Adolfo Hector Penas Alvarado (from Los Angeles, California) - Men at Work
Dal lavoro fordista alle competenze professionali
di Bruno Lamborghini
L’esperienza di remote working, anche se è avvenuta ed avviene ancora per lo più in modo destrutturato e casuale, ha creato una forte spinta a ripensare il lavoro e le modalità in cui viene organizzato. L’esigenza di lavorare da casa per centinaia di milioni di persone nel mondo e per diversi milioni in Italia, in fasi alterne, ha generato un telelavoro emergenziale, impreparato, con disagi personali soprattutto per le donne, spazi ristretti, inadeguata disponibilità di strumenti informatici, connessioni molto spesso deboli o inesistenti.
Questo lavoro ha preso nome di lavoro agile o erroneamente di smart working, mentre lo smart working riguarda solo attività lavorative con elevato grado di autonomia, un lavoro per obiettivi, misurabile in base ai risultati indipendentemente dall’orario o dal luogo di lavoro.
Questa prolungata esperienza ha messo in evidenza i fattori più critici, direi storici, dell’attività lavorativa, non solo a distanza, ma anche in presenza o ancor più in forme ibride. In particolare, l’utilizzo quotidiano continuo di strumenti informatici ha reso evidente e critica la distanza dall’uso strutturato degli strumenti e delle reti informatiche, così come dai processi integrati nelle piattaforme digitali aziendali spesso non adeguatamente supportati.
Ha soprattutto mostrato nella pratica la lontananza da una partecipazione responsabile ed autonoma delle attività lavorative con effetti sull’efficienza, produttività e possibilità di innovazione. Si è evidenziata una inadeguata preparazione organizzativa al lavoro a distanza da parte di strutture pubbliche ed anche di imprese, ed una carente formazione on the job delle persone alla gestione di strumenti, piattaforme e reti informatiche.
E’ emerso anche il disagio di un rapporto problematico tra lavoro e vita, precedentemente non così esplicito nel lavoro in presenza e la conseguente necessità di riconsiderare nuove modalità di convivenza tra lavoro e vita. Ne sono indicazione anche le accresciute dimensioni delle dimissioni da lavoro, frutto sia di una più diretta percezione dei contenuti e delle motivazioni del lavoro nelle condizioni di home work e quindi la necessità di ricercare forme più adeguate di lavoro sia anche nuove motivazioni (economiche o psicologiche) nel rapporto di lavoro, forse precedentemente rese meno visibili nella routine tradizionale.
Nell’ultima parte del 2021 si è riscontrata in Italia una forte crescita delle dimissioni dal lavoro (circa un milione di persone), un fenomeno che va interpretato, ma che mette in luce una maggiore volontà di ricerca innovativa di nuove opportunità e modalità di impegno lavorativo, come sta già avvenendo in tanti paesi. Una ricerca McKinsey effettuata negli Stati Uniti, (The great resignation) ha esaminato le motivazioni per cui 10 milioni di persone, l’8% della forza lavoro americana (giovani e non giovani) nel 2021 hanno lasciato volontariamente il loro lavoro, in parte senza avere ancora sottoscritto nuovi contratti. Sono state elencate tra le motivazioni, una volontà di ricerca di maggiore flessibilità ed equilibrio tra lavoro e vita, incarichi più mirati e soddisfacenti, avanzamento di carriera, ma anche ricerca di aziende caratterizzate da valori etici e di sostenibilità ambientale.
Appare evidente che questo fenomeno sociale rappresenta un cambiamento strutturale in termini di esigenza del superamento di forme tradizionali ormai datate di lavoro, basato su modelli fordistici (lo schema classico “dirigi e controlla”) e su strutture organizzative verticalizzanti topdown. Questo nasce sotto la grande spinta innovativa delle tecnologie digitali, ma anche per le nuove esigenze imposte dal cambiamento climatico, dai processi di globalizzazione e di allungamento delle supply chain, dai crescenti condizionamenti geopolitici, ma soprattutto da nuove esigenze individuali e sociali.
Un elemento emerso in modo evidente nel lavoro a distanza e nelle comunicazioni in rete è che qualsiasi lavoro è sempre più connesso al lavoro di altri, in un ambiente di continua compartecipazione grazie alle nuove opportunità di comunicazione e di relazioni determinate dalle reti digitali. Così come si è evidenziato nella pratica che le tecnologie digitali, in primis l’intelligenza artificiale, non sostituiscono il lavoro, ma svolgono il ruolo determinante di fattore facilitante e abilitante del lavoro e delle organizzazioni.
Analogamente la lunga crisi ha evidenziato la stretta interconnessione e interdipendenza tra lavoro e salute, tra lavoro e vita, tra lavoro ed ambiente ed è su queste interdipendenze che occorre ripensare il lavoro.
