Paris, 1834 - Vue du chateau et de la ville d'Ivrée, Sauvage sculp., incisione al bulino su acciaio
Sarebbe stato grave se avesse vinto il Prosecco
Cultura industriale contro l’ombreta
di Tito Giraudo
Avevo quindici anni quando un mattino scesi dal treno che da Torino mi aveva portato a Ivrea dove avrei dovuto sostenere l’esame di ammissione al CFM, la scuola professionale della Olivetti.
Seguii la marea dei dipendenti che si recavano al lavoro; girando l’angolo non mi fu difficile vedere la lunga prospettiva della fabbrica sulla strada che porta a Castellamonte, da dove provennero i miei avi materni.
Nulla sapevo al tempo di architettura, quasi non notai la fabbrica di mattoni rossi, il mio sguardo spaziò lontano per concentrarmi sulla fabbrica di cristallo.
Sapevo a malapena di Adriano Olivetti che negli anni trenta aveva fatto progettare e costruire quella fabbrica avveniristica anche per quel 1956, l’anno del mio esame.
Ora sappiamo che la Olivetti passerà alla storia soprattutto per il patrimonio di architettura industriale lasciato ai posteri in quel di Ivrea, poiché finalmente l’Unesco ha riconosciuto l’architettura olivettiana degna di diventare un suo sito da proteggere. Possiamo quindi compiacercene.
Consentitemi, per chi a Ivrea non è mai stato, di condurvi senza annoiarvi, alla descrizione del sito partendo dalla fabbrica di mattoni rossi, quella del fondatore Camillo, che all’inizio del novecento decise di far costruire il suo laboratorio per la produzione dei primi strumenti per la misurazione dell’elettricità, che da poco, da scienza, era diventata applicazione civile e industriale.
Camillo, era stato allievo di Galileo Ferraris un grande Fisico e docente, nonché precursore di quella materia. Aveva accompagnato il Professore al Congresso elettrotecnico di Chicago, poi, fermandosi negli States, aveva toccato con mano il grande sviluppo industriale e civile del paese, ne fu colpito, lui, tra i primi pionieri del Socialismo italiano tanto da sviluppare un suo di socialismo, lontano dai miti marxiani.
La Fabbrica di mattoni rossi, Camillo la progettò sulla falsariga delle fabbriche che aveva conosciuto nella Londra nel pieno della rivoluzione industriale di fine ottocento, dove aveva lavorato, finiti gli studi di ingegnere elettrotecnico. Quel piccolo stabilimento, solo apparentemente non è innovativo. Camillo in architettura era tradizionalista, in ingegneria tutt’altro. Sotto il guscio di mattoni rossi di Castellamonte, si nasconde un’anima strutturale fortemente innovativa per l’epoca, essendo un prefabbricato di cemento armato, uno dei primi, se non il primo del Paese.
Solo nel 1908, la fabbrica di mattoni rossi diventerà la Olivetti: “la prima fabbrica di macchine per scrivere tutta italiana”, come dichiarò la scritta sulla sommità dello stabilimento.
Il grande salto architettonico della Olivetti, si compirà grazie al successore di Camillo, il figlio Adriano.
Negli anni 20, Camillo fece ripercorrere ad Adriano la sua esperienza americana. In quel viaggio il giovanotto scoprirà il grande sviluppo industriale legato soprattutto al Taylorismo. Al ritorno ingaggerà un aspro confronto con il padre per cambiare il sistema produttivo e introdurre i metodi legati al lavoro parzializzato, appunto il Taylorismo: in parole povere la catena di montaggio.
La resistenza di Camillo a quei nuovi metodi fu ideologica, da vecchio socialista riformista considerava la fabbrica uno strumento di emancipazione del lavoratore e quindi la produzione di serie e la spersonalizzazione lo spaventava.
Tuttavia, essendo un grande industriale, comprese che non si poteva andare contro l’innovazione. Innovazione, di cui farà responsabile proprio Adriano, il meno tecnico dei figli maschi ma colui che ritenne il più adatto a succedergli ritirandosi nella nuova fabbrica da lui creata: la OMO, dove si progettavano e costruivano macchine utensili. Inoltre, diede poi vita contemporaneamente alla prima grande scuola professionale concepita da un’industria italiana, appunto quel Centro Formazione Meccanici che trent’anni dopo mi vide disattento allievo.
Adriano è un personaggio complesso, come Camillo coltiva interessi politici e sociali ma ha un afflato culturale di grande spessore che riverserà soprattutto nella fabbrica. Camillo, gli ha lasciato una Olivetti in grande salute e sviluppo, anche internazionale. Lui la farà diventare il primo produttore al mondo di macchine per ufficio.
Adriano non svilupperà solo i sistemi produttivi che gli consentiranno grandi margini, reinvestirà nella cultura industriale, nel sociale per i dipendenti, soprattutto nel bello, che si estrinsecherà non solo nei nuovi stabilimenti ma nel design industriale e nei negozi che saranno sparsi in tutto il mondo, veri capolavori d’arredamento.
