Thomas Kinkade (Placerville, California, 1958 - 2012) - Flags Over the Capitol
Scelta del Presidente negli USA e assalto al Campidoglio
di Matteo Mazzoleni
Le recenti elezioni presidenziali americane hanno evidenziato, ancora una volta, le numerose peculiarità del sistema elettorale d’oltreoceano. Per comprenderle, occorre una corretta e approfondita analisi delle regole che governano la scelta del Presidente americano, avvenuta lo scorso 3 novembre e, come sempre, accompagnata da una copertura mediatica che ha pochissimi eguali: solo i Giochi olimpici e le grandi finali sportive implicano una tale attenzione da parte dell’informazione e suscitano le speranze di un numero paragonabile di simpatizzanti.
L’interesse massmediatico, com’è naturale, aumenta soprattutto in due situazioni: quando i candidati vengono considerati alla pari, dai più o meno affidabili sondaggi della vigilia, e quando la sfida coinvolge personaggi dal grande seguito o dal trascinante carisma (inteso come capacità di esercitare un forte ascendente sugli altri e di assumere, in questo caso, la funzione di guida della Nazione). Per certi versi, questo tratto non è ad esclusivo appannaggio delle Presidenziali americane, ma caratterizza tutte le votazioni in cui la sfida finale coinvolge unicamente due candidati (basti pensare al ballottaggio nelle Presidenziali francesi) o in cui solo due partiti possono realmente contendersi la vittoria (come nelle General Elections del Regno Unito). Ma del tutto priva di paragone con quanto accade nelle democrazie a noi più vicine, è la modalità di elezione del Presidente americano.
Il sistema di voto contempla regole peculiari, sia nelle modalità di espressione della preferenza, che nei tempi delle consultazioni. Da un punto di vista giuridico, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione degli Stati Uniti, per candidarsi alla carica di Presidente occorrono tre requisiti: essere nato in America, avere almeno 35 anni e risiedere sul suolo statunitense da almeno 14 anni. Accanto a questi titoli, si affianca la complessità di ottenere preferenze in un Paese di oltre 230 milioni di elettori, che si estende lungo sei fusi orari e che presenta profonde differenze, anche storiche, da Stato a Stato. Già queste peculiarità fanno intuire la necessità, per ogni candidato, di schierarsi come esponente di un partito, così da ottenere ingenti finanziamenti e un’adeguata presenza sul territorio e sui mezzi d’informazione, locali e nazionali.
Il sistema di elezione del Presidente (e del suo Vice), concepito nel 1787 e per larga parte rimasto inalterato, configura una vera e propria “corsa verso la Presidenza”, in cui il confronto finale tra due candidati è solo l’epilogo – trionfante o elegiaco – di una sfida che ha inizio almeno un anno prima. Al fine di individuare il proprio esponente alle elezioni di novembre, infatti, nei primi mesi dell’anno elettorale ogni partito organizza le primarie: si tratta di una competizione interna allo schieramento, che si svolge in date diverse in ognuno dei cinquanta Stati dell’Unione e che consente agli elettori di partecipare alla scelta del proprio rappresentante. Le primarie dei due maggiori partiti (quello Repubblicano e quello Democratico) sono seguite con particolare attenzione dalla stampa, ma lo stesso procedimento viene intrapreso anche da altri movimenti, quali il Partito libertario o il Partito verde, di minore consistenza numerica. Questa prima competizione vede sfidarsi tra loro – sia nei comizi, che nei dibattiti televisivi – gli esponenti di uno stesso partito, sovente accomunati da alcuni principi e ideali di fondo, ma anche espressione delle diversità sociali, economiche e religiose che caratterizzano i loro territori di provenienza. A partire dal mese di febbraio dell’anno elettorale, quindi, gli aspiranti alla nomination di ogni schieramento investono molte energie e risorse economiche per promuovere il proprio progetto politico e far conoscere in ogni Stato gli obiettivi che intendono raggiungere. A tal proposito, va evidenziato che alcune candidature possono essere considerate sostanzialmente simboliche: vi sono, infatti, dei candidati che già in partenza conoscono le difficoltà che comporta una lunga e dispendiosa campagna per le primarie, ma decidono ugualmente di intraprendere la sfida, per cercare di introdurre nel dibattito pubblico temi a loro cari. Così, negli ultimi anni, in entrambi gli schieramenti principali le elezioni primarie hanno visto la partecipazione di molti pretendenti, spesso senatori in carica o Governatori di Stati: questa iniziale frammentazione, tuttavia, tende a ridursi nel corso del primo mese di competizione, quando i candidati più in difficoltà si ritirano e consigliano ai propri sostenitori di convogliare i voti su alcuni degli altri esponenti, quelli a loro programmaticamente più vicini.
