varie branche, che a livello terapeutico considerano anche la dieta alimentare (De medicina di Celso, I secolo d. C.).
La letteratura antica ci ha tramandato che i “barbari” ignorano l’uso del fuoco e si limitano a consumare i cibi crudi, mentre C. Lévi- Strauss (1966) ha parlato del valore del “cotto” come elemento simbolico di definizione della civiltà.
Fin dalle origini, l’arte della cucina consiste non solo nel rendere gli alimenti più piacevoli al gusto, ma anche nel trasformare la “natura” dei prodotti adattandoli alle esigenze nutrizionali degli uomini: nutrimento e salute procedono insieme, fin quasi a confondersi, come sostengono gli scrittori greci e latini di dietetica, da Ippocrate (1962) in poi.
Tecniche di cottura, condimenti, abbinamenti, modi di successione delle vivande trovano la loro ragion d’essere in un “discorso sul cibo” che intende la cucina come strumento di “correzione” della natura.
Ultimo fine della dietetica sarà, quindi, mantenere l’equilibrio umorale con cibi “temperati” e “bilanciati”, o più spesso di ricostituire quell’equilibrio, ove esso sia compromesso dalla malattia, mediante una dieta appropriata, che aggiunga “caldo” là dove vi è eccesso di “freddo”, “umido” là dove vi è eccesso di “secco” e così via, secondo un continuum, dalla combinazione dei cui fattori possono scaturire infinite situazioni diverse.
In questo discorso cucina e dietetica parlano il medesimo linguaggio, poiché i criteri del gusto si intrecciano con quelli della salute, e ad esse si affiancano l’esercizio fisico, il lavoro, il bagno, il sonno, l’attività sessuale, il vomito, la purgazione, con il fine non solo di curare, ma soprattutto di conservare e prevenire.
La dieta come strumento di prevenzione e cura delle malattie è, nel mondo antico, essenzialmente riservata alle classi economicamente agiate; le altre devono ricorrere ai medicamenti e alla chirurgia, che in tempi più rapidi ristabiliscono la salute, o, più spesso, accelerano la morte.
La salute e la malattia costituiscono, rispettivamente, equilibrio e squilibrio degli elementi che compongono il corpo umano. L’equilibrio può essere conservato o ristabilito attraverso un rapporto di combinazione tra alimentazione e lavoro e/o esercizio fisico e mediante altri strumenti non solo dietetici, ma anche chirurgici e farmacologici.
I cibi e le bevande, infatti, una volta conosciutane la natura e somministrati di conseguenza, conservano o ristabiliscono l’equilibrio, se in essi si individuano le potenzialità di contrastare o integrare, rispettivamente, l’eccesso o il difetto che, a loro volta, provocano lo squilibrio e la malattia nel corpo umano. Infatti, trasformati in liquido nello stomaco e assorbiti attraverso i vasi, compensano, là dove necessario, gli umori deficitari o corrotti.
Io dico che colui il quale intende trattare correttamente della dieta degli uomini, deve conoscere e riconoscere in primo luogo la natura umana: conoscere quali sono i suoi componenti fondamentali e riconoscere quali elementi predominano (…). Alimenti ed esercizi hanno in effetti virtù reciprocamente opposte, ma che contribuiscono insieme a fare la salute. Per loro natura gli esercizi disperdono le energie disponibili, mentre i cibi e le bevande compensano le perdite (Ippocrate, 1962, op. cit.).
Partendo dalla concezione biofisiologica umorale (bile gialla, bile nera, sangue e flegma), il cui giusto equilibrio determinava lo stato di salute, di contro alla discrasia di uno di essi sull’altro, origine di malattia, Ippocrate fonda la terapeutica sulla evacuazione dell’umore sovrabbondante e “corrotto”. Gli umori erano dotati di peculiari caratteristiche di “secco caldo”, “secco freddo”, “umido caldo”, “umido freddo”, per cui appariva primario individuare nei cibi e nelle bevande tramite il gusto e il tatto, le stesse caratteristiche, e poiché i cibi e le bevande agiscono attraverso il meccanismo della digestione, si trattava di individuare anche le caratteristiche digestive e nutritive dei singoli alimenti; questo in rapporto alla modalità della loro preparazione tramite cottura, che trasforma i cibi in succhi, in liquidi, più o meno densi, più o meno viscosi. Saranno, dunque, più digeribili, ma meno nutritivi, nel senso che vengono più rapidamente “cotti” e più celermente assorbiti o eliminati, i cibi umidi e caldi, molli, poco densi, ecc.
