Franca Pisani (Grosseto, 1956 - ) - Dittico "Shoah Memoria Collettiva" donato dall'artista alla città di Padova
27 gennaio – Giornata della Memoria
di Annalisa Rabagliati
Il 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria della Shoah, ma in questi giorni non se ne sta parlando molto, perché l’attenzione di quasi tutti è focalizzata, giustamente, sull’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. Quelli che non se ne interessano, invece, aspettano ansiosamente il festival di Sanremo, di cui viene fatta una tale pubblicità che, se anche lo si volesse, non si potrebbe ignorare che ci sarà a giorni.
Anch’io sono, almeno in parte, distratta, perché sono molto preoccupata del triste presagio di una possibile guerra nel cuore dell’Europa e mi auguro che possa trionfare il buonsenso. Sono passate decine d’anni, ma l’uomo non cambia mai: “Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo”. E quanti anni sono passati da quando Quasimodo scriveva questa poesia? Possibile che non si impari nulla dalla Storia?
Bisogna ricordare e raccontare quanto accadde ai più giovani; per questo da anni il Coro di cui faccio parte celebra con un concerto la Giornata della Memoria. Siamo però ancora nella morsa del Covid e delle sue varianti e, per prudenza, il Coro, anche se tutti i coristi sono vaccinati, ha sospeso le prove e, di conseguenza, non sono previsti concerti né esibizioni, per qualche tempo. Così, come lo scorso anno, non potremo ricordare con il canto una tragedia che non può lasciare indifferenti. Vorrei allora celebrare questa ricorrenza a modo mio, proponendovi le riflessioni che avevo scritto qualche tempo fa, che sono le stesse che posso fare ora.
In Italia nel 2000 venne istituito il "Giorno della Memoria" da celebrarsi ogni 27 gennaio in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti. Anche l’ONU nel 2005, sessanta anni dopo la fine della guerra, ha stabilito che nella stessa data in tutto il mondo venisse ricordato l’olocausto. Gli ebrei italiani assassinati furono quasi 8.000 su una popolazione di circa 30.000. Per onorare un popolo che ha subito da secoli persecuzioni e pregiudizio culminati nell’istituzione dei campi di sterminio nazisti, abbiamo cantato, nei nostri concerti celebrativi, alcuni brani della tradizione ebraica, alternando canti di preghiera, canti per la pace e canti di festa, in lingua yiddish o tradotti in Italiano.
Questa ricorrenza non deve essere banalizzata o data per scontata. È grazie alla sua istituzione che è nata una maggiore consapevolezza della Shoah. Shoah significa catastrofe in ebraico. Questo termine indica l’uccisione di circa 6 milioni di Ebrei d’Europa da parte della Germania nazista e dei suoi alleati durante la seconda guerra mondiale. Il termine olocausto, che viene più usato nelle lingue anglosassoni per parlare di questo genocidio, vuol dire, in greco, sacrificio con il fuoco. Celebrare la memoria non si fa per dare spazio all’enfasi, ma per ricordare quello che è stato. Ricordare significa non solo non dimenticare il passato, ma, a maggior ragione, occuparsi del futuro.
Bisogna leggere, documentarsi, non credersi un’isola al riparo dalle correnti, ascoltare le testimonianze e cercare di immedesimarsi. Che cosa avrei fatto io se queste cose fossero successe a me? Se mi avessero tolto ogni mio più piccolo avere, mi avessero costretta ad abbandonare la mia casa, mi avessero separata dagli affetti? Se fossi stata io la vittima? Colpevole solo di essere nata con una certa religione o in un certo posto?
Non lo posso sapere, ma quando vedo un film o un documentario sulla Shoah non lo posso guardare tanto per passare il tempo. Vedo la rappresentazione di qualcosa che è veramente accaduta e anche se non ha toccato né me, né la mia famiglia, se mi immedesimo mi costa sofferenza. Il nazismo ha sconvolto l’Europa, ritenendo quella ebrea una razza inferiore, eppure anche Gesù Cristo era ebreo, infatti così lo ritrae in molti suoi quadri, in croce con il tessuto ebraico a fargli da perizoma, il pittore ebreo bielorusso Marc Chagall.