Le prime due tappe delle elezioni primarie hanno sempre luogo nel mese di febbraio, in Iowa e in New Hampshire, due degli Stati più piccoli e meno popolosi del Paese (hanno gli stessi abitanti di Roma e Milano, rispettivamente). Che tuttavia ogni quattro anni sono i protagonisti delle prime sfide e che, già a distanza di molti mesi dal giorno delle votazioni, vedono l’arrivo di tutti i candidati, sia repubblicani che democratici, che sfruttano le occasioni pubbliche per presentarsi ai cittadini. Emblematica, in tal senso, è l’elevata partecipazione alla fiera statale di Des Moines (in Iowa), che vede molti esponenti entrare in contatto per la prima volta con gli elettori, sullo sfondo di macchinari agricoli, grigliate e gare di tiro a segno, in pieno agosto. Infatti, nonostante si tratti di Stati poco rappresentativi della multietnica società americana, per i candidati è molto importante ottenere buoni risultati già nelle prime sfide statali, per accreditarsi anche a livello mediatico: difficilmente chi ottiene esiti negativi in queste prime sfide riuscirà poi a recuperare nelle successive, come dimostra il fatto che solo Bill Clinton nel 1992 e Joe Biden del 2020 sono riusciti a ottenere la nomination del partito senza vincere in nessuno dei due Stati menzionati.
La scelta di far svolgere le primarie dapprima negli Stati più piccoli viene da sempre interpretata come tributo alla c.d. America profonda, a quei territori cioè in cui sono ancora molto diffusi i valori fondanti e le tradizioni della Nazione. Quanto accennato spiega altresì una parte delle ragioni per cui la decisione di candidarsi deve essere meditata con largo anticipo, al fine di raccogliere consenso popolare e risorse finanziarie adeguate a sostenere la lunga campagna negli Stati. Infatti, limitando l’attenzione agli ultimi due Presidenti – cioè alle elezioni del 2016 e del 2020 –, si nota che l’annuncio della candidatura era avvenuto il 16 giugno 2015 per Donald Trump (alle primarie del Partito Repubblicano) e il 25 aprile 2019 per Joe Biden (a quelle del Partito Democratico): rispettivamente 17 e 19 mesi prima del giorno delle votazioni.
Nei due principali partiti formalmente le primarie si svolgono prima di ogni elezione: anche se il Presidente in carica ha deciso di ricandidarsi per un secondo mandato, infatti, deve necessariamente seguire questa procedura per ottenere nuovamente la nomination e il supporto del proprio partito (naturalmente, in questo caso, la sfida vedrà pochi contendenti). Quanto esposto evidenzia un ulteriore e rilevante dato politico: a differenza di quanto accade nelle democrazie europee (esclusa, forse, la Francia), negli Stati Uniti i principali esponenti delle forze politiche (segretari di partito o leader di coalizione, li chiameremmo in Italia) non sono, per ciò solo, candidati alla Presidenza. Le primarie consentono, così, di coinvolgere anche esponenti molto noti nei singoli Stati, ma ancora sconosciuti al Paese; in alcuni casi, poi, permettono anche la nomina di persone che non abbiano mai ricoperto incarichi politici (Eisenhower era un generale dell’esercito, Trump un imprenditore). Anche per queste ragioni, risulta più corretto definire i partiti americani come dei grandi comitati elettorali, che supportano l’elezione a Capo di Stato di un proprio esponente.