Prima di ogni cosa ognuno conosca la natura del proprio corpo, infatti alcuni sono magri, altri obesi; alcuni caldi, altri piuttosto freddi; alcuni umidi, altri secchi; alcuni soffrono di stitichezza, altri di diarrea. Raramente si incontra qualcuno che non ha un qualche lato debole. Il magro si deve riempire, il pieno dimagrire; il caldo si deve raffreddare, il freddo riscaldare; l’umido si deve seccare, il secco umidificare; parimenti deve stringere l’alvo colui che lo possiede lento, al contrario scioglierlo colui che lo ha stretto: sempre bisogna venire a soccorrere quella parte che è sofferente. ( Celso, 1961)
Le caratteristiche dei vari alimenti possono venire trasformate dalla preparazione culinaria.
Ecco come si può far sparire o rinforzare le qualità (…): facendo bollire e raffreddando a più riprese gli alimenti forti, si toglie loro tale qualità; tostando e arrostendo gli alimenti umidi si toglie loro l’umidità; parimenti per gli alimenti secchi tenendoli a bagno e spruzzandoli; per i salati tenendoli a bagno e facendoli bollire; per gli alimenti amari e aspri mescolandoli con alimenti dolci; per alimenti astringenti unendoli a quelli grassi (Ippocrate, op. cit.).
La cottura del cibo è considerata un progresso per la salute, già in uno dei testi medici più antichi del corpus ippocratico, il De antiqua medicina e, successivamente, le diverse modalità di cottura diventano strumenti di modificazione delle proprietà naturali degli alimenti, in funzione della salute. Ugualmente è sottolineata da parte dei medici l’importanza dell’assunzione di cibi resi digeribili, pena, anche nelle persone più robuste, un precoce invecchiamento, un danno per la salute.
La dieta va personalizzata tenendo conto dell’attività, dell’età, della costituzione e del sesso del singolo.
Le attività sono sia fisiche, ossia sportive, che mentali, come ascoltare, pensare, osservare.
L’età va considerata, nel consigliare un regime, perché, a seconda di essa, tendono a prevalere nell’individuo stati diversi: caldi e umidi sono i bambini, caldi e secchi i giovani, secchi e freddi gli adulti, umidi ( o secchi) e freddi gli anziani.
Quindi, cibi secchi e freddi saranno adatti per i bambini, freddi e umidi da consigliare ai giovani e così via.
Inoltre, ogni individuo ha in sé un suo particolare equilibrio degli elementi che non può essere trascurato: i magri e gracili faranno bene a scegliersi cibi umidi, i grassi cibi secchi e così via.
Anche il sesso rappresenta un elemento importante nella individualità fisiologica di una persona: se nelle donne prevale l’umido e il freddo, e negli uomini il secco e il caldo, allora i cibi secchi e caldi dovranno prevalere nella dieta delle prime e gli umidi e freddi in quella dei secondi.
Tale regime ad personam non rimane immutato nel tempo ma va ritoccato con gradualità almeno quattro volte in un anno, a seconda delle stagioni. Alimenti più caldi, forti, secchi e nutrienti come il grano, la carne, il vino non diluito, sono da privilegiare in inverno; freddi e umidi, quindi leggeri e digeribili, come il pane integrale, le verdure, l’acqua, sono da preferire in estate; intermedi sono preferibili nelle altre due stagioni.
