Anna Lassonde (Detroit Lakes, Minnesota, USA) – Portrait of Health Care Workers
Siamo Esseri Sociali, non social
di Giovanna Casertano
Se c'è una cosa che questo Coronavirus ci ha insegnato, o meglio, che abbiamo scoperto anzi, ri-scoperto, è che l'uomo è un essere sociale, non social.
L'abbiamo finalmente capito, non durante il primo lockdown della pandemia, ma in questo periodo della nuova ondata.
Dalle mie parti si dice: “quando è per tutti è mezza festa”, quasi a voler sminuire un problema, a rassicurare noi stessi e gli altri che un male, una disgrazia, un evento funesto, non sono poi così gravi se vengono condivisi, ma che invece possono essere superati, se restiamo uniti.
Tutto, ne eravamo tutti convinti, sarebbe tornato alla normalità, quella normalità che per quanto non facile, era vivibile, sopportabile, affrontabile: una normalità, certo non senza problemi, ma che in fin dei conti accettavamo, perché ne eravamo quasi abituati.
L'ottimismo, l'unità e la vicinanza sociale virtuale sono state dunque, le parole d'ordine per superare il lockdown che ha accompagnato la grandissima crisi non solo sanitaria, ma anche economica che ha caratterizzato i primi mesi di quest'anno.
Incoraggiati allora dall'ottimismo, necessario e quasi istintivo, che come un tam tam si è propagato velocemente entrando nelle case e nei cuori di chiunque, abbiamo cantato e suonato dai balconi, disegnato arcobaleni su enormi striscioni; mentre attraverso i social abbiamo superato le distanze dagli affetti, dai congiunti; affrontato quel “ momento” triste, difficile, sofferente, insopportabile, percepito come una parentesi a cui reagire però con la filosofia del grande De Filippo ( ”Adda passà 'a nuttata”) e ci siamo messi a pubblicare e a condividere video, foto, pensieri ed opinioni, previsioni “positive” (passatemi il termine), sperando, augurandoci, anzi sicuri che prima o poi tutto questa emergenza inaspettata, quasi surreale, sarebbe finita.
In fin dei conti era solo questione di tempo! Così ci avevano detto, o così abbiamo voluto credere. E abbiamo aspettato …
Poi così è stato. Per un po'.
E allora ci siamo convinti che i sacrifici fatti, l'isolamento, la lontananza dai nostri cari, il distanziamento sociale, le sofferenze, il dolore per i tanti morti, il malessere generale ... fossero stati il prezzo da pagare affinché passasse a nuttata, per riappropriarci della nostra libertà, per tornare di nuovo, finalmente ad incontrarci, abbracciarci, parlarci, riunirci, sorridere e ridere dal vivo, di persona!
E invece, no! Quando eravamo ormai sicuri, che il virus fosse stato definitivamente sconfitto, o quasi, ecco che gradualmente e subdolamente, è tornato nelle nostre vite; si è insinuato nel nostro corpo e nostra mente, nel nostro quotidiano, minando e turbando di nuovo la nostra sicurezza la nostra serenità, ma soprattutto la nostra libertà.
Ci eravamo illusi? Ci avevano illuso?
Adesso, diversamente da prima, siamo terrorizzati da una curva di contagi sempre in salita e per ora inarrestabile, che torniamo a controllare con più ansia, ma siamo anche delusi e disorientati: non sappiamo più a cosa e a chi credere.
Complici del nostro attuale stato d'animo: la (dis)-informazione, la troppa o cattiva comunicazione dei giornalisti, opinionisti, delle istituzioni, della politica in generale, dei tanti, fin troppi, virologi, epidemiologi, psicologi, sociologi, veri o pseudo-tali … ottimisti, pessimisti, negazionisti, complottisti, razzisti ... e chi più ne ha più ne metta!
E di nuovo, soprattutto attraverso i social, tutto ora è più confuso e tutto passa e interpretato secondo la logica pirandelliana - “e come possiamo intenderci se nelle parole che io dico metto il senso e il valore che sono dentro di me; mentre che mi ascolta, inevitabilmente le assume con il senso e il valore che hanno per sé del mondo che gli è dentro?”- cerchiamo e troviamo risposte, le filtriamo a seconda di cosa vogliamo credere, per sentirci rassicurati, o peggio seminando panico ed allarmismi più o meno giustificati, ora più che mai, per sentirci presenti, visibili in una realtà in cui ci si sente sempre più trasparenti, isolati, esclusi, abbandonati a noi stessi e dove la paura del contagio è stata in parte sostituita dalle nostre stesse paure.