Nel corso dei mesi si svolgono le sfide in ogni Stato e, una volta terminate tutte le consultazioni, ogni partito conferisce la nomina al candidato che ha ottenuto più preferenze, impegnandosi a supportarlo nella competizione finale (che ha luogo, ogni quattro anni, il primo martedì dopo il primo lunedì di novembre). La scelta del vincitore, peraltro, non è affidata solo agli elettori dello schieramento, perché il partito mantiene il potere di attribuire liberamente una quota di voti ad un candidato: per quanto contenuta, tale componente può rivelarsi decisiva, nel caso in cui vi siano due esponenti che abbiano ottenuto una quantità di voti analoga nelle primarie.
Analizzando ora le regole sancite per le elezioni presidenziali, occorre evidenziarne alcune peculiarità. In primo luogo, il diritto di voto non è riconosciuto a tutti i cittadini americani: infatti, a differenza di quanto accade in molti altri Paesi, negli Stati Uniti la cittadinanza non attribuisce in automatico il diritto di eleggere il Presidente. Per poter votare, occorre una previa registrazione nelle liste elettorali del proprio Stato, prima di ogni elezione, come sancito dal National Voter Registration Act del 1993. Questa regola, introdotta a partire dagli Anni Venti, è stata concepita per responsabilizzare gli elettori a esercitare un voto consapevole, ma negli ultimi decenni è stata molto criticata per l’eccessiva complessità. In secondo luogo, gli elettori non devono necessariamente aspettare il giorno delle elezioni, poiché hanno anche la possibilità di votare in anticipo, di persona oppure ricorrendo al voto postale: quest’ultima modalità, nel 2020 è stata scelta da milioni di persone che, anche a causa dell’emergenza sanitaria, hanno deciso di non recarsi ai seggi. Gli Stati Uniti hanno dilatato i tempi delle votazioni per controbilanciare gli adempimenti di registrazione, che rendono l’accesso alle urne più complicato, specialmente per le persone meno istruite. Inoltre, va rammentato che il martedì delle elezioni è giorno feriale in tutto il Paese, tranne che nello Stato della Virginia: per poter recarsi ai seggi occorre quindi assentarsi dal lavoro e non sempre ciò è possibile.
Tuttavia, l’aspetto più complesso della legge elettorale americana è il sistema di voto adottato, di tipo indiretto. Per comprenderne meglio le peculiarità, è utile fare un confronto. Alle elezioni comunali italiane, gli elettori scelgono direttamente il Sindaco, perché i voti espressi vengono attribuiti direttamente alla persona del candidato: alla chiusura dei seggi, chi ha ottenuto più voti viene eletto. È quindi un sistema di elezione diretta, in cui i cittadini di un dato Comune – che formano il corpo elettorale – eleggono direttamente il titolare della carica, senza ulteriori passaggi intermedi. Così non accade negli Stati Uniti, che sono un Paese federale, in cui sono i singoli Stati a eleggere formalmente il Presidente, tramite dei propri delegati, chiamati grandi elettori. Ad ogni Stato è riconosciuto un numero di grandi elettori in proporzione agli abitanti: nello specifico, il numero di delegati corrisponde alla somma del numero di rappresentanti[1] e senatori[2] che lo Stato elegge al Congresso nazionale. Ad esempio, al Texas sono riconosciuti 38 grandi elettori (l’equivalente della somma tra i 36 rappresentanti e i due senatori), mentre la California ne conta ben 55 (al Congresso ha infatti 53 rappresentanti e due senatori); all’opposto, vi sono Alaska, Delaware, Distretto di Columbia, Montana, Nord e Sud Dakota, Vermont e Wyoming, con solo tre grandi elettori ciascuno. Pertanto, l’obiettivo dei candidati è quello di vincere negli Stati più popolosi, che mettono in palio più delegati. In totale i grandi elettori sono 538: quindi, per diventare Presidente, occorre conquistarne la maggioranza, ossia almeno 270.
Come anticipato, il sistema di voto è indiretto, perché i cittadini non hanno la possibilità di eleggere direttamente il Presidente (e il Vicepresidente), ma hanno il compito di scegliere i grandi elettori del proprio Stato, cui spetterà concretamente procedere all’elezione, in un secondo momento. I cittadini, infatti, esprimendo il proprio voto per un candidato Presidente (Trump, Biden, ecc.), in realtà, attribuiscono la preferenza non al candidato medesimo, bensì alla lista di grandi elettori che lo sostiene. Ad ogni candidato alla Presidenza è quindi collegata una lista di persone diverse in ogni Stato ed è per questo motivo che, sulla scheda elettorale, è talvolta riportato anche il nome dei delegati di ogni candidato.
