Michael Lang (Liverpool, NY, USA) - Choices
Gli errori dell’Ingegnere
di Gianni Di Quattro
Premessa.
Pensare agli errori di qualcuno significa esprimere opinioni esclusivamente personali, perché ognuno può individuare errori che per altri non lo sono, può ignorare fatti connotati da altri come errori, può dare un peso diverso a quelli che altri credono di individuare come errori magari gravi, può decidere di tenere conto solo degli errori considerati vitali e lasciar perdere tutti gli altri. Insomma, ognuno per sé, in casi come questi si può dire unicuique suum.
Mai o quasi queste opinioni coincidono con quelle del giudicato, perché umanamente ciascuno tende a giustificare quello che ha fatto e le decisioni di cui è stato protagonista. E naturale che sia così!
Comunque l’esercizio di elencare alcuni errori commessi da persone fisiche e che poi si ritiene hanno portato o comunque probabilmente contribuito fortemente alla fine di imprese o di altre vicende sociali e collettive rilevanti non è mai inutile, anche se spesso provocatorio. Serve a fare la buona storia delle cose.
Ognuno ha la propria cultura e i propri valori evidentemente, cosa non banale che va sempre ricordata. Quello che è più importante in operazioni di questo genere è riuscire a giudicare senza pregiudizi e senza condizionamenti personali. Non è facile anche se necessario per capire veramente, bisogna provarci.
L’Ingegnere.
Parliamo di Carlo De Benedetti alla Olivetti, detto dai media e da tanti solamente l’Ingegnere per metterlo in contrapposizione con l’Avvocato per definizione, cioè Gianni Agnelli, che in una certa epoca dominava il paese in modo diretto e indiretto. È inutile, perché nota, fare la storia dell’ingegnere, che è quella di un protagonista delle vicende sociali ed economiche del paese nella seconda metà del secolo scorso.
Carlo De Benedetti fu scelto come amministratore delegato e maggiore azionista dal Presidente Bruno Visentini in un momento critico della Olivetti da un punto di vista finanziario, conseguente agli investimenti resisi necessari nei precedenti cinque anni per trasformare l’azienda da meccanica in elettronica e, di conseguenza, per evitare di uscire da tutti i mercati. Operativamente l’azienda era nelle mani di Ottorino Beltrami, che aveva già ampiamente dimostrato di saperla guidare. Anzi era stato l’artefice principale del processo di trasformazione fatto a tempi di record con coraggio e abilità.
Il Presidente scartò altre soluzioni per risolvere il momento di crisi dell’azienda, mentre le banche premevano, una di queste sottopostegli dallo stesso Ottorino Beltrami, che aveva un progetto esaminato e concordato con la Mediobanca di Enrico Cuccia, decidendo di affidare l’azienda sul piano finanziario e sul piano operativo all’ingegnere, che era libero e con denaro disponibile perché appena liquidato dalla Fiat, dove il suo potere era durato solo novanta giorni, e si era persino liberato in modo per lui non male della Singer di Leinì ( incassando dallo Stato una cifra quasi coincidente con quella poi investita nella Olivetti).
Una operazione che consentiva a Visentini di continuare a mantenere il posto ed un ruolo (con altre soluzioni chissà), di cominciare a far capire alla famiglia che la corda non si poteva tirare all’infinito e già tanti anni erano passati dalla morte di Adriano e, infine, di scaricare la situazione su un uomo che era pronto a prendersi tutta la responsabilità e, soprattutto, a rischiare anche personalmente nell’impresa. E che aveva grande necessità di riscatto personale, quindi con forte motivazione.
Va anche precisato, per la verità, che il progetto di Beltrami e di Cuccia avrebbe limitato i poteri del Presidente (almeno), a favore di Mediobanca, e rafforzato i poteri di Ottorino Beltrami. Questo ha influito nella decisione del Presidente?
Esempi di alcuni errori dell’Ingegnere.
Avere fatto accordi di partecipazione con gruppi industriali internazionali dando la sensazione di non avere approfondito prima la visione strategica del futuro della impresa, senza avere il controllo degli apparati eporediesi e delle persone influenti che poi hanno contribuito parecchio a fare fallire tali accordi, soprattutto quelli con l’ATT. Qualcuno potrebbe dire: chissà se i vantaggi azionari e borsistici del momento abbiano avuto la prevalenza nella decisione di queste iniziative mentre altri elementi sono passati velocemente in secondo piano. Si sono perse comunque le possibili alleanze con la Saint Gobain e con l’ATT.
