Aggiornato al 21/11/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire
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Vasily Kandinsky - Dipinto blu - Solomon R. Guggenheim Museum, New York

I valori olivettiani per le imprese.

Qui seguito sono riportati alcuni temi di un mio intervento all’”Adriano Olivetti Day” che si è tenuto a Brescia il 14 novembre 1913.
In queste settimane, la trasmissione su Rai 1 della fiction dedicata ad Adriano Olivetti ha ripreso la storia di questo grande imprenditore, una storia troppo spesso e troppo volutamente dimenticata, la storia di un imprenditore sempre fuori dal coro.
Al di là dell’evento mediatico, per molti versi discutibile, credo sia importante mettere in evidenza la grande esigenza in questo momento nel nostro paese di riscoprire e rileggere l’esperienza e l’insegnamento di Adriano Olivetti, di Camillo Olivetti e di tutta la grande storia olivettiana.

Una esigenza che oggi sentiamo espressa da tanti, soprattutto da chi vuole cercare di essere vero imprenditore, un imprenditore innovatore che vuole creare valore reale, lavoro vero con le persone al centro, con il bene comune al centro per far crescere assieme una comunità.
Questa riscoperta di valori però trova ostacoli nei piccoli interessi, nella conservazione che rifiuta il cambiamento, in una cultura dominata dalle furberie e dalla carenza di valori etici, dalla deresponsabilizzazione e dal rinvio, dal mancato rispetto degli impegni verso le persone, le cose, l’ambiente, il territorio, ma soprattutto crescenti barriere per chi vuol fare impresa, vera impresa.

Troppe volte si è parlato di Adriano Olivetti come di un intellettuale utopista. In realtà, la figura di Adriano Olivetti è quella di un vero imprenditore, un imprenditore davvero integrale, come lo definisce bene Federico Butera.
Credo sia innanzitutto importante sottolineare nel modello olivettiano il rapporto stretto tra Innovazione tecnologico-organizzativa e innovazione culturale.
Un rapporto che si pone al centro dello sviluppo, come condivisione di intelligenza innovativa da parte di tutte le persone dell’azienda, nessuna esclusa, e diffusa in tutti i momenti dell’attività aziendale in modo continuativo.
Che significato aveva la cultura diffusa nel processo innovativo?

Adriano Olivetti ha insistito molto sulla innovazione come ricerca della bellezza delle forme, il grande impegno nel design dei prodotti, ma anche delle fabbriche, degli uffici, dei negozi, insomma dei luoghi di lavoro, perché il lavoro di chi operava in Olivetti come anche l’utilizzo dei prodotti Olivetti fosse ricco di stimoli positivi, possibilmente di partecipazione e di gioia nel lavoro.
Non vi è dubbio che operare bene con gioia stimola e produce innovazione.

Questo è il contenuto vero di una cultura diffusa, di uno stile condiviso da tutti ed espresso in tutte le forme e attività.
L’innovazione tecnologica, la creatività produttiva si colloca strettamente integrata con la ricerca di innovazione culturale: la fabbrica della cultura, la biblioteca di fabbrica, veniva prima della fabbrica dei prodotti perché era chiaro che la capacità di innovazione, la crescita della produttività, il successo potevano venire solo attraverso persone in apprendimento intellettuale continuo, attraverso una comunità di persone preparate e motivate verso un comune obbiettivo, una comunità di pari dal punto di vista culturale e sociale, non più una divisione tra colti ed incolti, ma una comunità di pari cultura.

La persona che gestisce il proprio processo culturale, la persona che si pone l’obiettivo di una conoscenza sempre in crescita è al centro di tutti i processi e ne determina il successo, diviene il capo di sè stesso e questo genera partecipazione e felicità nel proprio impegno.
La partecipazione ai corsi durante l’intervallo di mensa genera partecipazione, condivisione agli obiettivi dell’azienda e della comunità.
La mensa Gardella al Convento era un luogo non solo per cibarsi, ma per accrescere la propria cultura , leggendo libri, ascoltando Bach, incontrando Pasolini.