Inoltre, la legge elettorale è maggioritaria (ispirata al principio winner takes all): pertanto, il candidato Presidente che riceve la maggioranza dei voti in uno Stato, ottiene tutti i grandi elettori messi in palio. I delegati non sono quindi ripartiti proporzionalmente tra i candidati[3], ma vengono attribuiti in toto al primo classificato, anche se con uno scarto minimo di voti rispetto al secondo. Si tratta di un’altra peculiarità del sistema elettorale che, di fatto, conduce i partiti a non spendere risorse ed energie in quegli Stati in cui sanno di non avere chance di vittoria, perché la legge non riconoscerà loro alcun delegato. Concretamente, dunque, vi sono Stati che già in partenza assicurano la vittoria al candidato repubblicano e altri al candidato democratico: la vera competizione si svolgerà solo in pochi Stati, quelli in cui nessun partito ha un consenso così ampio da poter essere sicuro di vincere e in cui gli elettori tendono a scegliere di volta in volta l’esponente più convincente (i c.d. swing o battleground states). Storicamente, alcuni Stati hanno sempre avuto questo ruolo: la Florida, l’Ohio, più di recente il Colorado e la Pennsylvania.
Il sistema di voto indiretto, ricorrendo alla figura dei delegati, crea delle possibili storture. In primo luogo, la legge prevede che siano i grandi elettori ad eleggere in concreto il Presidente, senza tuttavia imporre loro un obbligo di rispettare il voto espresso dai cittadini. Tale peculiarità, teoricamente, può anche portare ad un ribaltamento dell’esito del voto popolare. Da un punto di vista giuridico, infatti, i grandi elettori, in occasione delle Presidenziali, hanno l’opportunità di non trasferire i voti al candidato Presidente per il quale si sono spesi in campagna elettorale e di convogliarli su un altro esponente (vengono definiti faithless electors). Ma si tratta di un’eventualità che raramente si è verificata e che ha avuto, in ogni caso, una portata molto circoscritta: «infatti, in oltre due secoli di elezioni presidenziali, tra il 1789 e il 2016, si sono registrati nel complesso appena 167 episodi, su un totale di oltre 21.000 voti espressi dai grandi elettori»[4].
In secondo luogo, a date condizioni, un candidato può ottenere i 270 grandi elettori e, al contempo, aver ricevuto meno voti popolari assoluti. Si tratta di un aspetto che appare controintuitivo – anche perché non può verificarsi nei sistemi proporzionali, in cui i seggi vengono attribuiti in proporzione ai voti ottenuti –, ma che allo stesso tempo trova una spiegazione giuridica ben precisa nel sistema elettorale adottato, di tipo maggioritario[5]. Come detto, infatti, i delegati di ogni Stato vengono attribuiti a chi ottiene più voti, senza che assuma rilevanza la dimensione della vittoria. Così, immaginando tre Stati che mettano in palio 10 delegati ciascuno, un candidato può vincere in due di questi con uno scarto minimo (51% a 49%) e perdere nettamente nel terzo (30% a 70%): pur avendo perso nel conteggio dei voti assoluti, il candidato avrà ottenuto 20 grandi elettori su 30. Pertanto, la dimensione della vittoria è del tutto irrilevante, perché la legge elettorale premia – e premia soltanto – chi arriva primo in un territorio, anche con un vantaggio di un solo voto. Questa possibile discrasia tra voto popolare e voto dei grandi elettori, ovviamente, era nota ai Padri fondatori, che nondimeno hanno adottato questo sistema per tutelare gli Stati più piccoli dell’Unione (ancora una volta, l’America profonda), evitando che quelli più popolosi potessero avere da soli un peso determinante. L’obiettivo di ogni candidato, pertanto, non è quello di ottenere la maggioranza dei voti dei cittadini (potrebbe non bastare), bensì di vincere in un numero di Stati sufficiente a guadagnare la maggioranza dei grandi elettori, cioè almeno 270. In ogni caso, tale difformità si è verificata solamente in cinque occasioni nella storia: nel 1824, nel 1876, nel 1888 e, più di recente, nel 2000 e