Immagine realizzata con strumenti di Intelligenza Artificiale
Utopia digitale e economia del debito
di Vincenzo Rampolla
Lo spazzolino da denti interattivo lanciato da Oral-B incanta. Interagisce con il cellulare, sullo schermo un’applicazione, secondo per secondo, esegue le fasi di pulizia dei denti e indica gli angoli della cavità orale da curare meglio; non contenta, trasforma il gesto di strofinare i denti in dati che si possono inviare ai professionisti del settore. Che ne sarà di questi dati? Si aggiungeranno alla valanga di informazioni già disponibili nei silos di Facebook e Google? I segnali riferiti a un banale oggetto connesso potrebbero mutarsi in oro per i Titani della Silicon Valley, dopo averli organizzati e rivenduti a promotori o altre società. È così che guadagnano milioni di dollari e a noi non restano che le briciole di qualche servizio scontato.
Idea! Perché non contestare tale monopolio e rimpiazzarlo con piccoli impresari, con un formicaio di giovani dinamici e ingegnosi? Ognuno potrebbe costituire il proprio portafoglio di dati e trarre vantaggio dalla sua attività commerciale, vendendoli ad esempio a un produttore di dentifrici o a un laboratorio farmaceutico. È un nuovo modello e molti ricercatori, informatici e finanziatori lo decantano, divenuto ormai tendenza. Se si considerano i dati come proprietà privata, basta una giusta formula giuridica o assicurativa per proteggerli dal furto e ai loro occhi brilla anche un attraente futuro: l’internet degli oggetti. È chiaro! Se Google mi riempie il bagno di sensori intelligenti, sarà lui a guadagnare quando canticchio sotto la doccia, ammesso che esista qualcuno pronto a pagare per scoprire perché io lo faccia, ma a me non viene un becco di un quattrino. Non è forse Google che aggrega dati da un’enorme quantità di fonti e trae vantaggio dalla sua presenza ovunque, anche nei recessi della mia vita? Le piccole imprese l’hanno capito subito: è così che il gigante si protegge da qualunque concorrenza.
Perché allora non partire al contrattacco? I dati mi appartengono e esigo il beneficio di una parte dei ricavi. Questa strategia si ricollega alla tradizione europea che eleva la concorrenza a rango di imperativo morale e considera pericoloso ogni monopolio. Dal canto suo Google è destinata a piegarsi a tradizione e editti di Chicago e dell’MIT, nettamente agli antipodi: il monopolio non è nocivo, gioca anzi un ruolo positivo e l’informazione si integra a pennello nel pensiero liberista.
E chi vieta di usare l’informazione e ad esempio la sottrae in altro modo alla sfera economica, considerandola come un bene comune? A questo punto è il caso di chiedersi perché, senza batter ciglio, dogmaticamente, supinamente, si accetta di mercanteggiare l’informazione. La risposta è sotto gli occhi di tutti e sta nel ruolo assegnato alla tecnologia: Ente Supremo, creatore di lavoro, stimolatore dell’economia, taumaturgo dei deficit di bilancio. Provocati da chi? Dall’evasione fiscale di nababbi e multinazionali. L’informazione è vita. L’informazione è oro. Negarlo sarebbe suicidario per Google e masochista per il politico.
Facciamo un passo indietro.
All’inizio degli anni ’70, ai primi vagiti dello sfaldamento del modello sociale del dopoguerra, per cogliere al volo il momento, per approfittarne, politici, industriali, filantropi e miliardari del mondo hanno concepito e adottato 3 strategie per trar profitto e tenersi ben stretto il potere: l’inflazione, l’indebitamento degli Stati e un silente invito, meglio spinta, del cittadino all’indebitamento.
Privati e Governi hanno in pratica rifilato al popolo i prestiti immobiliari e i crediti al consumo.