Il tema del riscaldamento globale e delle emissioni di gas serra è divenuto centrale e trasversale, oltreché ad opera dei “movimenti Greta”, negli eventi internazionali del G20 di Roma e del Cop 26 di Glasgow, evidenziando lo stretto legame tra salute dell’uomo e salute della terra e l’interdipendenza dell’ecosistema naturale e della biosfera con la geopolitica, con gli interessi economici e le tecnologie, nel contesto planetario, in una natura radicalmente modificata in negativo dall’intervento umano, tanto che si parla della nuova era geologica dell’Antropocene. L’urgente necessità di sostenibilità ambientale e di cambiamento dei modelli economico-industriali, dall’industria lineare tradizionale all’industria ed economia circolare, impongono una trasformazione delle strutture organizzative e del lavoro.
Nonostante le incertezze ed i rinvii decisionali, si moltiplicano esempi positivi di impegno a ridisegnare strutture organizzative e contenuti del lavoro, tenendo conto dei nuovi obiettivi ESG (Environment, Social, Government) e dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, in particolare per le sollecitazioni che vengono dalle nuove generazioni, non solo perché più digitalizzate, ma perché più orientate ad attività disegnate su obiettivi sostenibili e sulle specifiche capacità e disponibilità al frequente cambiamento di attività, determinandosi così generazioni più mobili del passato.
Si è parlato in questi anni, erroneamente, di smart working, mentre la legge 81 del 2017 definisce smart working l’attività lavorativa per obiettivi, misurata in base ai risultati, indipendentemente dai tempi di lavoro e l’attuale contrattualistica del lavoro appare distante dal modello di smart working. Peraltro, il 7 dicembre 2021 è stato firmato tra le parti sociali presso il Ministero del Lavoro il protocollo d’intesa sul lavoro agile, che prevede che si possano attuare accordi individuali su base volontaria relativi alla durata dell’accordo, l’alternanza tra periodi di lavoro all’interno e all’esterno dell’azienda, la libertà di luogo e in parte la libertà dei tempi di lavoro, gli strumenti di lavoro forniti dall’azienda, i tempi di riposo, il diritto alla disconnessione, la sicurezza della gestione dati, riprendendo in certa misura, parte di quanto contenuto nella legge 81 del 2017.
Questo protocollo prende atto e conferma l’evoluzione non solo del remote working, ma anche del lavoro in presenza o ibrido in forma strutturale, aprendo la strada a possibili trasformazioni delle modalità di lavoro, tenendo conto delle nuove forme ibride, ubique, nomadi, verso cui sempre più ci si muoverà procedendo verso forme di maggiore responsabilizzazione ed autonomia delle attività lavorative con impatto positivo su produttività e soprattutto su innovazione creativa. Non dimentichiamo che l’innovazione creativa rappresenta oggi il maggiore fattore di vantaggio competitivo a livello internazionale, un carattere per cui noi italiani abbiamo una marcia in più da rafforzare.
I fatti dimostrano che si sta concludendo il lungo ciclo taylorista-fordista della divisione del lavoro, che ha contraddistinto la crescita industriale e che manifesta ancora casi di lavoro ripetitivo in alcune attività che peraltro sono sempre più sostituite da robot e algoritmi, anche se ancora si creano attività ripetitive strettamente dipendenti da piattaforme digitali, nei cosiddetti platform jobs come per i rider.
Non vi sono più spazi per lavori a basso coinvolgimento e quindi a bassa produttività, lavori ripetitivi che Adriano Olivetti rifiutava settanta anni fa in quanto non sono in grado di produrre, non solo maggiore produttività, ma soprattutto interesse e gioia nella vita di ciascuno, una gioia data dalla partecipazione ad “un nobile scopo”, come proponeva Olivetti, collaborando alla creazione di nuovo valore reale per l’azienda e assieme anche per il territorio ed il contesto sociale.
Il ridisegno del lavoro deve puntare a valorizzare la singola persona, le sue competenze professionali a qualunque livello, l’apporto personale unico di ciascuno alla costruzione di valore reale, di innovazione e di promozione di nuove forme organizzative basate sulle relazioni integrate tra le persone. Sono le competenze professionali a creare valore e struttura di una organizzazione, bottom up, rispetto al tradizionale rapporto gerarchico topdown, in cui le competenze costruiscono un accessorio, non la vera azienda.