nel 2016. Proprio queste ultime elezioni sono state accompagnate da forti proteste[6] e da spinte a modificare il sistema di elezione, data la portata del divario tra voti e delegati[7]: nel primo caso, infatti, divenne Presidente George W. Bush, nonostante lo sfidante Al Gore avesse ottenuto 500 mila voti assoluti in più (48,4% vs 47,9%); la seconda elezione ha invece portato alla Casa Bianca Donald Trump, vincente nella sfida dei grandi elettori, ma sconfitto da Hillary Clinton di ben 3 milioni di voti (48,2% vs 46,1%). Analizzando nel complesso le cinque elezioni ricordate, bisogna sottolineare come si sia trattato di consultazioni particolari, avvenute in periodi di incertezza economica o di forte contrasto tra i partiti, accompagnate da una reciproca delegittimazione dei candidati che ha così creato una forte contrapposizione anche tra gli elettori. E va altresì evidenziato come solo in un caso (nel 2004), il Presidente abbia ottenuto la riconferma nelle successive elezioni: secondo una lettura[8], sarebbe l’esempio di come «a questa intrinseca debolezza rappresentativa della democrazia americana supplisce l’alternanza al potere».
Per quanto possa apparire macchinoso e obsoleto, il meccanismo del voto indiretto non è affatto sconosciuto in Europa. Infatti, il nostro Presidente della Repubblica, così come il suo omologo tedesco, sono scelti proprio con questo sistema. Così, l’Italia e la Germania sono repubbliche parlamentari, in cui i cittadini elettori (ossia il corpo elettorale) eleggono i propri rappresentanti in Parlamento alla carica di deputato e senatore; sarà poi compito di questi ultimi eleggere il Capo dello Stato. Questo confronto evidenzia già due sostanziali differenze rispetto agli Stati Uniti: in primo luogo, nel nostro ordinamento, i parlamentari, titolari del potere legislativo per tutta la durata della legislatura, costituiscono anche il corpo elettorale che dovrà procedere all’elezione del Presidente. Al contrario, nel procedimento americano, i parlamentari non hanno un ruolo attivo, che è invece riconosciuto ai delegati/grandi elettori, il cui compito si sostanzia e si esaurisce in questa funzione: rappresentare in uno Stato federato un candidato Presidente, riceverne i voti a livello locale, per poi convogliarli sul candidato medesimo in altra sede (rispetto alle elezioni primarie, la votazione di secondo grado avrà luogo alle conventions nazionali dei partiti, che si tengono in estate, mentre per le elezioni Presidenziali ciò avverrà qualche settimana dopo il voto, nel mese di dicembre). Essi si configurano, quindi, come un corpo elettorale a sé stante, chiamato Collegio elettorale, privo di altre funzioni.
Ma soprattutto, in Italia come in Germania, il voto indiretto è stato configurato per agevolare (e, in qualche misura, imporre) il dialogo tra le forze politiche, chiamate a convergere su personalità condivise per dare al Paese una figura di garanzia e di equilibrio istituzionale che, da un lato, abbia limitati poteri esecutivi, ma che, dall’altro, eserciti una funzione di rappresentanza della Repubblica, svincolata dalle mutevoli maggioranze di governo: è per questo che, in entrambi i Paesi citati, il mandato presidenziale ha durata superiore rispetto a quella della legislatura. Al contrario, il Presidente degli Stati Uniti è espressione della contrapposizione tra (due soli) partiti[9] ed esercita rilevantissime funzioni di governo – tanto che l’istituzione è stata definita presidenza imperiale[10] – poiché emana ordini esecutivi e nomina giudici e migliaia di funzionari, attraverso il meccanismo dello spoils system, anche in assenza di una maggioranza parlamentare che lo sostenga[11]. La mancanza della necessità di tale sostegno è comune anche al Presidente francese, con la rilevante differenza, tuttavia, che quest’ultimo è eletto direttamente e nomina un governo, che deve avere il sostegno del Parlamento (si tratta della differenza tra Repubblica presidenziale e semi-presidenziale).
