Tia Tiana (Wroclaw, Dolnoslask, Polonia – Contemporanea) – Globalization
Paul Krugman e la globalizzazione
di Bruno Lamborghini
Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, molto impegnato per il free market e la concorrenza tra i mercati e quindi fin dall’elezione di Trump acerrimo avversario della politica dei dazi e dei muri, recentemente ha scritto un articolo “What economists (including me) got wrong about globalisation”, in cui ammette di essersi sbagliato circa i miracolosi effetti della globalizzazione e dell’apertura a scambi senza regole. Questa sua ammissione non significa che Krugman sia passato nelle file di Trump, ma evidenzia la necessità che vengano effettuate analisi critiche rigorose su quanto è avvenuto nel corso degli ultimi trent’anni, con la progressiva apertura del commercio internazionale, a partire dalla caduta del muro di Berlino e dalla fine dell’Unione Sovietica e della guerra fredda. Quell’evento segna la fine dei due blocchi che di fatto dividevano il mondo in due aree distinte non comunicanti. Da quel momento, con l’apertura dei mercati e la riduzione delle barriere doganali, la crescita del commercio internazionale e degli investimenti esteri ha assunto proporzioni mai sperimentate, determinando un elevato sviluppo sia nei paesi industrializzati che soprattutto nei paesi ad economia ritardata, il cosiddetto Terzo Mondo. In tali paesi, il fenomeno più rilevante riguarda la crescita della Cina, divenuta ormai la seconda economia mondiale in forte competizione con gli Stati Uniti. Unico continente che ancora non ha beneficiato delle spinte della globalizzazione è l’Africa, a forte crescita demografica e tuttora in gran parte in condizioni critiche conseguenti alle condizioni determinate dai processi di colonizzazione e di appropriazione da parte dei coloni delle risorse naturali avvenuti nel secolo scorso (va peraltro considerato l’attuale intervento in forma di nuova colonizzazione e controllo delle risorse minerali da parte della politica cinese in Africa).
L’apertura dei mercati, in particolare quanto avvenuto in Europa con l’Unione Europea a 28 paesi (ora a 27 dopo la Brexit), ha determinato profonde riallocazioni produttive verso i paesi europei a minore costo del lavoro, con pesanti effetti occupazionali nelle maggiori economie. Analoghi fenomeni sono avvenuti negli Stati Uniti verso Messico e America Latina, con pesanti effetti occupazionali nei distretti manifatturieri USA,nella cosidetta “rust belt” . A questi processi si sono aggiunti per gli USA, ma anche in’Europa, gli effetti negativi sulla produzione locale derivanti dall’esportazione di prodotti a basso costo da parte dai paesi asiatici e per quanto riguarda la Cina, ormai anche di prodotti all’avanguardia tecnologica nel campo digitale, tenuto conto che la Cina è divenuta il maggiore laboratorio di tecnologie innovative, superando ormai gli USA, fino a ieri il centro mondiale di innovazione tecnologica ed ancora oggi (ma forse non per molto) la base delle grandissime imprese high tech da Google, ad Amazon, Microsoft e Facebook, ma sono in arrivo Alibaba, Tencent , Baidu, Huawei. La guerra dei dazi contro la Cina e della tecnologia 5G contro la cinese Huawei da parte del’amministrazione Trump è segno dell’attuale debolezza tecnologica e competitiva americana e del rischio di perdere il ruolo di potenza leader mondiale a favore della Cina. Si tratta di una vera guerra che si combatte ora auspicabilmente solo a livello commerciale, una guerra che in altre epoche sarebbe stata una guerra guerreggiata con le cannoniere.
Questo processo di trasferimento dello sviluppo da Ovest a Est, cui si deve aggiungere anche il crescente invecchiamento della popolazione dei paesi “ricchi” , determina profondi squilibri nei paesi occidentali con l’aumento della polarizzazione e diseguaglianza di redditi e ricchezze (forte crescita dei ricchi da un lato e di poveri dall’altro e sparizione delle classi medie) che determina freno allo sviluppo, limitazione del welfare sociale, inefficacia delle politiche pubbliche ed aumento dell’indebitamento pubblico.
Di qui, la crescita della povertà, la perdita del lavoro in forme estese (cui si aggiungono in parte gli effetti della robotizzazione), una crescita esponenziale di insoddisfazione sociale da cui nascono movimenti di piazza, politiche populistiche che possono promettere, ma non mantenere data la ridotta disponibilità di risorse, il ritorno antiglobalizzazione e anti Europa a ristretti ambiti nazionalistici (autarchici?) o verso infantili approcci di “decrescita felice”.
Quindi, anche Krugman prende atto di questi eventi e diviene critico della globalizzazione, ma il problema non è la critica in sé, il problema è cosa si deve fare per non cadere nella “stagnazione secolare”, preannunciata da catastrofici o realistici maestri.
Credo che si debba considerare che i processi di globalizzazione non si possono fermare. Forme di globalizzazione si sono manifestate tante volte nella storia, basti pensare all’impero romano, alla Firenze dei Medici o alla scoperta dell’America, portando crisi di cambiamento, ma anche periodi di grande sviluppo. Però, questi processi devono essere regolati e governati, non chiudendo le frontiere o fermando i flussi migratori (che tra l’altro in Europa potrebbero compensare il calo demografico e consentire, se gestiti, di riprendere la strada della crescita, altrimenti non realizzabile).
Si tratta quindi di ritrovare regole condivise ed una governabilità dello sviluppo e della redistribuzione delle risorse e delle ricchezze aperta a livello del pianeta, non chiudendosi a modeste ed inutili scelte nazionali o provinciali, destinate inevitabilmente a determinare ulteriore impoverimento e crescenti disagi sociali.