Nell’ultima intervista rilasciata alla RAI nel gennaio 1960 pochi giorni prima della sua improvvisa scomparsa, Adriano Olivetti, prima di andare in fabbrica, porta il giornalista nella grande biblioteca aziendale di Via Jervis di fronte all’entrata della fabbrica perché riteneva prioritario mostrare la fabbrica della cultura quale punto di partenza per la fabbrica dei prodotti.
Ma occorre portare cultura oltre l’azienda nelle comunità locali in cui i dipendenti vivono, nelle case, nelle famiglie attraverso biblioteche locali, comunità d’incontro culturale e sociale.
I territori divengono centri di cultura come la fabbrica.

La cultura si diffonde attraverso i prodotti che l’azienda produce, i negozi in cui sono commercializzati, lo stile unico Olivetti che caratterizza tutta l’attività dalla carta da lettere alle macchine, alla grafica sino all’assistenza tecnica.
In questa prospettiva, anche come produrre poteva essere diverso, la catena di montaggio poteva modificarsi se si lasciava spazio alle persone per pensare a quanto facevano, ma anche alla loro crescita culturale.

Adriano Olivetti sperimentò la catena di montaggio entrando in gioventù per la prima volta in fabbrica ed apprese il disagio di un lavoro frammentato e privo di senso per le persone che vi operavano.
Per questo si dedicò in tutta la sua vita alla ricerca di forme nuove, di nuovi valori del lavoro, con risultati straordinari in termini di innovazione, partecipazione, produttività dei collaboratori.
Gli studi del prof. Gallino sulla produttività nella Olivetti degli anni ‘50 hanno evidenziato quanto questa ricerca continua del miglioramento delle condizioni di lavoro e della qualità dell’ambiente stesso delle fabbriche abbia determinato in termini di accelerazione dei tempi di uscita dei nuovi prodotti e della loro qualità, ma in particolare della crescita a due cifre della produttività del lavoro.
Questa attenzione al miglioramento delle condizioni di lavoro nelle fabbriche Olivetti è proseguita anche dopo la scomparsa di Adriano attraverso la definizione di nuove forme di cottimo e poi negli anni ‘70 con l’introduzione al posto della catena di montaggio delle cosiddette isole di produzione dove un gruppo di operai gestiva l’intero ciclo di assemblaggio del prodotto sino al test di qualità.

Innovazione tecnologica ed innovazione organizzativa si possono realizzare efficacemente solo se in parallelo si realizza una innovazione culturale nelle persone, promuovendo in chi lavora, nei collaboratori, non solo una crescita di competenze tecniche, ma anche una crescita del livello culturale di tutti senza eccezioni, dal progettista al manovale.
L’innovazione tecnologica è fatta da persone; quindi, non sono le macchine al centro, ma le persone, ancora di più per quanto riguarda l’innovazione organizzativa.
Non a caso, si è privilegiata l’integrazione di modelli culturali innovativi e creativi in tutte le attività aziendali, dall’ambiente di lavoro alle fabbriche e da queste ai negozi e ai canali di vendita.
Una visione, questa, che oggi definiremmo olistica ed è certamente poco praticata, osservando quanto avviene in gran parte del lavoro di fabbrica e d’ufficio, ma è una visione anticipatrice di quel futuro ancora confuso che oggi chiamiamo società della conoscenza.

Adriano Olivetti chiedeva e operava per un impegno di crescita collettiva, non soltanto attraverso corsi di formazione, quanto soprattutto attraverso l’apprendimento continuo nell’attività lavorativa, lo scambio, la condivisione di esperienze, attraverso una contaminazione continua di saperi diversi, l’arricchimento di competenze.
Anche nella selezione dei collaboratori egli operava con approccio multidisciplinare e con colloqui rivolti più a conoscere il profondo della persona che a verificare le competenze tecniche.