Il sorprendente esito del 2016 ha influenzato le elezioni del 2020, che hanno visto la partecipazione di quasi 160 milioni di persone (affluenza pari al 67%, un dato che non veniva raggiunto da oltre un secolo), di cui ben 103 hanno fatto ricorso all’early voting. Tale modalità di voto è così entrata nella battaglia delle opposte narrazioni dei candidati alla presidenza: considerate da Biden come un’opportunità per far svolgere le elezioni in maniera più ordinata, evitando di portare troppe persone ai seggi nei durissimi mesi di pandemia, sono state invece avversate dal Presidente in carica, come strumento poco sicuro e facilmente manipolabile. Tale conflitto è apparso in tutta la sua violenza negli scorsi mesi, in occasione degli scontri tra manifestanti e dell’irruzione al Congresso di alcuni sostenitori delle teorie del complotto, al fine di interrompere la certificazione dei risultati definitivi. Senza dimenticare un altro tema fondamentale, spesso sottovalutato: il ruolo delle piattaforme online e la neutralità della rete. Più di ogni altra cosa, i numerosi episodi hanno messo in evidenza l’importanza di mantenere alcune prassi virtuose, quali la concessione della vittoria altrui e la collaborazione nel periodo di transizione tra un Presidente e il suo successore. Tali regole, infatti, proprio in quanto non codificate, hanno sempre permesso la continuità istituzionale, nonostante l’aspra contrapposizione tra candidati.
[1] La Camera dei Rappresentanti è composta da 435 membri, il cui mandato dura due anni. Ogni Stato elegge un numero di rappresentanti in base alla propria popolazione: a più abitanti, corrispondono più rappresentanti da eleggere. Per potersi candidare, è necessaria la cittadinanza da almeno sette anni, aver compiuto i 25 anni e risiedere nello Stato per il quale ci si candida.
[2] Il Senato è composto da 100 membri (due per ogni Stato), il cui mandato dura sei anni. Per potersi candidare, è necessaria la cittadinanza da almeno nove anni, aver compiuto i 30 anni e risiedere nello Stato per il quale ci si candida.
[3] Ciò avviene unicamente negli Stati del Maine e del Nebraska.
[4] S. LUCONI, La corsa alla Casa Bianca. Come si elegge il Presidente degli Stati Uniti, dalle primarie dei partiti al voto di novembre, Firenze, 2020.
[5] Infatti, tale risultato si è verificato anche nel Regno Unito (alle elezioni del 1929, 1951 e 1974), Paese che adotta il sistema elettorale maggioritario c.d. plurality. Per approfondire, cfr. D. BUTLER - D. KAVANAGH, The British General Election of February 1974, Londra, 1974; R. D’ALIMONTE, Riforma elettorale in versione Tory?, in www.ilsole24ore.com, 7.5.2010.
[6] «Contrariamente all’esperienza britannica, infatti, in precedenza negli USA il sistema di voto plurality non era mai stato messo in discussione a livello federale», Cfr. A. RACCA, I sistemi elettorali sotto la lente costituzionale, Milano, 2018, 20-21. Cfr. S. FABBRINI, USA: maggioritario e sistema di governo presidenziale, in O. MASSARI - G. PASQUINO (a cura di), Rappresentare e governare, Bologna, 1994, p. 57.
[7] A tali contestazioni, tuttavia, non sono seguite concrete proposte di riforma. I Parlamenti di ogni singolo Stato possono regolare liberamente la propria legislazione elettorale: ciononostante, nel 2020 si è votato con le medesime regole degli anni precedenti, a riprova del sostegno complessivo che tale sistema vanta ancora oggi in America.
[8] S. CASSESE, Trump e i paradossi del voto popolare, in www.corriere.it, 13.11.2016.
[9] Alle elezioni del 2016 si presentarono, in totale, ben 28 candidati alla Presidenza.
[10] A. M. SCHLESINGER, The Imperial Presidency, Boston, 1973.
[11] B. ACKERMAN, Tutti i poteri del Presidente. Declino e caduta della Repubblica americana, Bologna, 2012.