All’inizio del III millennio il tarlo ha fatto passi da gigante, ma dal giro è rimasta ancora fuori la tecnologia informatica, che già covava e serpeggiava nella fascia della media e alta borghesia, humus della società e bersaglio dei primi sintomi di depauperamento. E proprio la tecnologia informatica, con subdola seduzione, ha creato al tempo stesso ricchezza e posti di lavoro, a una condizione però: prima o poi, per andare avanti, tutti saranno costretti ad arrangiarsi, mutandosi in lavoratori autonomi, indipendenti: dovranno inventare e imparare a sfornare delle soluzioni, per se stessi, per vivere o sopravvivere. Per primi gli inglesi hanno fatto da cavia su scala nazionale, tentando di vendere i dati dei malati alle Compagnie di Assicurazione, oppure i dati personali degli studenti a operatori della telefonia mobile e a mercanti di integratori. Un’ondata di protesta popolare ha bandito l’iniziativa e si arriva ai nostri giorni. Un rapporto finanziato da Vodafone afferma che in UK si potrebbero ricavare € 21 Mld aiutando i consumatori a gestire, ovvero a vendere, i loro dati personali, con lo Stato che definirebbe il quadro legale per gestire gli intermediari gestori delle transazioni tra consumatori e fornitori di servizi.
Et voilà, les jeux sont faits.
Mentre dall’alto i Governi degli Stati si coalizzano e temporeggiano, le start-up della Valley sviluppano soluzioni per muovere i primi passi dal basso e confidano ciecamente in servizi come Uber (privati che usano la propria auto come taxi) e Airbnb (privati che adibiscono a alberghi i loro appartamenti) e poi arrivano Glovo (riders), Deliveroo (auto), Enjoy, Car2Go, Mobike, Nestio (leasing immobiliare), 23andMe (genetica) e mille altri … c’è chi sfonda e c’è chi molla.
È l’utopia digitale. Tutti mutano beni analogici in fonti di profitto moderne e digitali, obiettivo: garantire un reddito ai proprietari. Dice il Presidente di Airbnb: Abbiamo imparato a creare i nostri contenuti, ma ormai possiamo tutti creare il nostro lavoro e, perché no, un nostro settore di attività.
I sognatori della Valley presentano in coro Uber e Airbnb come i pilastri del nuovo modello, della nuova economia della condivisione (shared economy) eletti a trattare direttamente tra di loro, eliminando gli intermediari. L’idea ricalca disegno e visione del Bitcoin, moneta digitale virtuale progettata per sopprimere gli intermediari bancari negli scambi finanziari. E poiché i settori alberghiero e taxi sono notoriamente contestati, la reazione del pubblico sfocia nella piaga di venire bollati precursori anarchici e audaci pirati, nuovi intermediari digitali privi di immaginazione. Questa immagine scarsamente obiettiva maschera un fatto essenziale: i coraggiosi precursori dell’economia della condivisione arrancano in un universo arcaico, in cui la protezione sociale del lavoratore è simbolica, assumendosi oggi i rischi che ieri erano dei datori di lavoro e mandando a zero i margini di contrattazione collettiva. Diciamolo chiaro.
I paladini di questo nuovo modello osservano che i meccanismi autoregolatori sono meglio delle leggi … meglio farne a meno! È il mercato, sono il cliente o l’ospite che decretano la qualità del servizio e le stesse valvole regolatrici sono destinate a scomparire. Chiaro e tondo.
Basta inondare la società di valutazioni qualitative, sfornate dagli operatori del mercato, con pareri e commenti degli utenti. È così che i clienti e la digitalizzazione del quotidiano, votati all’avidità generata dalla monetizzazione, fanno presagire la mutazione del tutto in bene produttivo. È la genomica personalizzata, secondo una pioniera della Valley, per la quale la sua azienda è paragonabile a un distributore automatico che apre l’accesso ai tesori celati nei recessi del corredo genetico dell’organismo. È l’utopia digitale.
