Aggiornato al 21/11/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Laurence Stephen Lowry (Lancashire, UK, 1887 - Derbyshire, 1976) – Going to work

 

La settimana di quattro giorni

di Bruno Lamborghini

 

In tutta Europa si sta introducendo una rimodulazione organizzativa e contrattuale della settimana lavorativa dai tradizionali cinque giorni a quattro. In Italia la Banca Intesa ed il gruppo Lavazza progettano quattro giorni di lavoro distribuendo le 38 ore (ridotte) settimanali su 4 giornate. Le ragioni sono in parte legate alla possibilità con la chiusura degli uffici di risparmiare il 20% dei costi energetici per riscaldamento/condizionamento, ma anche alla ridefinizione delle modalità tra lavoro in remoto e lavoro in presenza, divenute da emergenziali a strutturali, pur ancora con molte ambiguità ed incertezze. In realtà, questi cambiamenti anticipano una radicale trasformazione del lavoro verso forme determinate da un lato dalla sempre crescente integrazione delle tecnologie digitali nelle attività lavorative e dall’altro da cambiamenti sociali e organizzativi da tempo in atto.  

Come scrive Marco Bentivogli su Repubblica: “E’ in crisi l’assetto  spazio temporale del  lavoro….Il lavoro e la sua contrattualistica sono sempre meno lo scambio tra prestazioni e salario…La contrattualistica del lavoro dovrà essere sempre meno  “scambio”, ma condivisione di progetti  e valorizzazione dei risultati e benessere della persona. Per questo gli ingredienti del lavoro sono sempre più autonomia, libertà, responsabilità e fiducia.”   Pur con difficoltà, il lavoro a distanza, l’home working, ma anche quello in presenza evolve da un lavoro misurato sui tempi ad un smart working misurato sui risultati, modificando radicalmente le condizioni di lavoro.   

In Italia rispetto ad altri paesi europei questo processo incontra particolari difficoltà e ostacoli (da parte sindacale tanti ancora ripetono “le 8 ore non si toccano”), ma nel primo semestre del 2022 oltre un milione di dipendenti si sono volontariamente dimessi seguendo i 5 o 6 milioni di dimissioni che stanno avvenendo in USA sotto l’insegna della “Great Resignation”. Le motivazioni sono in parte dovute alla ricerca di miglioramenti salariali, ma anche alla ricerca di nuovi contenuti e nuove modalità di lavoro, ad insoddisfazione nei confronti dell’azienda (secondo Galllup, l’80% dei dipendenti USA esprime netta insoddisfazione sul proprio lavoro). Si sta manifestando anche un secondo fenomeno con il nome di Quiet Quitting cioè una ridotta partecipazione al proprio lavoro, per cui, alcuni. pur non lasciando un lavoro che non soddisfa, cercano di non impegnarsi e dare il minimo contributo all’azienda.

Si tratta di valutazioni individuali e sociali che portano a cercare di ridisegnare qualsiasi lavoro in forma di attività professionale in grado di rispondere ad esigenze personali anche in relazione ad un diverso rapporto tra lavoro e vita e di benessere complessivo. Ciò tende ad avvenire spesso in modo confuso, non programmato verso la scoperta di nuove modalità di attività lavorativa. La crescita di lavoro precario a termine, oltre ai vuoti di lavoro durante la pandemia, ha contribuito ad alimentare queste nuove esigenze. In questa direzione ha contribuito durante il lockdown alla riscoperta della vita famigliare ed al contatto con i figli, come pure ad un crescente impegno sociale, attenzione all’ambiente in cui si vive, nel quartiere, nel territorio. Ed anche la riscoperta della natura, le possibilità del volontariato, l’interesse per idee innovative ed attività hobbistiche. Emerge positivamente anche una ricerca di autonomia, lo sviluppare startup e fare l’imprenditore. Tutto questo spesso tende anche a far emergere un ridotto interesse verso un lavoro istituzionalizzato, caratterizzato da scarsi contenuti e inadeguata remunerazione. Ha avuto certamente in questo un ruolo significativo la disponibilità di sussidi pubblici al reddito nei periodi di crisi, in specie sui ventenni/trentenni che hanno difficoltà di inserimento nel lavoro per carente formazione di competenze adeguate.

La ricerca di dare senso della propria attività-vita porta anche ad una più attenta valutazione sul proprio ruolo di lavoro nell’azienda, non solo e non tanto in termini retributivi, ma piuttosto nella condivisione più diretta agli obiettivi e contenuti aziendali, all’identità ed al purpose aziendale, ai contenuti, alle modalità di lavoro ed anche alla sede fisica di lavoro ed ai tempi di trasferimento. Questa esigenza divenuta via via più rilevante porta a scelte considerate in passato anomale come l’abbandono dl un lavoro senza averne pronto già un altro. La stessa retribuzione viene valutata assieme ad altri incentivi come un soddisfacente welfare aziendale con connessioni dirette alla famiglia (nidi aziendali) ed alla propria vita.