“E se guarderai nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te” (F. Nietzsche)
Durante questa nuova ondata ci siamo resi conto però, che essere più social, non significa essere più sociali, né liberi: telefonate, video, foto, chat, parole … non bastano più a sostituire la presenza fisica: il “contatto virtuale” non può sostituire le persone vere; sedersi davanti ad un pc, per studiare, lavorare, comunicare, magari amare non ci fa riappropriare dei nostri spazi e tempi vitali, dei rapporti umani.
Questa nuova ondata, ci ha colto di nuovo impreparati, ma anche stanchi, affranti e ormai, rassegnati al peggio. Stavolta l'ottimismo ha lasciato il posto al pessimismo e alla paura di non farcela: stiamo cercando comunque di reagire di nuovo, ma rispondiamo diversamente, soprattutto dal punto di vista emotivo, ognuno a proprio modo: dal negare l'esistenza del virus, all'infrangere regole imposte per sconfiggerlo, pur di riprenderci anche un minimo di libertà sottratto, del respiro che ci manca, della energia esaurita; all'allarmismo, spesso ingiustificato che va a sconvolgere ancor di più chi è stato pesantemente provato durante il precedente lockdown.
La sensazione è quella di come quando hai corso tanto per vincere una gara e ce l'hai messa tutta: entusiasmo, forza, stimoli, incoraggiamenti...pensando che una volta arrivato al traguardo tu abbia finalmente vinto. E ti possa finalmente riposare. E invece ecco che inaspettatamente devi rimetterti a correre, ma stavolta è più faticoso, perché hai esaurito le forze, ti manca lo stimolo e il coraggio, la paura ti frena e, convinto di non porcela fare di nuovo, vai avanti per inerzia, o peggio, ti lasci andare...
Le emozioni negative, che nella prima ondata della pandemia sono state in qualche modo contenute, controllate, gestite, sostituite e reindirizzate soprattutto verso il virtuale, stanno ora prendendo il posto della razionalità, del buon senso, della responsabilità e soprattutto della speranza, manifestandosi in diverse sfumature di reazioni e comportamenti, spesso imprevedibili in una situazioni di emergenza come questa, e più dannose dello stesso virus, specialmente in quei soggetti più fragili ed indifesi.
Se a tutto questo aggiungiamo la crisi economica, già non rosea, conseguente a quella sanitaria, va da sé che il senso della precarietà, della sfiducia nelle istituzioni, colpevole di non aver saputo prevedere e gestire la situazione, della impossibilità di programmare il futuro e in generale, la nostra vita, ma indirettamente anche quella degli altri, va ad amplificare il nostro malessere, i nostri timori, le nostre paure, trasformandole in situazioni patologiche con conseguenze disastrose: diffidenza verso il prossimo, stress, nervosismo, depressione, alienazione, pensieri catastrofici, suicidio ...
“E se guarderai nell'abisso, l'abisso guarderà dentro di te” (F. Nietzsche)
Siamo esseri sociali e la mancanza di socialità ci soffoca, ci reprime e ci deprime; mette a dura prova il nostro equilibrio psico-fisico. E vada per la mascherina, vada per lavarsi continuamente le mani e disinfettare tutto, ma il distanziamento sociale, anzi fisico, proprio non riusciamo ad accettarlo. Siamo fatti di mente, ma anche di corpo: attraverso il nostro fisico, esprimiamo e percepiamo emozioni, sensazioni; trasmettiamo pensieri e parole, malessere e benessere, interagiamo con gli altri: una stretta di mano, un abbraccio, un sorriso, il pianto, il suono della voce e delle voci, la vista, il tatto, l'odore delle persone, la sola presenza fisica di un amico ci fa sentire vivi, presenti in un mondo che è reale e che ci dice che anche noi siamo reali, che esistiamo.
Non ce ne eravamo accorti prima, ma quanto ci sono mancate queste piccole cose: piccoli gesti quotidiani che facevamo naturalmente, per istinto.
In tutto questo, i social, per quanto aiutino, non possono sostituire la realtà: questi contenitori, questi mezzi coi quali trasferiamo i nostri pensieri, le nostre opinioni, idee, ansie, paure e frustrazioni; attraverso i quali sfoghiamo la nostra rabbia per cercare un colpevole, un capro espiatorio, su cui scaricare le nostre sofferenze, pur di sentirci meglio, l'abbiamo capito, non sono efficaci. I social non sono la soluzione: continuiamo a sentirci soli, indifesi e impotenti di fronte a un nemico allo stesso tempo invisibile e tangibile, che da soli non possiamo affrontare.
Ne usciremo anche stavolta, sopravvivremo anche a questa pandemia, magari stravolti, provati, addolorati e se non più forti, probabilmente meno social, ma più sociali e più umani di prima.
Che poi è la stessa cosa.
Vorrei chiudere queste riflessioni con Seneca: “Anche se il timore avrà più argomenti, scegli la speranza.”
Per aspera ad astra!