L’ultimo viaggio di Giusi
di Tito Giraudo
Non voglio fare il necrologio del mio vecchio amico (e compagno) Giusi La Ganga, ho appena fatto pubblicare due miei articoli su due uomini rappresentativi del “caro estinto”: Filippo Turati e Pietro Nenni.
Volutamente ho appena sfiorato Bettino Craxi, non tanto perché non lo meritasse, quanto perché la sua epopea ha coinciso con il mio ritorno dalla politica professionale, alla vita normale.
Naturalmente parlo di me, per parlare di lui.
Giusi l’ho rivisto alcuni anni fa, il mio medico a cui avevo confessato il passato socialista, parlò di me con Giusi il quale mi mandò i suoi saluti che ricambiai, sempre tramite l’amico medico.
Telefonai a Giusi e ci incontrammo a casa sua, gli regalai il mio libro su Camillo Olivetti, mi propose di presentarlo al Circolo dei socialisti. In quell’occasione, fui molto sorpreso quando nel presentare il libro, disse che l’autore era stato il suo primo “mito” nel PSI.
Ho conosciuto Giusi il giorno in cui venne ad iscriversi alla Federazione Giovanile Socialista di cui allora ero segretario a mezzadria con l’impegno sindacale nella Fiom. L’essere un ex operaio e un sindacalista nel più importante sindacato italiano, era cosa commendevole in quegli anni per il Partito. Solo così mi spiego un giudizio tanto lusinghiero, quanto immeritato.
Credo che Giusi avesse appena finito il Liceo quando venne in Federazione; era un ragazzone alto e dinoccolato. Si inserì immediatamente nel Partito tanto che il nostro “papà” politico: Sergio Borgogno, un giorno mi disse che uno come Giusi occorreva farlo studiare da Segretario Nazionale del Partito. Si vide subito che aveva stoffa.
Fino alla mia uscita dal Partito, di cui francamente mi ero stufato perché il nuovo modo di fare politica non mi divertiva più, io e Giusi abbiamo sempre condivise le nostre posizioni che poi erano quelle di Sergio Borgogno, anche lui un ex operaio ma con una grande capacità di fare politica al di là delle sue collere che ogni tanto colpivano furiosamente, amici e nemici (per la verità più gli amici).
Parlo di Sergio perché le nostre scelte politiche da ragazzi furono le sue.
Quando facemmo la scelta Lombardiana, Sergio ci confessò che, incerto sul da farsi, lui che era stato un convinto autonomista si fosse recato da Nenni per esporgli il suo tormento. Il vecchio leader stette ad ascoltarlo per un po’, poi calò gli occhi sul giornale che aveva davanti. Borgogno girò sui tacchi e nel raccontarmi omise le frasi che probabilmente urlò.
Diventammo tutti Lombardiani, noi della FGS e del sindacato per primi.
La nascita della corrente Lombardiana fu, a mio parere, una iattura in un momento delicato della politica di Centro Sinistra. Il Partito dava vita all’ennesima divisione. Quelle di Riccardo erano posizioni radicali e giacobine che si scontravano con una realtà politica in cui, un relativamente piccolo Partito (almeno sul piano elettorale), tentava di portare aventi riforme socialiste senza tenere conto della realtà, non solo democristiana ma dello stesso Paese.
Borgogno, che era uomo di buon senso, preferì seguire la diaspora di Antonio Giolitti su posizioni più concilianti, ancora una volta io e Giusi, con lui. Va detto che il mentore di Sergio era: Detto Dal mastro, capo partigiano, massone e alto dirigente delle cartiere Burgo.
Tra le 20 e trentamila persone che parteciparono all’unificazione socialista del 1966, ci fummo anche io e Giusi, per la verità nel 66 lui mi aveva sostituito alla FGS e io, ormai nella segreteria della Fiom, feci il viaggio tra i sindacalisti socialisti torinesi. Quella che doveva essere una svolta positiva per il Partito (a cui per la verità ci opponemmo), si rivelò un’illusione, perché al di là della buona volontà di Nenni e Saragat, i due Partiti erano molto diversi. Noi eravamo un vecchio Partito ancora legato alle tradizioni, loro avevano supplito alla mancanza di iscritti aprendo le porte alle clientele che a quel tempo vagavano tra uno schieramento e l’altro, scegliendo i piccoli partiti con meno concorrenza interna.
Proprio le clientele snatureranno il vecchio PSI. Torino fu la cartina di tornasole del fenomeno. Aveva vissuto male la grande immigrazione, stentando di integrare quella massa di contadini meridionali di cui una parte erano diventati operai ma i più, sbandati, in una città che da una parte li discriminava e, dall’altra li usava come mano d’opera a basso costo. Perciò, come sempre succede, si formarono i clan che, nel nostro caso, fortunatamente furono politici e non mafiosi.