Non si sono poi cercate altre soluzioni di alleanze come se quelle fatte e poi fallite fossero state solo casualità. Magari non è così ma c’è qualcosa che potrebbe farlo sembrare. Il cuore dell’errore consiste nel non avere considerato e perseguito, invece, questa possibilità di futuro della Olivetti seriamente e che sarebbe stata necessaria nel mondo della tecnologia che già manifestava un grande cambiamento.
Un errore di tanti altri operatori del settore anch’essi poi quasi tutti miseramente scomparsi dalla scena. La presunzione di farcela, l’arroganza di non volere cedere il potere e l’autonomia in cambio di un migliore futuro. Non tutti amano il futuro e spesso finiscono per perderlo.
La dimostrazione che l’Ingegnere non aveva in mano l’azienda o perché non l’aveva davvero capita o perché, soprattutto negli ultimi tempi, non l’aveva seguita con la stessa intensità del suo brillante e dedicato inizio o perché ancora invece seguiva, nel senso che dava retta, chi cercava di dargliene una versione non troppo genuina (ma questo potrebbe essere gossip).
Avere creato e nello stesso tempo trascurato il settore del venture capital affidato a Elserino Piol, solo forse per dire che Olivetti c’era, per avere un belletto, un po’ per avere dei contatti internazionali che Piol aveva e creava di continuo (ed era unico) e un po’ forse per inserire Piol in un canale parallelo grazie sempre anche alla pressione delle persone influenti eporediesi che avevano i loro piani e le loro scelte da favorire (chi conosce la Olivetti di Ivrea può facilmente individuare anche alcuni di questi nomi, ma nell’esame del perché è avvenuto quello che è avvenuto hanno poca rilevanza, mentre la importanza c’è nella responsabilità e nella coscienza professionale personale, ma è un altro e brutto discorso). L’Ingegnere aveva intuito con il suo fiuto che una persona come Elserino Piol doveva tenerla in conto anche se non si sa dove metterla e se non la si capisce completamente. Ma non era stato capace di dargli il peso che avrebbe dovuto e potuto.
Piol ha fatto quello che poteva quasi come fosse un professionista indipendente e avendo poca parte della impresa alle spalle che lo seguiva e lo supportava. Molti settori (anche di rilievo) di Ivrea soprattutto vedevano questa attività come sovrapposta ai compiti e alle funzioni aziendali e come quindi un potenziale pericolo per persone e competenze. E questo è un elemento chiave per capire la validità professionale e la correttezza delle strutture della azienda che certo un ruolo nel suo scivolamento verso il niente lo hanno pure avuto. Forse molto di più di quanto tante persone considerano.
Nessuno o pochi avevano capito come cominciava nel mondo a funzionare l’articolazione della evoluzione della ricerca in una azienda di tecnologia e se lo avevano capito tendevano a mascherarlo. Nessuno o pochi avevano capito, in altri termini, come l’integrazione della ricerca interna con le tecnologie dei terzi del mercato sarebbe stata la soluzione del futuro, come l’industria ora sta dimostrando in tutti i settori e non solo in quello tecnologico.
Senza considerare che la creazione di un network di aziende collegate, a parte il business che avrebbero potuto offrire per il gioco del mercato e a parte il contributo nella ricerca e nella pianificazione che avrebbero potuto dare, avrebbero potuto comunque accrescere significativamente il valore complessivo della Olivetti. E avrebbero forse anche potuto contribuire nella individuazione di manager utili in una competizione che diventava sempre più accesa e nella quale il fattore umano cominciava a diventare vero strumento di differenza.
Avere perso un manager come Marisa Bellisario che aveva in casa. Forse per far posto al fratello Franco ma la giustificazione è debole anche se una similare operazione era già avvenuta in Fiat. Forse per avere accettato ricatti, naturalmente nella forma melliflua adeguata, di chi negli ultimi anni aveva dovuto subire la Bellisario nella organizzazione del proprio lavoro al contrario di prima di lei quando decideva cosa fare, quando fare e come fare. Forse perché la Bellisario era considerata vicina a Ottorino Beltrami, vecchio amministratore di cui si dovevano far perdere le tracce, ingombrante anche per il Presidente. Forse perché la personalità della Bellisario non era facilissima da piegare a piacimento. Forse per qualcosa di personale o per altro, ma avere perso una simile esperienza, un simile valore è stato un gravissimo errore. E questo è un termometro anche per capire quali tipi di manager piacevano all’ingegnere e con chi preferiva condurre il gioco. Ma l’errore è anche un segnale per dire che l’ingegnere non aveva capito il settore in cui operava la Olivetti e non aveva le idee chiare sulle capacità dei propri manager altrimenti non avrebbe a cuor leggero perso un manager importante e raro come la Bellisario.