Una recente intervista del giuslavorista Pietro Ichino metteva in evidenza che sarebbe in atto un rovesciamento del paradigma tradizionale, in cui il mercato del lavoro è il luogo dove il lavoratore si offre in vendita all’impresa; mentre ora il mercato del lavoro diviene il mercato dell’impresa, in cui è l’impresa che va sul mercato per acquisire le competenze disponibili. Per questo Ichino cita l’art.4 della Costituzione che riguarda il diritto al lavoro in cui si esplicita il dovere/diritto del lavoratore di decidere il proprio lavoro secondo le sue preferenze e le sue scelte. E questo significherebbe l’opportunità di dare spazio anche ad accordi individuali su base volontaria da parte di ciascun lavoratore. In Italia, conferma Ichino, manca una politica attiva del lavoro, non esiste una anagrafe della formazione professionale e delle competenze; sussiste un confuso rapporto tra Stato e Regioni per la formazione professionale che non valorizza la scuola professionale, nel quadro generale della scuola che in Italia per sua natura tende a privilegiare la formazione umanistica rispetto alla formazione tecnica.
Non c’è, come invece avviene da tempo in Germania con ottimi risultati, un collegamento diretto tra formazione professionale e occupazione e si riscontra un grave gap tra formazione professionale di base ed esigenze delle imprese, spesso con mancanza di dialogo, a fronte invece del modello tedesco delle Fachhochschulen di grande efficacia per l’economia e l’occupazione giovanile. Citando ancora le parole di Ichino, partendo dalla necessità di collegamento tra formazione professionale e occupazione, è necessario sviluppare una effettiva politica attiva del lavoro, rilanciando l’attività bloccata dell’ANPAL e costruendo un’anagrafe della formazione professionale.
Si sono introdotti in Italia da alcuni anni gli ITS, Istituti tecnici superiori, seguendo il modello tedesco per preparare diplomati con competenze operative che entrano immediatamente nel lavoro. In realtà, lo sviluppo degli ITS è stato limitato o addirittura frenato. Ci si augura invece da parte di Stato e Regioni un effettivo rilancio degli ITS e della formazione professionale, nel quadro anche dei progetti del PNRR/GOL
Al di là delle scelte o non scelte della politica, si riscontra in Italia per fortuna una crescita di nuove attività, in particolare, ma non solo, startup, che aprono nuove opportunità, utilizzando pienamente il digitale, ma soprattutto una nuova volontà e passione da parte di giovani con strutture organizzative basate su una partecipazione piena, competente, un modello di lavoro quasi artigiano, con la consapevolezza di partecipare alla creazione del nuovo, di dare senso alla propria vita attraverso il proprio lavoro.
In questa prospettiva, il lavoro, qualsiasi lavoro, non si chiamerà più lavoro, ma sempre più competenze professionali specifiche di ciascuno ed in particolare competenze corredate da un giusto mix e contaminazione di tech skills, soft/life skills e human skills.
Non si parlerà più di jobs, ma di skills, si passa dalle tradizionali mansioni standard (la fine del classico mansionario aziendale) verso ruoli che saranno definiti dalle competenze professionali di ciascuno e dalle capacità di relazione con gli altri. Occorre accelerare il passaggio da forme procedurali e contrattualistiche rigide a forme di autonomia e responsabilizzazione per ruoli specifici definiti anche a livello individuale. Verso un lavoro sempre più per obiettivi con misura dei risultati, senza riferimenti a spazio e tempo, in forma ubiqua/nomade/mobile.
La sede di un lavoro tendenzialmente più ibrido, nomade e mobile diviene il computer, il notebook, lo smartphone, con possibili sedi di lavoro in open space condivisibile e ambienti di coworking.
Il lavoro svolto in remoto deve superare il rischio di limitare le relazioni umane dirette tra le persone, con frequenti incontri e si potranno favorire nuove relazioni attraverso una organizzazione dinamica e ramificata in forme miste in web e in presenza per consentire capacità di relazione e di integrazione tra le persone, attraverso teamwork, lo sharing continuo di conoscenze, con modalità di comunità di pratica e di data sharing attraverso piattaforme dati, con scambio di responsabilità sulla gestione dati, sulla privacy e la cyber security.
Come ho scritto su Macrotrends 2021-22 di HBRI, il lavoro a distanza ha accelerato il processo di democratizzazione digitale e l’economia dei dati (trilioni di dati prodotti da noi e dalle macchine) in cui tutti siamo sempre più immersi, per operare efficacemente, deve essere affiancata da una effettiva democrazia dei dati, cioè la possibilità di accesso consapevole agli strumenti informatici, alle piattaforme dati, conoscendo e gestendo l’origine dei dati e delle conoscenze, attraverso la diffusione e formazione di competenze adeguate operanti in organizzazioni che condividono ed apprendono da tutti, in un apprendimento e scambio continuo tra persone e organizzazioni.