Da tutto ciò nacque il mito Olivetti.
Lo sviluppo della fabbrica Adrianea partì dal 1936, essenzialmente in quattro fasi.
La prima, su progetto di due giovani architetti Luigi Figini e Gino Pollini, milanesi nati entrambi nel 1903 erano i corrispondenti italiani di Le Corbusier, allacciò alla fabbrica di Camillo, un moderno stabilimento su canoni americani ed europei già di grande rottura architettonica rispetto alla fabbrica originaria, con le sue grandi finestre che rispettano i nuovi canoni per il benessere psicofisico dei lavoratori. Ma il vero momento di rottura, sarà il corpo vetrato sulla destra dell’ingresso principale. Qui Figini e Pollini si ispirarono al loro grande maestro: Le Corbusier, progettando una fabbrica con le facciate integralmente vetrate dove frangisole verticali regolano la luce.
Non si concepisce più la fabbrica dove l’uomo viene rinchiuso a combattere con la produzione, ma la fabbrica aperta all’esterno che consente ai lavoratori di spaziare con lo sguardo, nel caso, la collina di Monte Navale.
Camillo, di fronte a tanto avvenirismo scalpita.
Si aggirava in quel cantiere borbottando, non era la sua di fabbrica, tuttavia lasciò fare ad Adriano e ai suoi architetti.
Fu quello il periodo in cui Adriano Olivetti elaborò con i suoi urbanisti ed architetti, il piano regolatore della valle d’Aosta (allora Ivrea era in provincia di Aosta).
Il piano porta la firma degli Architetti: Antonio Banfi, Luigi Figini, Ludovico B. di Belgioioso, Piero Bottoni, Enrico Persutti, Gino Pollini ed Ernesto Rogers con la collaborazione di Renato Zveteremich direttore della pubblicità della Olivetti.
Direzione generale del progetto: Adriano Olivetti, e io aggiungo: il contributo culturale e ideologico.
E’ il 1936, siamo ancora nel periodo di gran consenso al Fascismo. Il Regime, in architettura aveva scelto il razionalismo Piacentiniano, che con buona pace degli architetti antifascisti, fu tutt’altro che banale.
Non c’è ancora il giro di vite culturale e quindi il piano viene accolto con interesse. Sarà oggetto di una grande mostra a Roma.
I tempi stanno rapidamente cambiando, l’adesione di Adriano al fascismo è di breve durata e coincide forse, anche opportunisticamente, con la presentazione del Piano che non vedrà praticamente la luce, tuttavia, rappresenterà un grande progetto Urbanistico e architettonico che farà scuola.
Tornando all’oggetto del riconoscimento Unesco, Adriano fece progettare dall’Architetto Eduardo Vittoria alla fine degli anni cinquanta, il nuovo stabilimento dove si produrranno quelle calcolatrici che saranno la nuova gallina dalle uovo d’oro per la Olivetti.
Nuovamente uno stabilimento vetrato, inframmezzato da torri a pianta quadrata e collegato con un passaggio aereo con il resto degli stabilimenti. Poi la nuova mensa e la grande biblioteca, infine il Palazzo uffici che fu progettato dagli architetti Nizzoli e Olivieri, in fondo alla via Castellamonte che ora si chiama Jervis, in ricordo del dirigente Olivetti, caduto Partigiano.
Occorre anche parlare dell’impegno nell’edilizia abitativa per i dipendenti. Prima della guerra il nucleo di case nel verde anche se adiacenti la fabbrica, poi il grande insediamento di S. Grato, sempre casette a schiera con sviluppo orizzontale. Esattamente il contrario di quanto progetteranno gli architetti di sinistra a Torino che non sapranno pensare ad altro che al modello sovietico.
Come non parlare poi delle Colonie: quella di Marina di Massa e quella di Champoluc, in Valle d’Aosta, là dove villeggiava la famiglia Olivetti.
Per terminare, con il senno di poi, Adriano ebbe ragione di imporsi con Camillo sui nuovi metodi di produzione. La spersonalizzazione del lavoro che pure ci fu, sarà ampiamente compensata dalle grandi risorse che saranno impiegate in tutte le iniziative olivettiane, i cui stabilimenti sono solo una parte rispetto alle grandi realizzazioni nel design, oggi in bella mostra al MoMa di New York: la Lettera 22 e le calcolatrici che hanno fatto la storia del design mondiale. E poi, l’editoria con le riviste di cultura industriale, gli autori mondiali d’avanguardia, per non parlare di quelle grandi chicche che furono le Agende Olivetti dove collaborarono i più grandi disegnatori e artisti grafici del mondo.
Nel 1960 Adriano muore. La Camelot eporediese sopravviverà solo per forza d’inerzia. Poi il lento declino di un’esperimento di cultura industriale quasi unico nel panorama mondiale.
Il tutto modestamente raccontato, vale ben l’esclusione delle colline del Prosecco!