Prima o poi, chi non condivide il potere salvifico sprigionato dalla shared economy, la nuova uscita di sicurezza, sarà additato come sabotatore dell’economia e non condividere sarà riprovevole quanto non lavorare, risparmiare, pagare i debiti. Al giudizio morale, ultima ratio, spetterà il ruolo di tingere di legittimità questa forma di depauperamento.
Che possono fare le categorie sociali, triturate dal fardello dell’austerità? In realtà, questa voglia di impresa è vibrante come quella di tutti i disperati del pianeta che per pagarsi l’affitto arriverebbero a vendere il corpo o i propri organi. In fondo, l’economia della condivisione non rimpiazzerà quella del debito, anzi entrambe sono destinate a convivere in simbiosi. L’immane quantità di dati e di informazioni plasmata dalla tecnologia sempre più efficace, consentirà alle banche di vendere crediti anche a quell’enorme fascia di clienti incalliti insolventi. Ecco allora spuntare come funghi start-up che si destreggiano ad aiutare banche di ogni risma e grado per selezionare le richieste di crediti on-line in base a incalcolabili e inverosimili criteri: il modo di pigiare i tasti, quello di accendere il tablet, lo stile di parlare al telefono. Una neonata società di prestiti subordina l’emissione di carte di credito al comportamento dei candidati sui social network: tutti i loro click sono passati al vaglio, perché tutti i dati personali sono pertinenti in termini di credito. In pratica, la nostra vita, maniacalmente osservata dalla foresta di sensori che ci circonda, può iniziare a battere più che il ritmo, le melodie del debito. È l’economia del debito.
Siamo al dunque. Perché non accontentare gli eserciti di insolventi, dissestati, morosi e quelli in rovina che chiedono di indebitarsi? Può questo bisogno di credito dipendere da disoccupazione, da riduzione delle spese sociali, da aumento dei prezzi del carrello, da erosione dei salari reali?
Sì. Vero, verissimo … ma chissenefrega, diranno i crudeli utopisti della Valley … non stiamo forse salvando il mondo? Il nostro unico compito e la nostra unica fonte di reddito è creare strumenti per risolvere i problemi degli altri, quelli di ogni giorno, non di farne un’analisi politica o economica, per sventrarli e ridisegnarli, per trovare le cause e rimuoverle. Non è affar nostro.
E se si pensa di criticare le banche, si passa per sovversivi e nemici del capitalismo; se si osa criticare la Valley, si è tacciati di tecnofobia e nostalgia della cornetta telefonica; se si vuole contraddire le tecnologie informatiche, si è nemici del progresso, sognatori del cemento senz’anima delle dighe idroelettriche.
Da ultimo, resta da decidere: che farsene della cultura, ultima dea, ultima illusione, ultima fede? Profondo il suo declino, pronti a criticare e a sparare a zero su Twitter e sui libri elettronici, per il ruolo nefasto da loro prodotto, riducendo al minimo gli scarni contributi di analisi da filosofi e sociologhi. Nel secolo scorso c’erano i problemi posti dai nuovi media in chiave socioeconomica, oggi ci si contenta di modalità di ricerche destinate a separare la tecnologia dall’economia, ossessionati dalle neuroscienze e dalla bio-fisiologia, imprigionati dal dilagare del negazionismo.
E nei corridoi e nei vicoli dell’universo europeo, prende a soffiare l’alito inquietante del kaos sociale, oggi brezza, domani soffio ammorbante: burocratismo delle istituzioni comunitarie, narcosi della coscienza dei popoli europei, imposizione del politicamente corretto, rifiuto dell’accoglienza dell’altro, negazione dell’identità in un orizzonte storico sempre più nebuloso e offuscato. Incerto.
E alla fine, si va a discutere di norme sugli effetti del blu dello schermo iPad per i processi cognitivi del cervello, invece di comprendere e studiare in profondità i dati raccolti dall’iPad stesso, capaci di influenzare le decisioni dei Governi e delle Banche centrali per alzare o calare i tassi di sconto.