Il richiamo alla moderazione, la giusta quantità nel cibo e nelle bevande, accompagna tutta la dietetica alimentare del mondo antico, da Ippocrate ad Antimo, ma si fa sentire soprattutto in quelle epoche storiche in cui le condizioni economiche generali favoriscono gli eccessi, come avviene nei primi secoli dell’impero, periodo in cui si accentua particolarmente la connessione tra medicina ed etica: la salute deriva anche dal controllo degli istinti.
In tutta la tradizione medica, già a partire dal De antiqua medicina, si è consapevoli delle diversità ma anche delle corrispondenze tra l’alimentazione del malato e quella dell’uomo sano. La maggior parte dei principi dell’alimentazione dell’uomo sano sono validi anche per il malato, ma l’alimentazione del malato ha come obiettivo il recupero della salute perduta, in combinazione con gli altri strumenti della dietetica, con i farmaci e/o con la chirurgia.
In alcuni casi il cibo può essere anche l’unica medicina.
Molte diete alimentari specifiche sono giunte a noi soprattutto nei trattati clinici dell’antichità, specifiche per l’idropisia, la febbre, le varie forme di follia, le malattie renali, convalescenze dopo vari interventi chirurgici, ecc.
Per il malato i tempi della somministrazione del cibo sono sotto lo stretto controllo del medico. E’ importante, infatti, da un lato, che il cibo venga somministrato, affinché l’individuo non divenga troppo debole di fronte alla malattia, dall’altro che il cibo non vada ad alimentare la malattia.
Per questo, ai prodromi della malattia, quando il soggetto ha in sé ancora forze sufficienti per sostenersi, il cibo sarà eliminato o ridotto; durante il periodo di convalescenza, la riassunzione del cibo avverrà gradualmente.
Ugualmente importante appare la quantità di cibo ingerito perché esso deve contrastare l’eccessivo indebolimento del malato, e con questo l’insorgere di nuove malattie, ma anche il peggioramento della malattia già in atto.
Dunque nell’antichità non si può notare un sostanziale progresso nei principi alimentari, ma ciò che cambia sono soprattutto la quantità e qualità dei cibi considerati, la valutazione di alcuni particolari cibi o la dieta alimentare in alcune une particolari malattie.
Poche le ghiottonerie: nel De medicina di Celso le carni di gru, il pavone, il tordo, le lumache, i datteri; nel De alimentorum facultatibus di Galeno le mammelle delle scrofe in allattamento, il fegato di animali nutriti a fichi, i testicoli dei galli alimentati con pastoni a base di latte ecc:; nel De observatione ciborum di Antimo alcuni derivati del latte, la birra e il lardo.
Non ci è pervenuto alcun libro di cucina antico egiziano, e solo raramente si trova indicato il modo di preparazione di cibi, come testimoniano i geroglifici su una parete della tomba tebana di Rekhimira ( 1504-1450 a.C.), in cui vengono indicati gli ingredienti per la preparazione di dolcetti destinati alla tavola del dio. (Wilson H., 1988)
I medici egiziani conoscevano bene i segreti della farmacopea e le virtù dell’erboristeria.
I farmaci da somministrare per bocca venivano diluiti in acqua, latte, vino o birra. Il miele era usato correntemente come edulcorante e nel papiro di Ebers sono citate preparazioni farmaceutiche come: decotti, pozioni, pillole, elettuarii, infusi ( Cingolani E., Colapinto F., 2000).
L’intreccio tra dietetica, gastronomia e terapeutica è ben descritto in un Libro di medicina in demotico (II secolo d.C.) ( Reymond, E.A.E.,1976), che fornisce la ricetta di un piatto di carne e verdure per coloro che hanno male allo stomaco. La funzione curativa è affidata alla carne di piccione e di oca, al finocchio, dotato di qualità digestive e anticolitiche e alla cicoria, ricca di sostanze depurative ed epatoprotettive; il giaggiolo è, poi, un efficace colagogo.
Nel Medioevo, e precisamente tra VIII e IX secolo, quando si determina il processo di aristocratizzazione della società , la dietetica tenderà ad assumere, oltre al tradizionale carattere di precettistica igienico-sanitaria, l’aspetto di norma sociale e di codice di comportamento.
