Il crollo dei prezzi del petrolio: un eccesso di offerta dovuto a diversi fattori
di Edoardo Del Vecchio – Action Institute
Dal picco di 2 euro al litro di qualche anno fa, i prezzi della benzina si sono normalizzati tornando a oscillare tra 1.30 e 1.40 euro al litro. Queste fluttuazioni, seppure più visibili agli occhi dei consumatori, sono soltanto un epifenomeno di importanti dinamiche che si stanno sviluppando all’interno del mercato energetico internazionale. Il prezzo del greggio, infatti, dopo aver toccato i massimi storici poco oltre i $140 al barile, è crollato fino a $27 al barile per poi risalire intorno a quota $49 in questi giorni. Date queste fluttuazioni così esasperate, Action Institute cerca di far luce sulla questione, analizzando come l’eccesso di offerta di petrolio abbia influenzato l’andamento dei mercati.
Tre fattori stanno cambiando il panorama dell’offerta e della domanda di greggio a livello mondiale: la produzione del gas e del petrolio non convenzionali, la normalizzazione dei rapporti con l’Iran (che erode la capacità di influenza dell’Arabia Saudita all’interno dell’OPEC) e la diminuzione della domanda in paesi sviluppati importatori come l’Europa.
Tra tutte, quella del petrolio e del gas non convenzionali è una vera e propria rivoluzione. Ma cosa sono petrolio e gas non convenzionali? Secondo l’International Energy Agency le risorse energetiche non convenzionali sono risorse energetiche che non sono estraibili dai tradizionali pozzi di petrolio, ma richiedono una tecnica più avanzata, ad alto rischio ambientale, nota come fracking. Grazie a questa tecnologia, i pozzi di petrolio iniziano a generare cash flow a 2-3 mesi dall’inizio dell’investimento (immediato rispetto ai tempi di 5/10 anni dei combustibili fossili convenzionali), ma presentano una drastica diminuzione della produzione dopo il primo anno (del 60% o più). Sostanzialmente, questo peculiare modello di produzione fa sì che il ritorno sugli investimenti sia concentrato nell’immediato, con trivellazioni a brevissimo termine (un solo anno appunto), che garantiscono maggiore reattività alle fluttuazioni del mercato.
Come suggerisce il professor Nicolazzi dell’ISPI nella sua lezione all’università di Padova di giovedì 15 gennaio 2015, questa rivoluzione è iniziata nel 2005 con il Energy Policy Act firmato dal presidente Bush, che ha introdotto norme più flessibili a livello ambientale e permesso l’ottimizzazione del fracking (sostenuta anche dall’aumento del prezzo del petrolio tra il 2001 e il 2008). Come risultato, nel 2014, la produzione di petrolio statunitense ha fatto sì che la produzione mondiale di petrolio sorpassasse l’aumento della domanda (2,2 milioni di barili in più prodotti al giorno contro 1 milione in più domandato secondo i dati dell’OPEC per il 2014), il che ha causato il crollo del prezzo del greggio.
Per un paese importatore come l’Italia, la cui domanda di petrolio diminuisce (-3.8%), un abbassamento del prezzo del petrolio è una benedizione per le tasche dei consumatori e le casse dello stato.
Tuttavia, per un colosso nazionale come l’Eni, per i paesi alleati che si affidano in gran parte agli introiti dell’industria petrolifera e per l’industria dei combustibili fossili non convenzionali stessa (che non è ancora riuscita a raggiungere la sostenibilità economica) le sfide da affrontare sono sempre più dure. Di fatto, lo stesso trend che vive il prezzo del barile è riscontrabile nel prezzo delle azioni delle più grandi aziende petrolifere: negli ultimi cinque anni il prezzo delle azioni di Exxon, Shell, Petrobras, Roseneft, così come quelle dell’Eni, è crollato verso la fine del 2014 per iniziare a risalire dall’inizio del 2016. Secondo Bloomberg, per riuscire a sopravvivere ad un prezzo del petrolio così fortemente ridimensionato, Exxon Mobil Corp., Royal Dutch Shell Plc, Chevron Corp., Total SA, BP Plc and Eni SpA hanno insieme rilasciato 37 miliardi di dollari in bond quest’anno, circa il doppio di quanto avevano rilasciato nel periodo precedente alla caduta del prezzo del greggio. Per affrontare un tale scenario di crisi, a livello politico, ci si aspetterebbe che i principali attori del mercato taglino la produzione per normalizzare il crollo dei prezzi, ma il fallimento dei colloqui di Doha organizzati dall’OPEC offre ben poca speranza in questa direzione.
Difatti l’Iran, appena riabilitato nel mercato globale del petrolio, ha rifiutato categoricamente la proposta dell’Arabia Saudita di tagliare la produzione di petrolio globale per ristabilire l’equilibrio tra domanda e offerta. D’altra parte, a livello economico, l’amministratore delegato Eni Descalzi, in un’intervista rilasciata a Bloomberg, suggerisce che il recente rialzo dei prezzi sia dovuto anche e soprattutto ad una parziale cessazione delle attività di estrazione di petrolio da fonti non-convenzionali nel Nord America e dall’instabilità politica in Nigeria. Non solo, a tutto questo si aggiunge un progressivo deprezzamento del dollaro partito da febbraio ed una domanda di petrolio in crescita da parte dei paesi in via di sviluppo che ha consentito una crescita del 70% del prezzo del greggio dai minimi di gennaio.
In conclusione, fluttuazioni così voluminose del prezzo del greggio rendono le rinnovabili un intelligente investimento a lungo termine per grandi colossi nazionali come Enel ed Eni. Investire in questo settore, infatti, dovrebbe garantire una maggiore resilienza dell’azienda che diversificherebbe così le fonti dei propri introiti. L’AD Enel Francesco Starace conferma in un’intervista rilasciata a La Repubblica che il basso prezzo del petrolio non ha un impatto diretto sugli investimenti nelle rinnovabili in quanto quest’ultime sono destinate ad un mercato diverso. Inoltre, alla presentazione del volume di Aspenia “Il fronte Mediterraneo: la sfida dell’energia”, lo stesso Starace ha dichiarato che l’azienda italiana sta muovendo verso un futuro in cui le scosse generate dall’instabilità dei prezzi del petrolio saranno in grado di causare terremoti sempre minori. Secondo l’AD, l’Enel risente oggi, molto meno che ieri, della fluttuazione dei prezzi del petrolio. Nella stessa direzione si sta muovendo anche Eni, che ha inaugurato il Progetto Italia, con cui intende installare 220 MW di energia pulita in più di 4,000 ettari di diversi siti industriali caduti in disuso e locati in tutta Italia. Va tuttavia detto che, come sostiene Nicolazzi, le energie rinnovabili non potranno sostituire i carburanti fossili tout-court “fintanto che non venga meno ai fini di utilizzo la loro intermittenza, e che dunque si sia in grado di sviluppare sistemi di accumulo di energia efficienti ed economici”.
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