Quanti “buoni cristiani” a suo tempo si voltarono dall’altra parte? E io, che cosa avrei fatto? Sarei stata davvero “umana” o no? Avrei fatto finta di niente? Per mia fortuna non sono vissuta a quell’epoca e non ho la possibilità di mettermi alla prova. Però la storia si ripete, adesso non siamo in presenza di un genocidio sistematico e organizzato, ma stiamo attenti alla retorica che vuol farci credere che siamo immuni per sempre, che sia un problema risolto una volta per tutte.
Non parlo solo degli idioti che usano simboli nazisti per la loro stupida volontà di rivalsa nei confronti della società o degli assassini e delinquenti che ancora perseguitano qualcuno perché ebreo. Questo è facile da capire.
Ma quando vedo alla tv i reportages sui migranti che traversano il mare o le frontiere con tutti i mezzi, anche i più pericolosi, o che attendono per giorni, al freddo, in luoghi squallidi e sporchi, che venga data loro la possibilità di stare in un Paese migliore, di fuggire la fame e la guerra, semplicemente di vivere, non posso fare a meno di pensare ai libri di Erich Maria Remarque.
Chi era? L’autore di “Niente di nuovo sul fronte occidentale”? Sì, proprio lui, quello che, dopo aver denunciato l’imbecillità criminale della guerra in molti romanzi, descrisse la storia degli apolidi, esseri senza una patria, in maggioranza ebrei, perseguitati dalle polizie di molti paesi d’Europa, ma anche vittime dell’indifferenza della gente comune, che nutriva sospetto verso di loro. Persone di una religione diversa, considerate portatrici di malattie e potenziali delinquenti. Ma la vita non è in bianco e nero: ognuno è, prima di tutto, una persona, un individuo con i nostri stessi sentimenti o problemi e che agisce bene o male a seconda della propria coscienza, non del fatto di essere di una certa etnia.
Ogni parola di chi, come me, non ha vissuto la tragedia della Shoah risulta inadeguata, per questo sono preziose quelle di Primo Levi che vuole testimoniare, non commuovere, eppure ispira empatia e dall’esperienza di morte e degrado trae un messaggio eterno: conserva la dignità, riconosci che l’altro è simile a te, coltiva lo spirito. Non rinunciare alla tua dignità neanche nella peggior abiezione, proprio perché è ciò che ci rende umani, perché inumano è non solo il dolore fisico, ma soprattutto l’annientamento morale.
Levi scavò nella memoria per ritrovare versi che tutti apprendiamo, spesso solo per obbligo: “Fatti non foste a viver come bruti...”, ricordò bellezza e potere di parole non inutili né portatrici di ulteriore sofferenza. Parole dimenticate se la vita scorre tranquilla, ma che possono tornare più necessarie del pane.
Che cosa provò Levi quando una tedesca lo osservò come se fosse stato un insetto?
Che si veda il proprio simile come essere inferiore non accade più? Accade quando non vediamo in chi è diverso la nostra stessa umanità, quando non ci chiediamo quale dramma possa aver vissuto e proviamo fastidio. E magari non lo soccorriamo perché non appartiene ai “nostri”!
Ma la domanda che più tormentò Primo Levi e tutti quelli che riuscirono a tornare dai lager è: perché mi sono salvato io e non un altro? Perché esistono due categorie diverse: i salvati e i sommersi? Perché qualcuno moriva e qualcuno no? Il caso, spesso, faceva la differenza. La morte poteva avvenire per non sapersi adattare, per la mancata comprensione di un ordine, per la fame, per un paio di scarpe sbagliate che procuravano infezione. Come dice Liliana Segre, sopravvissuta al lager, ognuno ha il proprio appuntamento con la morte.
La stessa domanda tormenta anche noi: perché si salva uno e non un altro? Perché sei nato in un posto e non in un altro? Perché forse hai rischiato grosso, ma lo puoi ancora dire? Perché il caso ha voluto salvare te e non uno più meritevole?
Non c’è né merito, né colpa. Nessuno può giudicare il disegno del destino. Se il motivo della nostra salvezza non ci è chiaro, viviamo cercando di lasciare agli altri una buona risposta.