Nella Società della Conoscenza gli asset strategici sono rappresentati dalle persone, dalle loro conoscenze e competenze, ma nella Olivetti degli anni 50, 60 e 70 i era già ben chiaro che l’investimento maggiore e più attento doveva essere effettuato attraverso la crescita delle competenze, delle conoscenze e della cultura delle persone.
Capacità di innovazione e crescita culturale non si limitava alla fabbrica ma doveva essere condivisa da parte di una collettività, di una comunità, di un territorio e doveva essere a tutto campo.
Della comunità, nella fabbrica e fuori della fabbrica, la cultura condivisa, costruita assieme è l’elemento di coesione e di comune volontà di crescita.

Non vi è dubbio che queste componenti vitali del sistema industriale sono andate indebolendosi nell’Italia di questi anni.
Si sono infatti portate avanti condizioni di lavoro precario, disarticolato, privo di valori e di futuro, una catena di montaggio sotto il segno dell’incertezza, l’assenza di partecipazione, con effetti drammatici sulla produttività e sulla competitività, privilegiando servizi a basso valore aggiunto per le imprese.

Si sta cominciando a riscoprire che la sopravvivenza e la possibilità di sviluppo richiedono di ripensare, da un lato ad investire nella cultura di un paese che deve rilanciare la sua vocazione industriale, manifatturiera e di servizi di qualità attraverso la formazione professionale, le università di eccellenza ed una cultura diffusa, non impoverita da strumenti mediatici di basso livello, dall’altro a definire forme di lavoro partecipato con capacità di innovazione e di autoapprendimento continuo, ritrovando i valori caratteristici dell’Italia artigiana.

E’ la direzione che viene sollecitata da alcuni saggi, “L’uomo artigiano” di Richard Sennett, “Artigiani del digitale” di Andrea Granelli, “Futuro artigiano” di Stefano Micelli che indicano strade che l’Italia deve e può percorrere.
Il nostro paese ha ancora straordinarie potenzialità di creatività innovativa, basata sul modello dell’artigiano glocal che trae dal legame con il territorio in cui opera grandi capacità per affrontare competitivamente il contesto globale internazionale.
Ciò che dà fiducia sul futuro è oggi l’esempio di tanti imprenditori che seguono con successo la strada dei valori reali d’impresa, imprenditori che stanno moltiplicandosi in Italia come ben ha ricordato Aldo Bonomi su 24 Ore.
Si comprende sempre più che la produttività si accresce attraverso la ricomposizione, ridefinizione del lavoro e partecipazione dei collaboratori, non con metodi vetero fordistici.

Questo vale ancora di più con la commistione, la contaminazione di beni fisici con beni intangibili e servizi tecnologici con radicali modificazioni dei contenuti di lavoro e delle competenze.
Peraltro per molte attività di nuovi servizi (quali ad esempio i call centers) si tende a mantenere modalità di lavoro da catena di montaggio, perdendo in tal modo le opportunità derivanti dai nuovi servizi in rete in termini di qualità del rapporto con il cliente, partecipazione delle persone, innovazione e gestione di politiche di marketing e di business intelligence.

Il successo dell’innovazione nell’esperienza olivettiana si è basato sulla capacità di scambiare e condividere conoscenza all’interno delle componenti aziendali, spesso creando anche situazioni conflittuali, ma mai di chiusura per compartimenti e soprattutto di grande libertà di intraprendere strade inconsuete al di là degli organigrammi.
La concezione del lavoro da parte di Adriano è strettamente connessa alla vita della persona e della comunità così come il suo contrario, la disoccupazione.
Sulla disoccupazione, ricorda l’ammonimento di suo padre Camillo, “la disoccupazione è la malattia mortale della società moderna; perciò ti affido una consegna: tu devi lottare con ogni mezzo affinché gli operai di questa fabbrica non abbiano da subire il tragico peso dell’ozio forzato, della miseria avvilente che si accompagna alla perdita del lavoro”