Il lavoro si arricchisce e si modifica attraverso apprendimento dinamico permanente on the job, un apprendimento continuo lifelong in una organizzazione che diviene learning organisation promuovendo forme di apprendimento permanente al posto di programmi di formazione spesso statici, generici e limitati temporalmente.
Il ridisegno del lavoro porta alla trasformazione delle organizzazioni verso modelli di “agile organisations” in grado di adattarsi continuamente non solo alle esigenze del mercato ed alle crescenti complessità del contesto, ma soprattutto di adattarsi alle opportunità che provengono dalla disponibilità di competenze professionali dinamiche di singole persone o di team all’interno ed all’esterno assieme ai partner ed alle filiere integrate.
La trasformazione del lavoro ridisegna il modello d’impresa che tende ad assumere forme più orizzontali rispetto a strutture gerarchico-verticali, prendendo spunto anche da modelli di startup o innovation hub e ponendo al centro le persone, non più definibili dipendenti, ma collaboratori, partner, in base alle loro competenze, la loro creatività quali veri asset strategici della produttività ed innovazione, rispetto agli asset fisici tradizionali.
Così si scoprono talenti nascosti nelle organizzazioni, spesso soffocati da lavori ripetitivi a bassa creatività, creando nuove possibilità di effettiva intrapreneurship, intraprenditorialità interna alle imprese, con effetti molto positivi, consentendo anche di sviluppare nuovi business e spin-off.
La tecnologia digitale diviene il collante dell’ecosistema d’impresa attraverso le reti e piattaforme dati in grado di massimizzare gli scambi di conoscenze e la partecipazione di tutti a comuni obiettivi. Non è la tecnologia che crea da sé stessa lavoro, sono solo le competenze professionali delle singole persone con l’adeguato impiego delle tecnologie a creare e definire il lavoro.
Un problema da affrontare urgentemente in Italia è la piena diffusione di reti di connettività fissa e mobile a banda larga, la cui carenza pregiudica in particolare, non solo il remote working, ma tutte le forme di lavoro, in molte zone del nostro paese.
Ma ancora più urgente è l’esigenza di affrontare il tema della formazione di competenze digitali oggi carenti a tutti i livelli, dalla mancanza di Data Analysts e Cloud professionals, di tecnici dell’Industria 4.0 delle macchine connesse in IoT sino a tutti i livelli. Si può dire che il vero problema non è tanto la disoccupazione tecnologica, quanto la mancanza delle competenze professionali necessarie che crea criticità e mancato sviluppo e carente occupazione qualificata.
Nella ripresa postcovid in tutti i paesi ed anche in Italia è in atto un grave mismatch tra domanda ed offerta di lavoro per la carenza di competenze professionali e in particolare competenze informatiche e tecniche che limita la possibilità di crescita. La stessa riforma della pubblica amministrazione italiana avrà difficoltà ad attuarsi per la carenza di competenze professionali, con adeguata preparazione digitale.
Negli USA questo gap di competenze sta frenando il rilancio postcovid. I media americani parlano del Great reassesment of work, la grande ristrutturazione del lavoro di fronte all’esigenza di competenze professionali carenti per affrontare in pieno le opportunità offerte dalla trasformazione digitale e dai grandi programmi di investimento dell’amministrazione Biden.
Il problema è che tante istituzioni formative non riescono a costruire le competenze richieste, non avendo la stessa velocità e volontà di cambiamento della velocità delle trasformazioni tecnologiche e dei mercati. Vi sono peraltro centri di formazione, che stanno operando assieme alle imprese ed alle istituzioni con positivi risultati, ma c’è ancora molto da fare. Si richiede con urgenza un miglioramento dei programmi formativi, nella scuola e nelle università, attraverso una interazione e scambio continuo tra formazione, apprendimento permanente e attività lavorative.
Siamo di fronte in Italia ad una grande sfida che potrà qualificare e dare sviluppo a questo decennio con cambiamenti strutturali, partendo anche dalla volontà e capacità di ridisegnare le modalità e contenuti della formazione professionale e del lavoro inteso sempre più come competenze da formare continuamente e consentire un apprendimento permanente a tutti i livelli e da parte di tutti. Orientando, in particolare, specifiche risorse del PNRR, un piano che, senza la disponibilità delle necessarie competenze professionali, avrà difficoltà a trovare piena attuazione.
La conoscenza diffusa, l’apprendimento continuo, la formazione di competenze professionali dinamiche guidate dalle tecnologie digitali potranno consentire un salto qualitativo nelle modalità e contenuti di tutti i lavori, producendo effetti positivi sull’intera economia, sulle organizzazioni, sul lavoro qualificato e sulla sostenibilità ambientale e sociale, puntando anche ad un rapporto più naturale e felice tra lavoro e vita.