Per le imprese il rapporto di lavoro diviene più complesso in quanto si devono affrontare nuove condizioni e nuove risposte nella ricerca e per il mantenimento di collaboratori, rispondendo a esigenze individuali e comportamentali al di là delle specifiche competenze. Ciò richiede un ridisegno organizzativo che tenda ad adeguarsi e rispondere alle esigenze di ciascuno. La realtà dimostra ogni giorno di più che si è concluso il lungo ciclo taylorista-fordista della divisione del lavoro, che ha contraddistinto la crescita industriale e che ha collocato il fattore lavoro a fianco del capitale fisico come risorsa produttiva, il lavoro come capitale umano, fatto da numeri, piuttosto che singole persone con caratteri, esigenze e competenze specifici.

Diviene sempre più necessario disporre e gestire singole persone con i loro caratteri assieme alle competenze specifiche in grado di collaborare assieme e condividere obiettivi comuni, con una piena partecipazione di tutti nessuno escluso. In più, vi sono sempre meno spazi per lavori generici, ripetitivi, non coinvolgenti pienamente e quindi a bassa o nulla qualità e produttività. Vi sono algoritmi in grado di sostituire le persone per queste attività.  Già settanta anni fa, Adriano Olivetti rifiutava i lavori dequalificati perché non in grado di dare interesse e gioia nel lavoro di ciascuno, una gioia data dalla partecipazione ad  “un nobile scopo”,  collaborando alla creazione di nuovo valore reale per l’azienda, ma anche per la società. Sulla stessa linea, Primo Levi nel libro La chiave a stella scriveva: “L’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta della felicità”. Come rileva Marco Bentivogli: “e’ sempre più evidente nel mondo l’abbassamento della soglia di tolleranza rispetto ad una vita che non sembra felice a partire dalla propria dimensione lavorativa. …  il lavoro non è meno importante, anzi ne è cambiato il senso, cresce la dimensione realizzativa, ma con un limite che non deve mortificare il resto della vita”. Si può cercare di sintetizzare questa esigenza con il passaggio “da una vita per il lavoro ad un lavoro per la vita” .

Il lavoro tende a divenire attività professionale di ciascuno con una caratterizzazione individuale, costituito da competenze dinamiche in apprendimento ed arricchimento permanente tutta la vita, esercitato  da  ciascuno e con partecipazione alla formazione continua da parte delle istituzioni e imprese che investono nelle competenze individuali come parte fondamentale degli asset aziendali. Formazione ed apprendimento permanente divengono i riferimenti di base per la costruzione da parte di ciascuno di competenze dinamiche interdisciplinari in un rapporto naturale apprendimento-vita-lavoro senza fratture e tale da consentire serenità e valore a ciascuno ed alla comunità aziendale. Di fatto, nell’era preindustriale ed anche successivamente, nel lavoro agricolo vi è un rapporto naturale tra la propria vita ed il proprio lavoro senza separazioni tra apprendimento, lavoro e vita in modo continuativo. Il ritorno a questa integrazione formazione-lavoro-vita appare naturale. Il ciclo industriale tra 800 e 900 ha nettamente separato la vita in tre fasi separate: la fase formativa per i primi 15/20 anni di vita, la fase lavorativa per i secondi 20/60 anni e la fase di riposo/pensione per gli ultimi anni, creando spaccature tra le tre fasi della vita con effetti socialmente e individualmente  pesanti e con  costi e sprechi collettivi.

Appare necessaria una ricomposizione in cui apprendimento permanente (non più solo scuola una tantum) si integra con l’attività professionale di ciascuno a qualsiasi livello con possibilità di scegliere in qualunque momento tempi di lavoro e tempi di riposo o altre attività personali e se si dispone di forze e si ama il proprio lavoro senza porre scadenze alla propria attività. Si tratta di una rivoluzione sociale che le tecnologie digitali possono ulteriormente consentire e rendere concreta, non sostituendosi al lavoro umano, ma anzi moltiplicando le opportunità di un rapporto tra lavoro e vita più soddisfacente. Nel prossimo futuro ed in parte già ora, il problema vero non è la cosiddetta disoccupazione tecnologica, ma al contrario la carenza di competenze professionali, lo skill shortage, la disponibilità di persone che amano la propria attività professionale, la sanno  far crescere continuamente e sanno inquadrarla in un soddisfacente rapporto con la propria vita e con l’ambiente in cu operano.        

 

Inserito il:04/01/2023 18:54:28
Ultimo aggiornamento:04/01/2023 19:00:32
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