E poi Adriano aggiunge: “E il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva e non giovi ad un nobile scopo”.
Sempre sul tema del lavoro e della occupazione, una importante considerazione di Adriano: “Verso l’estate del 1952 la fabbrica attraversò una crisi di crescenza e di organizzazione … Fu quando riducemmo gli orari; le macchine si accumulavano nei magazzini di Ivrea e delle Filiali a decine di migliaia. L’equilibrio tra spese e Il primo valore incassi inclinava pericolosamente: mancavano ogni mese centinaia di milioni. A quel punto c’erano solo due soluzioni: diventare più piccoli, diminuire ancora gli orari, non assumere più nessuno; c’erano cinquecento lavoratori di troppo; taluno incominciava a parlare di licenziamenti. L’altra soluzione era difficile e pericolosa: instaurare immediatamente una politica di espansione più dinamica, più audace.
Fu scelta senza esitazione la seconda via. In Italia furono assunti 700 nuovi venditori, fu ribassato il prezzo delle macchine, furono create nuove filiali…. Diciotto mesi dopo il pericolo di rimanere senza lavoro era ormai scongiurato.”
Quanto attuale appare questa strada di fronte al vano inseguimento del taglio dei costi e dell’occupazione con la inevitabile morte dell’impresa.

In occasione delle celebrazioni per il centenario della fondazione della Olivetti nel 2008 abbiamo cercato di evidenziare alcuni dei valori fondamentali dell’esperienza olivettiana, valori che possono servire oggi al rilancio della imprenditorialità in Italia, per cercare di metterli a disposizione di chi vuole fare impresa oggi, dei giovani che stanno costruendo il loro futuro, di tanti che eroicamente fanno impresa ed hanno voglia e passione di innovare e costruire valore reale, non bolle finanziarie.
Questi sette valori sono anche alla base dei corsi di nuova imprenditoria sul modello olivettiano tenuti all’ISTAO di Ancona e per la selezione del “premio all’imprenditore olivettiano”.

Il primo valore è Visione del futuro, cioè progettare il futuro non subirlo, non ancorarsi all’esistente che oggi può sparire overnight.
Non limitarsi all’oggi, ma guardare avanti in modo continuativo, quasi ossessivo, cercando di capire dove vanno i mercati, la domanda, la tecnologia prima di altri.
Avere, come Adriano Olivetti, una curiosità insaziabile di capire attraverso i settori,attraverso le tecnologie, attraverso le culture, viaggiando, imparando sempre da quanto avviene intorno, con ottica interdisciplinare.

Il secondo valore si intitola alla Intelligenza che innova.
Significa avere la capacità di utilizzare le risorse strategiche rappresentate dalla conoscenza, dal know how, dalla creatività delle persone all’interno dell’azienda (competenze e conoscenze spesso ignorate o scarsamente condivise) e nell’ecosistema di partners, fornitori, clienti, filiere.
L’innovazione posta al centro dello sviluppo, la conoscenza intelligente e condivisa con tutti che genera creatività e innovazione in modo continuativo.
E’ l’innovazione che crea sviluppo; non basta aumentare la produttività senza innovazione; si crea maggiore efficienza ma non vero sviluppo.

Il terzo valore è la Ricerca e libertà creativa, cioè ricerca aperta, di scambio e di partecipazione (non più intramuros), con laboratori universitari a livello mondiale con l’aiuto delle reti internet.
Dare spazio alla libertà di pensare e creare da parte di tutti, divenendo una comunità di pratica all’interno e con tutti gli stakeholders per la condivisione di conoscenze.
Nella Società della Conoscenza, la conoscenza condivisa è la materia prima delle organizzazioni, in forma di Open Innovation, Shared Knowledge.
Amplificare la capacità di utilizzare le risorse strategiche rappresentate dalla conoscenza, dal know how, dalla creatività delle persone all’interno dell’azienda e nell’ecosistema di partners, fornitori, clienti, filiere.

