Ken Garduno (Los Angeles, California - Illustrator) - Smooth-Hawley Tariff Act
Trump, i dazi degli anni ’30 e la nuclear option
di Vincenzo Rampolla
Nel tardo pomeriggio del 17 giugno 1930 in Usa viene promulgata la legge di Smoot-Hawley sulle gabelle doganali. Nella notte in Europa e nel mondo il provvedimento fa balzare dal 38% al 60% i dazi su oltre 20.000 prodotti stranieri, in alcuni casi quadruplicandoli.
Vale la pena rispolverarla, con le ricadute negli anni '30 e le attuali conseguenze.
Smoot, senatore dello Utah, è certo che a far crollare Wall Street sia stato l’eccesso di importazioni estere rispetto alla capacità di consumo nazionale.
La sua ricetta per restituire all’America i posti di lavoro e il benessere è semplice: dazi iperbolici e protezionismo. Convince il Congresso che con una stretta sui dazi tutto tornerà a posto e spalleggiato dal potente deputato Hawley, il Presidente Hoover ratifica il Tariff Act, nonostante le 1028 firme di economisti che ne chiedono il veto (NYTimes 5.5.1930).
Il risultato? Un'impennata mondiale del nazionalismo e una guerra commerciale di Washington contro Canada, Francia, Impero britannico, Italia e Germania, che rispondono con pesanti misure di ritorsione.
In tre anni le importazioni degli Usa crollano del 66%, le esportazioni si affondano del 61%, il tasso di disoccupazione triplica dall'8% al 25% e la ricchezza degli Usa si dimezza.
Quanto basta per fare sprofondare l'economia globale in una crisi senza precedenti condita con vere guerre commerciali. La Grande Depressione esplosa ad agosto 1929, con spasmi dell'economia, travolge la borsa a ottobre, quasi si dimezza a metà novembre.
Esiste un legame con l’attuale intervento di Trump sulle tariffe doganali?
Tecnicamente oggi non esistono i germi di una crisi macroeconomica che giustifichino le tariffe di Trump visto che la disoccupazione Usa è al 4,1% e da quasi 9 anni l'economia è in crescita.
È improbabile che l'economia statunitense entri in recessione, sebbene l'OCSE abbia prontamente alzato la voce, bollando le isterie commerciali di protezionismo con un marchio di rischio per la crescita globale.
All'epoca della legge Smoot-Hawley, il governo applicava dazi a circa due terzi delle importazioni unitarie – ad esempio $100 per 1 tonnellata di acciaio o $1 per 1 litro di vino -.
In quel periodo dominava il vincolo della forte deflazione dei prezzi: se i prezzi calano, le tariffe aumentano in proporzione e una tariffa che aumenta del 10% il costo di un'importazione, ad esempio $100 di dazio su una tonnellata di acciaio al prezzo iniziale di $1.000, sale repentinamente al 20% se l'acciaio scende a $500 per tonnellata il dazio.
Si cerca un equilibrio e sebbene il Governo abbia imposto un solo aumento tariffario, nel tempo i prezzi più bassi hanno reso le tasse sempre più pesanti.
Nella conferenza ad Ottawa del ‘32, la Gran Bretagna stabilisce il suo sistema di "Preferenze Imperiali", concedendo tariffe doganali inferiori alle ex colonie come il Canada.
Poiché prima di Smoot-Hawley, circa un quarto delle esportazioni statunitensi era andato in Gran Bretagna e Canada, ciò significava che i produttori Usa di grano erano soggetti a certe tariffe nel mercato britannico, mentre gli agricoltori canadesi beneficiavano delle Preferenze Imperiali. Primissimi esempi questi di contraddizioni e confusione. Poi anche l’industria tessile statunitense subì tariffe doganali per le esportazioni verso il Canada, mentre i produttori inglesi ne erano stati esenti. Oggi, solo circa 8% delle tariffe doganali Usa rimane in forma unitaria e la deflazione dei prezzi sembra non dare segni di criticità.
Dov’è allora il problema, se Trump alza le tariffe doganali?
A marzo 2018, per motivi di sicurezza nazionale Trump ha annunciato dazi del 25% sull'acciaio importato negli Usa e del 10% sull'alluminio. Ha poi deciso di estendere fino al 1° giugno il termine per l'applicazione concedendo un'esenzione temporanea e arrivare a un'intesa. Nulla di fatto.
