Enrico Ganassi (Rondinara di Scandiano, RE, 1941 - ) - Settimo Paradiso - Varco verso la luce
In ricordo di Aldo
di Tito Giraudo
In quell’età che da bambini si diventa ragazzi, cambiai Colonia. Quell’anno, non so perché mi ritrovai in montagna. Un posto sconosciuto, per me che la montagna l’avevo vista solo a Campo, la terra dei miei avi materni.
Era una montagna più dura, diversa, un piatto fondo valle chiuso da una conca di montagne, al fondo, in alto, cadevano tre cascate, altissime. Ora tutto è famigliare ma allora, con gli occhi del bambino, era un posto magico.
Come magica era quell’Abazia che più tardi seppi rifugio notturno di Carlo Magno quando, dopo aver varcato l’Iseran e il Moncenisio, si apprestò raggiungere Roma non prima di aver sconfitto alle Chiuse della Dora i longobardi.
Allora, nulla sapevo di quei luoghi e di quelle storie.
Non andavo volentieri alle Colonie, mi mancava la mia mamma.
A Loano, si mangiava male e poi si soffriva la sete, una sete frammista alla noia di pomeriggi passati a giocare con le cinque pietre, o a fare bagni scanditi dal suono del fischietto che troppo presto ci richiamava alle ancor più noiose buche, dove si cercavano le pietre marine.
La Novalesa fu un’altra cosa.
Sarà stato perché la montagna mi era più familiare del mare, forse per l’età che mi stava consegnando alla scuola media, quella Colonia, in quel 1951, è rimasta nei miei ricordi. Oggi, nelle mie estate meanesi, quando vado verso il Moncenisio cerco sempre con gli occhi quella, che oggi non è più una colonia per ragazzi con il padre epurato, ma un museo, un cimelio di storia medioevale.
Fu alla Novalesa che divenni amico di Aldo. Era un bambino più alto di me, educato, diverso dagli altri, come me non attaccava briga, come me amava parlare. Ci raccontammo, io, naturalmente da quel mitomane che sono sempre stato, infiorai le mie storie. Lui sicuramente no. Era uno di cui ti potevi fidare.
Come sempre accade con gli amici delle colonie, ci perdemmo.
Erano tempi quelli, dove i ragazzi non pensavano di scambiarsi indirizzo, tantomeno telefono. Passarono quattro anni. I miei successi scolastici consigliarono a mio padre una scuola professionale, mi ritrovai al Centro Formazione Meccanici della Olivetti. A Ivrea.
Mio padre c’era stato dopo essere stato licenziato dalla Fiat per il suo impegno politico nel 19 del secolo scorso, compagno da socialista di Camillo fondatore della Olivetti, fu adottato da quella fabbrica ancora ferito in un agguato politico, per un anno montò e smontò la M1 fino a che lui, trovatello semianalfabeta, divenne il primo riparatore di macchine da scrivere a Torino.
Quel primo giorno mi ritrovai nell’officina della scuola con una tuta più grande di me, fu li che rividi Aldo, sempre più alto, elegante persino in tuta. Fummo felici di ritrovarci. Passarono pochi giorni e lui cambiò pensione venendo nella mia, su, dove c’è il castello di quell’Arduino che si credette Re d’Italia, con a fianco il Duomo romanico, conventi e seminari e quel vicolo, con al fondo la casa dove madre e figlia affittavano camere.
Aldo, era diventato un giovane elegante, sempre educato e diligente in quella scuola che invece vedeva me, distratto da tutto quella che la vita poteva promettermi. Lui era il primo in tutto, io l’ultimo. Stranamente Aldo aveva di me una grande considerazione, considerazione che gli fece digerire la mia uscita dalla scuola per incapacità al lavoro manuale. Lui invece superò tutto brillantemente, tanto che non gli fecero fare l’operaio specializzato ma diventare un perito meccanico.
Non è dei suoi successi e dei miei insuccessi che voglio parlare, io non ero geloso di lui e Aldo non si vergognava di me che ero finito alle preparazioni della MC24, la macchina da calcolo che fu un grande successo per l’azienda eporediese.
Ci frequentammo un paio di anni, non solo perché abitavamo insieme, ma perché a Torino il sabato e la domenica eravamo complici della dolce vita dei ragazzi degli anni cinquanta. Le vasche in via Roma, le sale da ballo. Io ballavo come un cane, lui era Fred Astaire.
Diventai amico di suo fratello Franco e di suo cugino. Un giorno Aldo mi raccontò che c’era un nuovo materiale, lo Skai che i suoi zii usavano per foderare i divani del mobilificio di famiglia. Ebbe un’idea incredibile, farsene dare un po’ di metri, portarli da un sarto per farci due impermeabili di similpelle bianchissima.
Quanto abbiamo “blagato” con quegli impermeabili che solo noi, a Torino, in Piemonte, in Italia e forse nel mondo, indossammo. A Ivrea, con quel capo mi appiopparono una nomea gaya. Al mio amico Aldo non capitò lo stesso, era credibile e affidabile anche quando trasgrediva.
Furono le morose che ci separarono, non so se la colpa fu per mia moglie oppure per la sua, entrambi ci siamo sposati una sola volta e giovanissimi. A pensarci bene le nostre ragazze avrebbero potuto benissimo diventare amiche, ma noi, con l’irruenza del primo grande amore ci perdemmo, senza strappi e purtroppo senza momentanei rimpianti. Non ci vedemmo e sentimmo più, quasi per una vita.
Io seppi che si era diplomato, lui probabilmente che facevo politica. Ci sono degli amici di gioventù che ricordi ma non vuoi rivedere. Aldo, ogni tanto entrava nei miei pensieri. Non avevo dubbi che avrebbe fatto carriera senza i miei alti e bassi, ma ognuno di noi è quello che è.
Quando la vita mi ha consegnata a un lavoro meno frenetico, lontano dalle follie politiche e poi dai cantieri e dai progetti alberghieri, ho iniziato a pensare ad Aldo.
Ogni volta che mi trovavo a Ivrea speravo di incontrarlo. Avevo cercato sull’elenco telefonico ma di Aldo non v’era traccia. Poi, un giorno su Face book vidi un cognome conosciuto, quello del cugino e finalmente potei sentirlo al telefono. C’incontrammo.
Eravamo due vecchietti, lui sempre alto, bello, ordinato e realizzato, con una bella casa, stessa bella moglie che avevo incontrata con lui tanti anni fa in via Roma, una figlia medico. Aveva fatto carriera diventando dirigente, cosa di cui non ho mai dubitato. Io, ho avuto un percorso più tortuoso.
Ci siamo raccontati e, ancora una volta, siamo stati reciprocamente felici dei suoi successi ma anche dei miei, se pur effimeri.
Non abbiamo fatto in tempo per quella cena con le nostre ragazze. Aldo mi disse che aveva da tempo un problema di salute. Per un po’ di tempo quando gli mandavo i miei articoli, mi rispondeva con il pollice del “mi piace”. Capivo che stava lottando e quindi voleva essere lasciato in pace, come avrei fatto io.
Mi hanno comunicato che ci ha lasciati. Sono sicuro che fino alla fine ha badato a non essere scomposto. Forse si è allontanato, là dove dicono ci sia una luce, in fondo a un tunnel con quell’impermeabile di Skai bianchissimo. Ciao Aldo.
Tito