Non è un’Europa per Netflix
di Antonella Zarra – Action Institute
Lo scorso 25 maggio la Commissione Europea ha presentato il terzo pacchetto di importanti misure sul Digital Single Market. Tre i temi dell’agenda politica: e-commerce, piattaforme e contenuti audiovisivi. Quest’ultimo capitolo, in particolare, ha sollevato non poche perplessità. Action Institute ne ha analizzato il contenuto, evidenziandone i potenziali impatti su consumatori e industria.
Bloomberg, di recente, ha criticato aspramente le iniziative della Commissione: il motivo per cui l’Europa non vanta la presenza di “colossi digitali indigeni” del calibro di Google, Amazon o Facebook sarebbe da ricondurre all’inesistenza di una Unione quale entità in sé. Un’azienda è prima di tutto italiana, francese, tedesca, non “europea”: manca non solo un’identità politica, ma anche un’identità economica. Insomma, quella di oggi non è ancora un’Europa a misura di Netflix & Co.
Tutte le speranze della squadra Juncker sono riposte nella creazione di un Digital Single Market. Le ambizioni, tuttavia, si scontrano con l’amara realtà: l’assenza di norme comuni fiscali, finanziarie, sul copyright rendono l’Europa un continente diviso, con un esecutivo incapace di riforme strutturali, probabilmente perché non dotato di sufficiente autonomia decisionale.
Più streaming “made in EU”
Uno dei temi bollenti per cui si è gridato alla svolta “protezionista” da parte di Bruxelles è il Refit della Direttiva sui servizi di media audiovisivi, una revisione delle norme europee che regolano la trasmissione di TV tradizionale, streaming, on-demand. La ratio della proposta è trasferire al mondo online alcune regole del mondo offline (se così possiamo definire la TV tradizionale), data la crescente domanda da parte degli europei.
I media hanno visto nelle iniziative della Commissione un ulteriore tentativo di mettere i bastoni tra le ruote ai colossi americani, che dominano lo scenario digitale europeo. Questa volta a finire nell’occhio del ciclone è stato Netflix, la piattaforma di streaming arrivata in Italia lo scorso autunno che punta al mercato europeo ora che quello americano è saturo.
La direttiva imporrà ai nuovi operatori di riservare all’interno del proprio catalogo una percentuale minima (20%) ai prodotti europei, per creare un level playing field con gli emittenti tradizionali. Le soglie non attirano la simpatia del business, che vede nell’interventismo istituzionale un freno alla libertà d’impresa. È pur vero che, come sottolineato in uno studio EAO, iTunes e Netflix già rispettano i criteri. Il mercato europeo è infatti fortemente influenzato dalle domande nazionali, e Netflix – pur di attrarre nuovi abbonamenti – ha dovuto organizzarsi producendo serie adatte ai gusti “local” (vedi Marseille in Francia e Suburra in Italia). L’azienda statunitense si dice scettica sulla policy europea che, anziché incoraggiare produzioni autoctone, imponendo quote incentiva l’acquisto di contenuti di scarsa qualità a poco prezzo solo per “essere in regola”.
L’altra spina nel fianco per i nuovi players è la sezione della proposta che impone loro di contribuire al finanziamento di opere europee. Gli incumbent reinvestono il 20% del fatturato annuo nei contenuti del paese in cui operano, mentre i newcomer solo l’1%. In Francia c’è stato un acceso scontro a tal riguardo, poiché Netflix evitava i vincoli di finanziamento facendo leva sul fatto che la sua sede aziendale fosse nei Paesi Bassi. Con la nuova proposta, espedienti del genere non avranno più modo di esistere, poiché l’obbligo si estende a tutti gli stati membri in cui i servizi di streaming operano.
È tuttavia molto probabile che, durante l’iter legislativo, le lobby facciano pressione affinché clausole così rigide siano emendate. Potrebbe infatti essere economicamente insostenibile per piattaforme come Netflix (attivo in 28 Stati Membri) devolvere una percentuale così alta ad ogni industria culturale nazionale. A rimetterci potrebbero essere proprio gli utenti, poiché le aziende potrebbero decidere di uscire dai mercati poco redditizi.
E questo scenario sarebbe antitetico rispetto all’hype di un’Europa all’avanguardia nel digitale.
Binge-watching in vacanza
La Direttiva sui servizi media audiovisivi non è l’unico fronte su cui l’Europa vuole dire la sua.
I vertici di Bruxelles hanno presentato una riforma della portabilità transfrontaliera dei contenuti online. L’obiettivo è l’abbattimento delle barriere virtuali che impediscono agli utenti di usufruire delle tecnologie in un altro stato (oggi metà dello sport live e 40% dei film non sono disponibili). Questo implica che gli europei che si trovano all’estero per lavoro/svago non possono usare l’abbonamento sottoscritto nel proprio paese. Si pensi ad uno studente italiano all’estero che desideri accedere al catalogo italiano di Netflix: ad oggi sarebbe impossibile, se non attraverso l’uso di servizi VPN.
La proposta permetterebbe agli utenti di trasferire – attraverso una finzione giuridica – il diritto ad usufruire del servizio in un altro stato per un “limitato intervallo di tempo”. La Commissione intende espandere lo scopo territoriale delle licenze, concesse su base nazionale, senza intaccare il principio dell’esclusività territoriale, che è alla base delle leggi sul copyright.
Nonostante il regolamento costituisca un buon passo avanti per la creazione di un mercato unico, alcune perplessità permangono. Non è chiaro cosa si intenda con “presenza temporanea”: qual è il lasso di tempo sufficiente a qualificare un abbonamento come trasferibile? Se si interpretasse in senso stretto, soltanto i turisti o i viaggiatori “short-term” ne beneficerebbero. Un’interpretazione più ampia porterebbe invece alla messa in discussione del principio di territorialità del copyright, includendo non solo chi effettua brevi soggiorni ma anche chi stabilmente risiede in un altro stato diverso da quello di origine.
La Commissione tuttavia non sembra favorevole a quest’ultimo approccio, ed è questo, probabilmente, che fa del regolamento un insufficiente esperimento di unificazione online dell’UE. In ballo ci sono gli interessi dell’industria del copyright, che tutto vuole fuorché un mercato unico digitale.
Restano solo sette mesi alla “scadenza” che Juncker si era dato per portare a compimento il DSM. Mancano, soprattutto, i due tasselli più spinosi, la riforma del copyright e quella delle telecomunicazioni.
Se la Commissione ha intenzione di realizzare davvero una rivoluzione digitale, è tempo di accelerare verso riforme robuste. La forza innovatrice ha una portata che l’Unione deve essere in grado di reggere. E, se non si dimostrasse all’altezza della sfida, sarà obbligata a cedere il passo ai giganti americani. Non c’è quota che tenga.