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Voltaire

Anonimo (anno 1951) - Hospital room - Tempera

 

Integrazione tra appropriatezza e sostenibilità

di Alessandra Gelera

 

Un tema oggi molto discusso è il possibile livello di integrazione tra appropriatezza e sostenibilità.

Muir Gray, ricercatore di rilievo nell’ambito di politiche sulla salute pubblica e sulla gestione delle informazioni, sostiene che nell’esercizio della pratica clinica qualunque giudizio di appropriatezza dovrebbe prendere in considerazione, oltre al profilo rischio/beneficio degli interventi sanitari, le preferenze e le aspettative del paziente individuale, senza essere fortemente influenzato dai costi.

Questo ultimo aspetto è importante per non ostacolare un processo decisionale già complesso e per non interferire con la relazione medico-paziente.

D’altro canto, per le decisioni che riguardano gruppi di pazienti o intere popolazioni, il giudizio di appropriatezza deve necessariamente considerare gli aspetti economici: infatti, un uso efficiente delle risorse rende massimo il numero di pazienti che possono accedere a interventi efficaci.

Oltre alla dimensione economica, è importante sottolineare che anche quella clinica ha un potenziale impatto sulla collettività: infatti, anche se il miglioramento dell’appropriatezza clinica garantisce l’effettivo perseguimento della qualità dell’assistenza solamente sul singolo, la sua carenza provoca, oltre a un danno per il paziente, uno spreco di risorse per la società nel suo complesso.

Nella nozione di appropriatezza organizzativa è inoltre insito il riferimento al criterio dell’efficienza produttiva, intesa come minimizzazione dei costi per unità prodotta.

Oltre ad essere clinicamente appropriata, l’esecuzione di un intervento deve tenere conto dell’utilizzo efficiente delle risorse: un intervento inefficiente non diventa per questa ragione inappropriato da un punto di vista clinico, ma inappropriato da un punto di vista organizzativo, nonché dell’erogazione.

Nel momento in cui il concetto di appropriatezza porta con sé quello di ottimizzazione delle risorse, esso viene associato a quello di sostenibilità. A causa di tale relazione, gli operatori sanitari, e soprattutto la parte amministrativa, tende ad avere una visione monodimensionale dell’appropriatezza: infatti, tendono a riconoscere solo le inappropriatezze in eccesso (sia professionali, sia organizzative) la cui riduzione può sanare – più o meno parzialmente - il bilancio economico.

In realtà, esistono una serie di interventi, servizi e prestazioni sanitarie di provata efficacia, largamente sottoutilizzati, la cui necessaria implementazione determina, almeno nel breve e medio termine, un incremento dei costi.

Nell’ambito cardiovascolare gli ultimi anni sono stati caratterizzati da notevoli progressi nella diagnosi e nella terapia consentendo di prevenire gli eventi e curare le malattie, aumentando la durata della vita media.

Questo progresso tecnologico ha portato il cardiologo a dover compiere svariate scelte, avendo a disposizione una serie di alternative (farmacologiche, chirurgiche, interventistiche). Questa condizione ha messo il professionista sanitario nella situazione in cui deve saper valutare il livello di appropriatezza e di sostenibilità degli interventi, in rapporto all’aspettativa di vita e alle preferenze del paziente. A questo proposito si pensi ai defibrillatori, nati per la prevenzione secondaria dello scompenso cardiaco, diventano oggi una tecnologia molto più sofisticata ottenendo indicazioni terapeutiche più estensive. 

La loro evoluzione li ha resi dispositivi idonei a svolgere anche funzioni di monitoraggio in remoto della condizione clinica del paziente. I modelli di ultima generazione presentano funzioni di gradazione della terapia erogata in modo da evitare al paziente uno shock improvviso e doloroso, ma scariche graduali che interrompono l’aritmia nel modo meno traumatico possibile.

Da autentici e puri dispositivi salvavita, i defibrillatori sono quindi diventati anche uno strumento per migliorare la qualità di vita del paziente.

In presenza di dispositivi medici costosi come questi, o ancor di più come quelli di assistenza circolatoria per lo scompenso cardiaco estremo (ponte al trapianto o terapia definitiva), ci si chiede quali siano i pazienti che possono trarre un reale beneficio dalla terapia.

Per rispondere in modo appropriato a questa domanda occorre guardare con equilibrio all’innovazione, tenendo presente il sempre più pressante vincolo economico. Secondo questa prospettiva, è necessario applicare in modo opportuno le Linee Guida supportate dall’evidenza, ricordando che esse sono riferite a un paziente medio, che non necessariamente assomiglia a quello che si sta trattando.

Il paziente trattato può presentare  comorbidità (che in uno studio clinico randomizzato rientrano tra i criteri di esclusione), non avere un’aderenza ottimale al trattamento, avere abitudini di vita scorrette: il valore aggiunto del clinico si basa proprio sulla conoscenza del malato, presupposto della personalizzazione della cura.

Le Linee Guida sono solo uno dei supporti su cui fondare la definizione del trattamento migliore, che attualmente tengono  in considerazione le comorbidità del paziente e il suo profilo di rischio, valutato sulla scorta di elementi anamnestici e di marcatori biologici noti. Forse, in un futuro non molto lontano, si potrà contare anche su predittori genetici, che aiuteranno a meglio definire qual è il rischio di sviluppare eventi cardiovascolari negativi e la probabilità con cui il paziente potrà rispondere in maniera ottimale al trattamento. 

Nel 2003, una sentenza della Corte Costituzionale (n. 338/2003) ha notificato che “scelte legislative dirette a limitare o vietare il ricorso a determinate terapie - la cui adozione ricade in linea di principio nell’ambito della autonomia e della responsabilità dei medici, tenuti ad operare col consenso informato del paziente e basandosi sullo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche a disposizione - non sono ammissibili”.

Nella sentenza la Corte, ribadendo la sua giurisprudenza al riguardo, precisa altresì che, nei limiti dei principi fondamentali, “nulla vieta invece che le Regioni, responsabili per il proprio territorio dei servizi sanitari, dettino norme di organizzazione e di procedura, o norme concernenti l'uso delle risorse pubbliche in questo campo: anche al fine di meglio garantire l'appropriatezza delle scelte terapeutiche e l'osservanza delle cautele necessarie per l'utilizzo di mezzi terapeutici rischiosi o destinati ad impieghi eccezionali e ben mirati, come è riconosciuto essere la terapia elettroconvulsivante”.

Secondo queste disposizioni, è evidente che affidarsi ai principi dell’appropriatezza per erogare e finanziare servizi e prestazioni sanitarie, richiede una duplice revisione di posizioni, spesso estreme e conflittuali:

- i professionisti sanitari, riconoscendo che numerosi interventi sanitari da loro erogati sono inappropriati, non devono inquadrare il principio dell’appropriatezza nella strategia dei tagli incondizionati, ma valorizzarlo quale importante risorsa di qualità professionale;

- i decision makers, accettando che perseguire l’appropriatezza non serve a ridurre i costi, ma solo ad ottimizzare l’impiego delle risorse, devono “mettere a fuoco” la dimensione dell’inappropriatezza in difetto, per non rischiare di rallentare la diffusione delle innovazioni di provata efficacia.

 

Inserito il:05/05/2017 20:23:42
Ultimo aggiornamento:05/05/2017 20:30:11
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