Il monaco Alcuino, illustra i diversi modi in cui può manifestarsi il “vizio della gola”, e deplora il peccato di chi si fa preparare cibi più raffinati di quanto richiesto dalla sua “qualità” personale ( Flandrin J.-L., Montanari M., a cura di, op.cit.).
Sulla scia della tradizione ippocratico-galenica, anche la medicina bizantina propone la dottrina della patologia umorale. Le malattie derivano da una squilibrata mescolanza dei quattro umori corporei, provocata essa stessa da disturbi psichici, influssi esterni stagionali e, non ultima, alimentazione sbagliata. La scelta dell’alimento, di volta in volta ritenuto idoneo, determina il mantenimento di un sano equilibrio psicosomatico.
Giovanni Kaloeidas, medico del XV secolo, scrisse una lettera a un illustre bizantino, malato di gotta, contenente delle prescrizioni per una dieta adeguata. Si doveva evitare carne grassa, legumi, uva passa e pinoli, mentre erano consentiti minestrone con carne d’agnello, starne e tordi.
Giovanni Cortasmeno identificava la causa di brivido e dolor di testa nell’ aver mangiato zucche in stato di prostrazione fisica. Uva e caviale del Ponto presi a colazione in un momento poco opportuno, invece, gli avevano procurato difficoltà respiratorie ( Ph. Kukules, 1948-55).
All’incirca negli stessi secoli cominciò l’importazione delle spezie dall’Oriente, molte delle quali non avevano uno scopo culinario ma una funzione terapeutica. Secondo il Thresor de santé (1607), il pepe “conserva la salute, dà sollievo allo stomaco (…), dissipa le ventosità (…), fa urinare (…), guarisce i brividi delle febbri intermittenti, guarisce pure le morsicature dei serpenti, fa abortire il feto morto. Se lo si beve, serve alla tosse (…) pestato con l’uva secca, purga il cervello dal flemma, stimola l’appetito”. Il chiodo di garofano, da parte sua, “serve agli occhi, al fegato, al cuore e allo stomaco. Il suo olio è eccellente contro il mal di denti. (…) Serve al flusso freddo del ventre, e alle malattie fredde dello stomaco (…). Due o tre gocce in brodo di cappone guariscono la colica. Aiuta molto la digestione se lo si fa bollire in buon vino con semi di finocchio (…). E’ adatto per la guarigione della febbre quartana e di altre malattie”.
La funzione terapeutica delle spezie va di pari passo con il ribaltarsi del principio precedentemente sostenuto che ognuno dovesse mangiare conformemente alla propria natura, infatti nella stessa opera si legge che è importante fornire i cibi “di qualità umida e calda a coloro che sono di umor malinconico; quelli che sono freddi e umidi ai collerici; i caldi e secchi ai flemmatici; e quelli di buon succo e mediocre nutrimento ai sanguigni”.
Questa funzione medica delle spezie, era stata sostenuta già in precedenza da Laurioux (1985), anche se non è noto se questi prodotti farmaceutici fossero utilizzati in cucina per motivi terapeutici o per fini puramente gustativi. Nel XIV secolo Magnino da Milano nel De saporibus (1517) sconsigliava l’abuso delle salse, proprio per la loro natura di medicamento:” Le salse (…) hanno una natura medicinale e, di conseguenza, coloro che sanno le rifiutano del tutto nel regime di salute, perché per conservare la salute ci si deve astenere da tutte le cose medicinali”.
Nondimeno, dal XIII secolo all’inizio del XVII i medici non hanno smesso di raccomandare le spezie nel condimento delle vivande per renderle più digeribili. Aldobrandino da Siena scrive nel Régime du corps (1911) che la cannella ha il merito “di aiutare le facoltà del fegato e dello stomaco” e di “aiutare a cuocere bene la carne”, lo zenzero “ha capacità di aiutare lo stomaco freddo (…) e aiuta a cuocere bene la carne”, i chiodi di garofano “aiutano le facoltà dello stomaco e del corpo, (…) debellano la ventosità e i cattivi umori (…) generati dal freddo, e aiutano a cuocere bene la carne” .