Avere affidato il settore del software e dei servizi, cioè il settore che tutti gli studi più accreditati già indicavano come quello più promettente ed importante per il futuro, sia per il fatturato e soprattutto per i margini, al fratello Franco. Questi era un uomo delizioso umanamente, colto, amante del bello e generoso. Era inoltre impegnato nel lavoro, un professionista serio e consapevole. Ma non aveva esperienza, non aveva capito quali uomini doveva scegliere per disegnare il futuro, non aveva capito il ruolo che poteva svolgere all’interno della azienda, non riusciva a immaginare un percorso preso dall’ansia di crescere a tutti i costi, anche comprando e nel cercare di comprare formulando spesso ipotesi assolutamente strampalate. Era insomma l’uomo meno indicato per gestire il settore di maggiore fantasia e di maggiore sviluppo della azienda, dove il compito principale doveva essere quello di razionalizzare, acquisire professionalità e competenze, disegnare progetti. Con un’altra persona forse si sarebbe potuto fare un gran lavoro e trascinare l’azienda. È stato un errore avere sottovalutato il settore e sopravalutato il fratello, cui in definitiva non è stato fatto alcun favore.
Avere nominato Vittorio Cassoni amministratore delegato è stato da una parte un atto di coraggio perché forse ci si può vedere la consapevolezza di scavalcare quello che ormai chiaramente era il sistema eporediese chiuso e autoreferenziale, ma dall’altra, preso dalla voglia di innovare a tutti i costi e di dimostrare che comunque sapeva vincere sempre, di averlo autorizzato ad una ristrutturazione aziendale bella sulla carta per i consulenti che hanno contribuito al suo disegno e per chi veniva da ambienti ristrutturati da anni e ormai consolidati come lo stesso Cassoni con esperienze in IBM e negli Stati Uniti, ma senza avere valutato l’anima della Olivetti in quel momento, la sua storia e, soprattutto, la forza di questo sistema eporediese.
Una ristrutturazione che divideva l’azienda in quattro divisioni, in quattro aziende praticamente ciascuna perfettamente autonoma rispetto alle altre. Senza limiti e senza regole, ognuna di queste aziende poteva ricercare, produrre, offrire prodotti anche in concorrenza con le altre.
È stata un disastro questa ristrutturazione, più grande di quanto gli stessi numeri indichino in termini di aumento dei costi e diminuzione di fatturato. Infatti, è stata un elemento di grande confusione sul mercato che i clienti hanno subito avvertito, ha creato polemiche e forte competitività tra le strutture sia a livello ricerca e produzione che presentavano prodotti in concorrenza tra loro e sia nel settore commerciale che è stato penalizzato fortemente da questa confusione, ha perso riferimenti, non ha più capito i percorsi aziendali.
Un errore grave di management, qualcuno ha anche detto che è stato fatto per movimentare le azioni e giocare con esse sottovalutando o trascurando i possibili effetti sulla azienda a breve ed a lunga scadenza. Difficile dire se questa voce è vera ma a prescindere l’errore resta scolpito nei libri aziendali.
Avere consentito, per incompetenza, per distrazione, per fiducia mal riposta, per presunzione, alla azienda ad un certo punto di puntare tutte le sue risorse tecnologiche e finanziarie sulla progettazione e produzione di una serie di mini dotati di software proprietario (sistema operativo, monitor, utilities). Nel momento in cui i mini iniziavano la loro fuoriuscita dal mercato, come possono insegnare i casi Digital e Philips ad esempio, a favore dei personal computer. Quando il concetto di software proprietario veniva superato dalla stessa IBM, che ci aveva campato per decenni, a favore di una standardizzazione sempre più possibile per la tecnologia e sempre più richiesta dal mercato e di soluzioni più elastiche e accessibili, meno rigide soprattutto nella implementazione, nelle modifiche sempre più continuamente necessarie e nelle manutenzioni.
Una decisione grave per non avere capito quello che stava avvenendo sul mercato o comunque per averlo sottovalutato. Un errore strategico di portata incalcolabile. Investendo non solo quantità enormi di denaro per la ricerca e la produzione, ma anche per la formazione tecnica e commerciale della struttura internazionale, per le prime installazioni, per le documentazioni e per la promozione.
Risultato: si sono persi soldi, clienti, tempo, mercato e si sono persi in modo irrecuperabile perché ormai i ritmi tecnologici e gli andamenti delle soluzioni applicative andavano molto più velocemente di prima. Questa operazione è stata un capolavoro di superbia, di mancata adeguatezza alla dinamica del settore, di stupidità aziendale.
