A Vanvera (22) (trumpizzati)
di Massimo Biondi
Populismo
Populismo è ormai diventata la classificazione di partiti persone e situazioni che è difficile collocare all’interno delle categorie classiche destra e sinistra. È un limite lessicale che ne svela uno culturale. È come se non riuscissimo ad affrancarci dai canoni interpretativi con i quali siamo cresciuti, quelli del ‘900.
È chiamato populismo infatti tanto l’essere contrari al sistema vigente quanto proporre provvedimenti di chiaro interesse popolare, cioè di interesse di una maggioranza della popolazione.
Ecco allora che anche l’attribuzione a Trump della qualifica di populista più che sbagliata è priva di significato. Forse con Trump si dovrebbe inaugurare la categoria dl pragmatismo.
Wait and see
Personalmente non sono terrorizzato da Trump. Non ancora almeno. Temo maggiormente la pochezza professionale di uno Junker e di tanti altri che conosciamo già.
Anche del cabinet di Trump sappiamo ancora poco. Vedremo di chi si circonderà e poi vedremo costoro come si comporteranno. Aspettiamo.
Per ora abbiamo solo capito che Trump in campagna elettorale ha toccato i tasti giusti. Quelli che in funzione del risultato la gente colloca nella testa o nella pancia degli elettori: barriere doganali per difendere il lavoro americano; barriere fisiche e legali contro l’immigrazione; abbassare le tasse; ridimensionare la sanità pubblica (Obamacare) rendendola meno costosa; non spendere dollari per difendere gli alleati: che spendano loro; andare d’accordo con tutti nel mondo. Pacem in terris, se sapesse cos’è.
Adesso approfondirà e scoprirà che non tutto è così semplice come dirlo; accetterà qualche compromesso; accantonerà qualche idea e probabilmente l’America e il mondo andranno avanti come prima, cioè maluccio.
Hillary ha perso
Lo stupore, più della sconfitta dei sondaggisti, a me deriva da quanti – politici, analisti e commentatori professionali – hanno smussato gli angoli. La palese preferenza per Hillary dei grandi giornali americani, e anche italiani, è sfumata già nelle prime ore, dense in critiche alla sconfitta: espressione dell’establishment; campagna elettorale troppo tradizionale; atteggiamenti poco spontanei; eccessiva enfasi sui rapporti Trump-Putin; petulante richiamo al voto di genere.
Clinton ha avuto più voti popolari di Trump, in realtà; poi ciascuno è libero di costruire ipotesi a piacimento, ma non è stata catastrofica la sua sconfitta. Una non vittoria, direbbe Bersani.
Bla bla bla
Dotte analisi nei giornali italiani su pregi (adesso qualcuno ne ha trovati) e difetti della “Trumpnomic”, orrendo modo di definire la politica economica di Trump. Presunta, naturalmente.
Calcoli. Come crescerà il debito pubblico USA; tassi; posti di lavoro; export; dollaro; PIL. Sanno tutto. Tutto previsto. Che bravi!
E pensare che quell’ignorantone di Trump non legge i giornali italiani.
Stravagante poi la considerazione che Trump, secondo i fantasiosi analisti, avrebbe in mente una politica di impronta keynesiana, finora bandiera della sinistra. Che praticata da lui diventa di destra, sempre causa schiavitù intellettuale verso le classificazioni storiche: destra o sinistra. Di lì non si esce: tertium non datur.
Tertium datur, forse
E invece forse un tertium c’è.
Come già abbiamo visto nel voto per Brexit si registra una bella differenza di risultato tra il voto delle grandi città e quello dei centri di provincia. A Londra Brexit sarebbe stata nettamente sconfitta e negli USA Clinton nelle grandi città avrebbe vinto. E ora è nelle città che si scatena la poco comprensibile protesta contro Trump.
Probabilmente questo ha qualcosa a che fare con il divario di offerta tra città e provincia, che va aumentando un po' dovunque in termini di opportunità di lavoro, reddito e servizi disponibili.
Bisognerà ripensarci. New York non è l’America, come ha scritto il New York Times. Il mondo sta andando in città, un fenomeno che si registra in Cina quanto in Africa. Il PIL si fa in città.
Post-verità
Con le presidenziali USA 2016 è stato rispolverato, come coniato a nuovo, il termine “post-verità”, che Oxford Dictionaries ha scelto come parola internazionale dell’anno, in lingua inglese, emersa prima nel voto per Brexit e poi nelle elezioni USA.
La definizione è attribuibile secondo Oxford Dictionaries alle circostanze nelle quali i fatti oggettivi hanno meno influenza dei richiami emotivi nell’orientare l’opinione pubblica. I richiami emotivi, va notato, sono quelli che proviamo decine o centinaia di volte al giorno vedendo una persona o un’immagine, sentendo una musica o un profumo. Sono naturalmente ricercatissimi dai pubblicitari, che se riescono a creare un richiamo emotivo nel target di riferimento sono a buon punto nel loro lavoro.
Oxford Dictionaries ha scelto post-truth come parola dell’anno dopo la constatazione che nella campagna presidenziale USA le notizie false diffuse via social network sono state più numerose di quelle vere.
Non so se post-verità sarà un termine usato anche in italiano. Forse no. Però la campagna referendaria italiana ha un contenuto di post verità – ma chiamiamole bufale - come forse mai si è verificato in politica prima d’ora. Ma che temo crescerà in futuro.
I grotteschi
Ormai è chiaro che oltre alla riformista alla massimalista e ad altre sfaccettature c’è anche una sinistra grottesca in Italia. È quella convinta che se invece di Clinton il candidato democratico fosse stato Sanders avrebbe stravinto. Il primo socialista presidente degli Stati Uniti, figuriamoci! Quello, in fondo, al quale è stata preferita la pur poco gradita Clinton.
È umanamente penoso constatare come per alcuni le idee restino immutabili nei decenni, come gli amici di donna Prassede. Per quanto la realtà cambi e si incarichi di smentirli loro restano avvinghiati al loro mondo.
Ma non tutti i grotteschi stanno a sinistra. Non da meno quelli esultanti per la vittoria di Trump quanto lo furono per quella di Tsipras.
È il vantaggio di chi di idee politiche non ne ha nessuna.
Pensierini
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