Il quarto valore è la Cultura del cambiamento che significa non fermarsi mai ai risultati raggiunti, ma ripartire ogni giorno come fosse il primo.
Mai contare sulle posizioni di rendita che uccidono l’innovazione e portano al fallimento.
Diffondere la cultura del cambiamento, l’ansia del cambiamento continuo, anticipare e non subire passivamente il cambiamento che comunque il mercato impone.
Gestire ogni giorno, ogni minuto il cambiamento che è l’unica certezza in un contesto di incertezza.

Il quinto valore è la Coscienza sociale.
L’impresa che pensa ed agisce come monade isolata non ha futuro.
L’esperienza di Adriano Olivetti ha dimostrato chiaramente che coniugare strettamente impegno sociale, partecipazione, etica responsabile con la gestione efficiente dell’impresa non è affatto utopia, ma crea produttività, innovazione, forte competitività e produzione di ricchezza.
Il raggiungimento del bene individuale non può prescindere dalla ricerca del bene comune.
Il vero imprenditore conosce molto bene il valore del bene comune rappresentato dal territorio in cui le imprese operano, un fattore decisivo per il successo aziendale.
La partecipazione al bene comune, l’etica comportamentale paga, diviene valore fondamentale dell’ecosistema in cui opera l’impresa.

Il sesto valore è Forma, bellezza e tecnologia.
La bellezza non è un concetto astratto, è legato all’idea di stile, uno stile che ha sempre caratterizzato la Olivetti, dalla progettazione e design dei prodotti, alle fabbriche, alle case dei dipendenti, alla grafica e comunicazione, alla cultura diffusa tra i dipendenti.
Uno stile da diffondere all’esterno, nel mercato, con i prodotti, con i servizi, con i negozi, con le fiere.
Rendendo la tecnologia una forma da ammirare ed utilizzare con passione ed emozione.
Innovazione tecnologica e bellezza delle idee e dei prodotti devono vivere assieme.
Adriano Olivetti esprime bene la sua visione di bellezza, prendendo spunto da Platone.
“colui che prende il giusto cammino deve cominciare ad amare le bellezze della terra e progredire incessantemente (cioè innovare, creare il nuovo) verso l’idea della Bellezza stessa: dall’armonia delle forme a quella delle azioni, dalla perfezione delle azioni (l’impresa) a quella delle conoscenze (la società della conoscenza) per raggiungere infine quella ultima conoscenza che è la Bellezza in sé (la forma più alta della vita)”.

Il settimo valore è l’Apertura sul mondo.
Innovazione ed internazionalizzazione sono elementi fortemente integrati, sono due facce della stessa medaglia che richiedono di operare in modo congiunto.
E’ una lezione importante che viene dalla storia olivettiana ed è oggi centrale per le imprese italiane.
Le imprese, se intendono innovare ed essere competitive, devono puntare senza timore ad una dimensione internazionale, misurandosi continuamente su quanto avviene nei mercati più innovativi e in forte crescita.
Non da multinazionali colonizzatrici ma da partner integrati con i valori e le culture locali.
Con una logica olivettiana del think global and act local.

A conclusione di quella mostra del 2008 che era intitolata al progetto industriale, alla capacità di Olivetti di progettare, prima di agire, venne presentato un manifesto di Folon con l’indicazione Il progetto guarda al futuro, il futuro nasce dal progetto.
In sostanza, un messaggio agli imprenditori italiani sulla necessità di progettare sempre, di non vivere day by day, ma progettare per costruire il proprio futuro.
Per vivere, per sopravvivere occorre progettare, una frase che crediamo amasse ripetere Adriano Olivetti.
Quel messaggio si concludeva con un brano di De Gregori: Dietro ad un miraggio c’è sempre un miraggio da considerare, come del resto alla fine di un viaggio c’è sempre un viaggio da ricominciare.

 

Prima pubblicazione su Nel Futuro: 19/11/2013

Inserito il:13/11/2014 19:57:16
Ultimo aggiornamento:26/11/2014 16:32:07
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