L’errore, che ha piegato l’azienda certo non è stato, tecnicamente parlando, dell’ingegnere e nessuno poteva pretendere che lui avesse la conoscenza per capire, ma doveva avere la cultura, il tempo, la voglia, l’occhio per capire di chi si stava fidando e perché. Doveva meglio interpretare la storia della azienda, doveva cercare di approfondire perché stava puntando tutto, ma proprio tutto, su questa iniziativa come alla roulette quando per disperazione si punta su un solo numero gli ultimi gettoni rimasti.
Avere creato la figura di Direttore Generale ed averla affidata a Simone Fubini, uno del gruppo di Barbaricina, con esperienze importanti in Divisione Elettronica Olivetti e poi General Electric, in Telettra e in Fiat. Al termine del primo anno del suo insediamento, e dopo risultati aziendali buoni, dopo anche il lancio dell’M24, il personal computer compatibile che ha poi avuto tanto successo e che sostituiva il pretenzioso e fuori standard M20, averlo fatto fuori. La creazione della Direzione Generale si era resa necessaria sicuramente nel giudizio di tanti e certamente anche nella testa dell’ingegnere perché lo stesso cominciava ad essere sempre più assente nel senso che era già cominciata la seconda fase del suo impegno in Olivetti, quella della gestione con la mano sinistra. Nessuno ha capito, forse si è lamentato qualcuno della prima linea di comando che con lui era diventata seconda, forse il Presidente ha fatto sentire la sua voce, forse era troppo invadente nella gestione della impresa, forse infine bisognava fare spazio e lasciare fluida la situazione, per essere pronti chissà a che cosa. Comunque un errore, anzi un errore multiplo.
L’errore Fubini conferma che ad un certo punto del suo percorso olivettiano l’ingegnere prese a dedicare sempre più tempo ad affari alternativi. La Borsa, nuovi investimenti, scalate, affari, affari nazionali e internazionali, battaglie con politici dell’epoca, tentativi di diversificazione verso ovunque. È comprensibile che tutto questo potesse succedere conoscendo il personaggio, perché infatti l’ingegnere decise, e non sarebbe stato logico il contrario, che si poteva sfruttare la sua nuova posizione, il suo riscatto imprenditoriale dopo Fiat, nel panorama economico italiano grazie alla visibilità Olivetti, le sue accresciute disponibilità finanziarie, nonché i suoi collegamenti e contatti per giocare una partita ancora più ampia rispetto a quella già ampia e difficile della Olivetti.
In altri termini, l’ingegnere dovette pensare che era giunto il momento di cominciare a far fruttare il lavoro profuso in Olivetti con fantasia e abilità, mentre l’azienda intanto poteva sempre andare avanti. La Olivetti poteva essere la chiave, la piattaforma più propriamente detto, per operazioni di mercato di alto livello e di possibile alto profitto.
Questa visione della situazione e il comportamento consequenziale può essere valutato il padre di tutti gli errori, quello più grande e forse decisivo. Le cause sicuramente sono molteplici: eccesso di sicurezza, la sopravalutazione del management, il raptus di un giocatore cui non basta più il solito tavolo, la presunzione e l’arroganza certo ci sono, la fretta di vincere e di far sapere che si è vinto pure.
Continua.
Dunque l’ingegnere molla la sua presa sull’azienda. Da questo momento l’azienda è come fosse abbandonata, è una piattaforma diventata strumento per altre operazioni, mentre il management si rivela in questa circostanza incapace di prendere in mano la situazione, di condurre l’azienda senza un capo che lo indirizza, lo motiva, suggerisce. Un management pauroso e pretenzioso, diviso da lotte interne spesso anche feroci per avere maggior peso, per conquistare qualche posto, per cercare gloria, con tante persone fuori posto a fare cose fuori dalle loro esperienze.
L’ingegnere si illudeva di farcela e forse sul piano personale ce l’ha anche fatta. La penalizzazione comunque per la Olivetti è stata fortissima, un colpo mortale decisamente. In questo momento, per cercare di storicizzare, va collocato l’inizio della lunga agonia della più bella e originale azienda del secolo scorso di questo paese lento, provinciale, conservatore.
Comincia, meglio continua, quindi una storia ancora diversa da quella sino ad ora raccontata per sprazzi, una storia complicata, percorsa da tanti personaggi improbabili e, soprattutto, dolorosa. Sulla sua fine, la domanda da non farsi potrebbe essere: la Olivetti è finita senza che nessuno lo abbia voluto perché era in un gioco più grande, globalizzato, gigantesco finanziariamente o qualcuno ha deciso cinicamente di sacrificarla?