Anche i condimenti “freddi”, come l’aceto e l’agresto, rivestivano funzione dietetica, stimolando l’appetito, grazie alla loro cosiddetta “punta affilata”, che permette di penetrare anche nei più piccoli condotti del corpo. All’inizio del XVII secolo, Duchesne scriveva:
“Sulle qualità dell’aceto (…) ci accontenteremo di dire (…) che è uno dei maggiori stimolanti dell’appetito e che inoltre è giovevole a incidere, aprire e dilatare i vasi…a temperare l’ardore della bile. (…)Impedisce inoltre la corruzione, aiuta la digestione agli stomachi (…) che sono troppo caldi (…) ma bisogna farne uso con moderazione, sia correggendolo e mitigandolo con dello zucchero e altre cose. Anche l’agresto serve ad acuire l’appetito, a contemperare il sangue e l’umore bilioso, e perciò serve alle complessioni colleriche e a coloro che sono colpiti da malattie calde” (1618).
Erano molte, poi, le raccomandazioni dietetiche relative al modo di consumare la frutta. Se, infatti, Galeno sosteneva di non aver mai avuto febbre perché non aveva mai mangiato frutta, in realtà molta frutta veniva consumata dall’alta società, ponendo, però, all’inizio del pasto i frutti freddi e/o putrescibili, come le ciliegie, le prugne, le albicocche, le pesche, i fichi, le more, l’uva e il melone, mentre le mele e le pere, le castagne, le nespole, erano più adatti alla fine del pranzo, poiché favorivano i processi digestivi.
Se durante il Medioevo e fino all’inizio del XVII secolo, l’alimentazione delle élite seguiva molto le prescrizioni dei medici per ciò che concerneva sia la scelta dei cibi sia il modo di cucinarli, e l’alta società lasciava le grosse carni come il bue o il maiale e la maggior parte delle verdure, alla gente del popolo, il cui stomaco era ritenuto più robusto, consumando volatili delicati, pesci dalla carne più leggera e pane di frumento, queste precauzioni igieniche tendono a sparire dal XVII al XVIII secolo.
Infatti cuochi e gastronomi cominciano a parlare dell’armonia dei sapori: l’allentarsi dei legami tra cucina e dietetica libera la “gola” e le raffinatezze della cucina non mirano più a mantenere i consumatori in buona salute ma a soddisfare il gusto dei golosi.
La scarsa disponibilità e/o la cattiva qualità del cibo hanno condizionato tutte le società dell’ ancien régime dal punto di vista sanitario, della morfologia del corpo ma anche sotto il profilo psichico e caratteriale.
Le carestie, oltre a provocare un innalzamento dei tassi di mortalità, rappresentavano anche un rischio epidemico, a causa della sostituzione di cibi freschi con prodotti di scorta, spesso mal conservati o addirittura non più commestibili.
Ma se una cattiva alimentazione poteva causare la malattia, una terapia alimentare, spesso unica strada perseguibile, poteva restituire la salute. I medici condotti, infatti, quando chiamati dai loro pazienti, prescrivono pochissimi preparati a base di farmaci, mentre insistono sulla “dieta terapeutica”, a base di carne, vino imbottigliato, pane bianco, caffè, uova, rosolio e mele.
In Irlanda nel 1845-46 la “malattia della patata” provocò una delle più grosse carestie nel mondo occidentale, a cui seguirono gli effetti patologici di condizioni di iponutrizione e/o disvitaminosi, come scorbuto, dissenteria, tifo petecchiale e colera. Inoltre, la mancanza di vitamina B7, fornita in prevalenza dalla patata stessa e dal latte, determinava un notevole aumento di malattie mentali, mentre lo scarso apporto di vitamine A, D, E, dovuto all’assenza di verdure, di frutta, di burro, di grassi e di latte, poteva dare luogo ad oftalmia, anemia e rachitismo.