Anche la Cina ha incassato un’improvvisa stretta degli Usa con dazi del 25% su prodotti tecnologici cinesi per $50 miliardi. Penseremo a una risposta di conseguenza per azioni contro i principi di base dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, ha reagito Pechino.
Una prima risposta alla brutale imposizione di nuove tariffe potrebbe portare a perdite di posti di lavoro nelle industrie che usano l’acciaio. American Keg Co. ad esempio, l’unico produttore americano di fusti di birra in acciaio inossidabile – ad agosto 2018 ha iniziato a licenziare personale dopo l’annuncio dell’aumento dei prezzi dell'acciaio, ha ridotto da tre a due i turni di lavoro e ha tagliato la produzione a 175 fusti al giorno rispetto alla media di 275.
La Cina comunque esporta imperterrita in Usa i propri fusti in acciaio a un prezzo unitario di $20 inferiore rispetto al listino Keg.
L'acciaio e l'alluminio sono materie prime vitali e i loro maggiori costi non possono che portare un protezionismo a cascata.
Agli inizi degli anni '30, diversi Paesi reagirono prontamente alla legge Smoot-Hawley. Come? Manipolando i propri prezzi. Il Canada, allora e tuttora fortemente dipendente dal mercato Usa, aggredito dall'azione americana, per rappresaglia nel 1930 raddoppiò le tariffe doganali.
Mentre maturava il tumulto e la ritorsione di altri Paesi, nel 1931 negli stessi Usa scoppiò una guerra commerciale generale.
E l’UE?
Oggi, a seguito delle azioni di Trump, i partner commerciali europei possono rispondere imponendo dazi più elevati sulle esportazioni statunitensi e l’UE miracolosamente ha annunciato un pronto intervento con un piano per riequilibrare i rapporti commerciali d’oltre atlantico.
Cosciente che la questione dei diritti nel settore auto è prioritaria e che sta diventando particolarmente calda, Trump sceglie di dilazionare e rinvia l’esame a data da definire.
Seppure a piccoli passi, l’UE avanza con gli accordi siglati recentemente con Canada e Giappone per disciplinare i dazi.
E gli altri Paesi?
12 Paesi dell’area Pacifico e India lavorano allo sviluppo di una versione modificata del TPP (Trans-Pacific Partnership) un progetto di trattato di regolamentazione e di investimenti regionali alle cui negoziazioni, fin dal 2014, hanno preso parte: Usa, Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam del Sud. 6 Paesi hanno aderito, 5 sono interessati e gli Usa si sono ritirati.
Fermento e confusione non mancano, disseminati sul globo.
Così, se in Canada si pescano 90.000 t di aragoste all'anno, il quadruplo del 1980, sommate quelle del Maine (Stato Usa all’estremo Nord confinante con il Canada) si arriva a un totale di 150-170.000 t all'anno, ma l'industria Usa delle aragoste teme di perdere il mercato Europeo perché i vicini concorrenti canadesi sono esenti da dazi.
Negli Stati della costa occidentale analogamente, i produttori di bovini devono sudare per penetrare nel mercato giapponese, perché la carne bovina australiana ha la meglio, soggetta a dazi più bassi.
E la Cina?
Subito dopo la bordata di Trump a gennaio con nuove tariffe su pannelli solari e lavatrici industriali la Cina sta valutando l’ingiunzione di nuovi dazi per oltre $1 miliardo alle importazioni Usa di sorgo. Il sorgo (saggina) coltivato per la produzione di granella e foraggi in ambienti aridi e poco fertili, inadatti a una cultura di mais, è una sua valida alternativa. Non a caso la Cina, priva di una produzione nazionale di sorgo, fin dal 2010 ha investito in Etiopia, Sudan, Nigeria e Burkina Faso, grandi produttori di sorgo dopo Usa leader mondiale e l’India a ruota, e si è accaparrata una larga fetta di 83,2 milioni di ettari africani.
Con prestiti miliardari rimborsabili nei decenni e nei secoli a venire, ha comprato la sua presenza strategica assemblando una coltivazione cumulata superiore del 20% a quella Usa.