A noi “Giolittiani” si unì Giorgio Cardetti, anche lui come Giusi, intelligente e ambizioso. Era legato Giorgio a Michele Moretti un funzionario dell’INPS che aveva creato il Circolo lucano: Giustino Fortunato.
Il vecchio e sonnacchioso PSI, aveva avuto le sue bravi correnti, ma i congressi si erano sempre vinti, o persi, con i dibattiti in sezione. Improvvisamente non fu più così, perché fiorirono i signori delle tessere. Se non volevi soccombere, dovevi mangiare quella minestra. Io che ero sempre entrato negli organi dirigenti perché considerato (a torto) valido, a quel primo congresso me la cavai solo per la mia posizione di prestigio nel sindacato, non ricordo Giusi che in quel periodo era sotto l’ala protettrice dell’intellighenzia di sinistra di cui era la massima espressione: Umberto Bobbio che lo volle Segretario del Club Turati. Giusi uscì così dalla mischia e forse non ci sarebbe più entrato se i Bobbio e i Bocca non avessero fatto la scelta comunista (anche se mai dichiarata pubblicamente).
Noi Giolittiani, ci ritrovammo con Giorgio Cardetti e con i Lucani di Moretti. Erano stati la sinistra del PSDI e ora, erano con noi nella sinistra moderata di Giolitti. Scoprimmo che quei lucani erano in fondo delle brave persone, anche se le loro scelte politiche erano strettamente legate a quelle di Moretti. Ad ogni buon conto, sia io che Giusi quella minestra la mangiammo senza troppa fatica, anche forse con l’illusione della nostra presunta superiorità intellettuale.
Dal canto mio, persa la battaglia congressuale nella CGIL, il destino si preannunciava fosco. Nel 70 lasciai il Sindacato e per un paio di anni vivacchiai nel Partito e tra i Giolittiani. Dovevo trovarmi un lavoro normale e non pensai di sistemarmi nel Partito magari facendo il Consigliere Comunale di un Comune della cintura come fece Giusi che, più saggio di me, non volle buttare al vento anni di impegno politico.
Quando lasciai definitivamente il Partito, confessai a Giusi che mi spronava alla battaglia, che non ci credevo più. Quella era una politica che non mi divertiva e io nella vita non sono mai riuscito a fare scelte faticose o che non mi appassionassero.
Incontrai Giusi all’aeroporto una decina di anni dopo. Io andavo a Napoli dove avevo un cantiere, lui ormai era il leader torinese incontrastato e dirigente nazionale a Roma.
Mi prese in giro quando gli dissi che facevo il “Radicale”, io presi in giro lui che era costretto a mangiare una minestra per me indigeribile. Lo facemmo in tono scherzoso, sapendo che l’uno non doveva convincere l’altro. Ogni tanto avevo sue notizie da amici comuni che me lo descrivevano come il leader più somigliante a Bettino Craxi, evidentemente si era indurito e io preferivo ricordare l’omaccione intelligente e mansueto della nostra giovinezza.
Quando scoppiò “mani pulite”, pensai subito a Giusi e alla mia preveggenza. Al di là dei complotti politici e giudiziari, resto convinto che Craxi sbagliò l’approccio con il potere in quanto, prima di conquistarlo con il sottogoverno occorreva farlo con i voti. Tuttavia è evidente che la sua classe dirigente sia stata di prim’ordine e di cui Giusi fu uno degli archetipi.
Ho stimato il mio amico quando si è ritirato per leccarsi le ferite senza tradire il capo, cosa che ben pochi socialisti fecero e che abbia patteggiato per una tangente, lui responsabile del partito per gli Enti Locali, mi lascia del tutto indifferente. Quella era la minestra che tutti mangiavano, anche se solo uno ebbe il coraggio di dichiarare di essersi seduto al tavolo in cui da più tempo stazionavano tutti, PCI in testa, alla faccia della questione morale.
Quando ho rivisto Giusi mi ha raccontato del suo nuovo impegno nel PD. Ancora una volta dissentii, dicendogli che uno della sua statura non poteva essere in una compagnia di mezze calzette che a mala pena lo tolleravano. Ancora una volta mi rispose che quella era la politica e, se volevi farla, non dovevi andare troppo per il sottile. Forse aveva ragione lui.
Io però preferisco pensarlo come il ragazzo beniamino dei suoi professori, poco più che ventenne che dirige un’istituzione culturale. Una riserva indispensabile per una seconda Repubblica.
Buon viaggio amico Giusi.