Se, però, erano soprattutto i “villani” a risentire più direttamente della mancanza di cibo, disagi si ripercuotevano su tutta la società, coinvolgendo anche le classi più agiate, che, disponendo di cibo in abbondanza, dovevano preoccuparsi che gli effetti della penuria venissero controllati per ragioni di tranquillità sociale e per motivi di ordine sanitario.
Così per tutto il XIX secolo e anche dopo, si verificarono nell’Italia centro-settentrionale, numerosissimi casi di pellagra, con i noti stadi di diarrea, dermatite e demenza, causata principalmente dal fatto che la farina di mais, trasformata in polenta, veniva mangiata senza sale e senza altri condimenti che potessero aumentarne il valore vitaminico e, d’altronde, come si appurò negli anni trenta, il processo di bollitura liberava e disperdeva anche quella minima quantità di vitamina PP (niacina) in esso contenuta.
Un cenno a parte meritano, poi, la salute femminile e quella infantile.
Infatti anche l’architettura e le funzioni sessuali del corpo femminile sembrano essere subordinate ai livelli dietetici.
E. Shorter (1984) ha sostenuto un abbassamento della statura fra il XIV e il XVIII secolo, in conseguenza di una diminuita disponibilità di cibo, mentre a partire dalla fine del Settecento un incremento nutrizionale avrebbe avuto influenza sia sull’anticipazione del menarca che sullo spostamento in avanti del climaterio, con un conseguente allungamento del periodo fertile della donna, ferme, però, restanti, le differenze fra donne di campagna e donne di città.
Per ciò che concerne la salute infantile, l’interazione tra sottoalimentazione e patologie frequentemente mortali rimaneva particolarmente rilevante nel caso delle malattie intestinali, soprattutto gastroenteriti, diarrea e dissenteria. E’ stato infatti valutato che il prolungato allattamento al seno materno, che già di per sé non forniva sempre un adeguato apporto nutrizionale, in quanto strettamente dipendente dall’alimentazione materna, di solito carente, e il passaggio con lo svezzamento ad una alimentazione ricca di amido, che fornisce uno scarso apporto proteico, provocava difetti nutrizionali molto gravi.
Fino ad arrivare alle epoche più recenti, in cui l’alimentazione si configura come “centralità” dell’oggetto “cibo” e il rifiuto volontario e protratto degli alimenti o varie forme di iperalimentazione “portano a” e, al contempo, “derivano da” veri e propri quadri psicopatologici ( anoressia mentale, bulimia nervosa e obesità psicogena).
Ma questa è un’altra storia.
Bibliografia
- Flandrin J.-L., Montanari M., a cura di, Storia dell’alimentazione, Ed. Laterza, Roma-Bari, 1997
- Levi-Strauss CL. Il crudo e il cotto. Il Saggiatore, Milano, 1966, p. 191
- Hippocrate, Oeuvres complètes, a cura di Littré E., Amsterdam, 1962
- Celsus. De medicina with an english translation, a cura di Spencer W.G., 3 voll., London, 1961
- Wilson H., Egyptian Food and Drink, in “ Shire Egyptology”, n. 9, 1988, p.13
- Cingolani E., Colapinto L., Dagli antidotari alle moderne farmacopee, Di Renzo Editore, Roma 2000
- Reymond E.A.E., A Medical Book from Krokodilopolis, Wien 1976, p. 86 d
- Ph. Kukules, Vita e civilizzazione dei Bizantini, Atene, 1948-55
- Thresor (Le) de Santé, Lyon, 1607
- Laurioux B., Spices in the medieval diet. A new approach,in Food and Foodways, I, 1985, pp. 43-76
- Magnino da Milano, Regimen Sanitatis Magnini mediolanesis medici famosissimi, Lugdunum, 1517
- Aldobrandino da Siena, Le Régime du corps, a cura di Landoury L., Pepin R., Paris, 1911
- Duchesse J., Le pourtraict de la santé, Saint-Omer 1618
- Shorter E., Storia del corpo femminile, Milano, 1984