Oggi, con Trump intenzionato a rivalersi sulle politiche doganali a suo dire fermentate per 90 anni, la commedia del fallimento del suo recente incontro con il Presidente Xi e l’esplosione con azioni di forte rigetto di ogni trattativa in corso, adducendo una fantomatica impossibilità di negoziare a livello di parità, sembrano fare emergere un modello di dialettica privo di diplomazia e molto confuso, simile a quello del passato.
Gli esempi di divergenze, contrasti, contraddizioni, frodi, incoerenze e concorrenza sguaiata non mancano.
Per rimediare in parte ai problemi creati dalla legge Smoot-Hawley, il Congresso approvò la legge sugli accordi commerciali reciproci del 1934.
Nei successivi decenni, i Presidenti Usa hanno usato questa autorità legale per negoziare tagli tariffari con i loro partner e liberalizzare il commercio. Il Congresso è perfino arrivato a delegare un notevole potere al Presidente per alzare le tariffe, ma fino all’arrivo di Trump, tutto questo ha raramente portato a una nuova protezione dalle gabelle doganali.
I dazi di Trump su acciaio e alluminio mascherati da norme legittimate con un fantomatico appello alla sicurezza nazionale hanno i germi nella sezione 232 della legge del 1962 e l’imposizione di dazi doganali commerciali sulle importazioni dalla Cina sarebbero stati applicati de iure a seguito di un’inchiesta ai sensi della sezione 301 della legge del 1974, in virtù di una legislazione separata in grado di conferire tale autorità al Presidente. Funambolismo dei legali della Casa Bianca.
Il 15 maggio, alcuni repubblicani del Congresso si sono risvegliati e hanno proposto un disegno di legge per sopprimere definitivamente i diritti tariffari imposti da Trump.
Potrà il Congresso riprendere il controllo della politica commerciale trasferito per legge nel 1934 al Presidente?
Il Presidente cinese Xi attende al varco la prossima mossa di Donald. Il jolly che ha in tasca non è un segreto: sono le terre rare, la nuclear option. Senza terre rare non c’è High Tech.
Senza lantanio, neodimio e itterbio non ci sono batterie per auto elettriche, pannelli per display di Pc e smartphones o Ipod di Apple, pulitura di impurità nella lavorazione dell’acciaio, fosforo per Led, illuminazione incandescente, gemme sintetiche, veicoli ibridi, mulini a vento ma soprattutto elettronica per turbine a vento, sistemi di guida AI, X-ray imaging, laser ad alta potenza, guida missili, applicazioni militari, apparecchiature a microonde e batterie ad alimentazione nucleare.
Sono 17 gli elementi chimici delle terre rare, non presenti in tutti i continenti, di tipo leggero, medio e pesante, estratti in miniera, raffinati e lavorati, noti fin dalla metà del 1800.
La Cina ha il monopolio mondiale con 95% della produzione pari a 120.000 t annue, segue l’Australia con 20.000 t e gli Usa al terzo posto con 15.000 t. 75% della produzione cinese è esportata negli Usa, cioè su 10 t prodotte, 7 vanno in Usa.
In California esiste l’unico centro di produzione americano di terre rare, la miniera Mountain Pass di San Bernardino, ma le terre estratte vengono raffinate in Cina.
Fallita nel 2017 la miniera è stata rilevata da un Consorzio americano, con alle spalle la Holding cinese China Shenghe Resources …Chi l’avrebbe detto? Una settimana fa la Lynas Corp. società mineraria australiana ha firmato un accordo per produrre e separare minerali di terre rare pesanti a Hondo, in Texas, per colmare un vuoto, dicono i media.
Nel frattempo questo weekend il Presidente Xi si pavoneggia al Salone dell’auto a Shangai con le sue auto elettriche in bella mostra. Osserva e attende, pronto a accendere i motori.
[autori consultati: B.Bertez, fondatore della Tribune secondo giornale economico francese
C.P. Bown, ricercatore emerito presso il Peterson Institute for International Economics.
D.A. Irwin, ricercatore emerito presso il Peterson Institute, professore di economia al Dartmouth College, autore di Trade Policy Disaster: lessons from the 1930s) e Peddling Protectionism: Smoot-Hawley and The Great. Depression]