Marcello Dudovich (Trieste, 1878 - Milano, 1962) - Olivetti Typewriter (1926)
Gianni Di Quattro, gentiluomo dell'Olivetti
di Fabio Macaluso
Gianni Di Quattro è un personaggio raro, siciliano per nascita e passione, fattosi milanese per scelta e occasione.
Ha svolto gran parte della sua vita lavorativa nell’Olivetti occupandosi di mercato in varie posizioni e in differenti paesi.
Con la liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni, nella seconda metà degli anni Novanta, ha realizzato un’esperienza editoriale importante, producendo e distribuendo Beltel, un magazine colto e con una forma grafica intelligente, che serviva ad aprire dibattiti sul mondo della tecnologia. Chiusa quell’esperienza, ha co-fondato con Pietro Bordoli la rivista online Nel Futuro, sui metodi di comunicazione politici ed economici e l’innovazione.
Chi lo conosce bene, sa che la vita di Gianni Di Quattro è stata dominata da sentimenti, emozioni nostalgie, rimpianti, grandi affetti e delusioni. Non è mai stato capace di essere freddo, cinico, di programmare, di lottare per un traguardo di successo, perché non ha mai amato la competitività.
Ma rimane un testimone e attento narratore dell’esperienza imprenditoriale più innovativa del nostro paese, costituita dalla nascita e dallo sviluppo dell’Olivetti, azienda mito del XX secolo e portatrice di un’irripetibile cultura economica e sociale.
E mentre questa storia viene raccontata in una grande e bellissima mostra alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, è utile approfondire il tema con questo uomo di saggia “pigrizia”.
Gianni Di Quattro, com’è nata la sua esperienza in Olivetti?
Ho cominciato a lavorare in Olivetti nel 1957, dopo un primo colloquio con Furio Colombo e un secondo e bellissimo incontro con Ottiero Ottieri. Prima di entrarvi avevo già conosciuto e ne ero rimasto affascinato il mito di Adriano Olivetti e della sua casa editrice Comunità anche perché come universitario impegnato politicamente, allora nell’UGI, avevo insieme agli amici frequenti contatti con quella casa editrice che ci regalava libri, segnalazioni e riviste. Quando sono stato assunto ero nella vendita, partendo dai livelli più bassi come si usava per tutti nell’azienda, ma si percepiva come certe idee di Adriano erano diffuse a tutti i livelli e si notava subito lo stile diverso da qualsiasi altra azienda italiana. L’azienda era diversa nello stile dei capi, nel modo di trattare il personale, nella bellezza di ciò che la riguardava, i prodotti, i locali, la documentazione, tutto. Il settore commerciale era stato appena riorganizzato ed era gestito da uno degli uomini più vicini ad Adriano e che ha avuto una grandissima importanza nello sviluppo dell’azienda e cioè Ugo Galassi. A questi si deve la riforma della struttura commerciale italiana (un riferimento anche per tutte le consociate estere) e lo sviluppo delle attività di formazione con la creazione, per primi in Italia, della scuola di formazione interna in un’azienda. Il successo di Olivetti nasce in gran parte dal lavoro di Ugo Galassi, così come sul piano tecnico di Natale Cappellaro, il famoso progettista della Divisumma 24.
Facciamo un passo indietro. Camillo Olivetti, il fondatore della fabbrica, era un ingegnere industriale con grande inventiva e capacità manuale. Andava nelle linee di produzione e componeva con gli operai le macchine da scrivere. E aveva la qualità di trasformare le intuizioni tecniche in prodotti. La storia dell’azienda era un valore condiviso tra chi, come lei, la raggiunse negli anni Cinquanta?
La storia dell’impresa era un valore assolutamente condiviso. Il ritratto di Camillo era in tutti gli uffici centrali e periferici dell’azienda. Nel 1958, in occasione del cinquantenario dell’azienda, fu distribuito a tutti i dipendenti un libro con la storia dell’azienda e del suo fondatore. E poi se ne parlava, si raccontava.
Adriano inizia a dirigere Olivetti già negli anni Trenta e diviene un grande capoazienda. Sulla divisione del lavoro aveva le idee chiare. Riporto un suo pensiero: “Ogni soluzione che non desse esclusiva autorità e responsabilità a uomini di altissima preparazione è da considerarsi un inganno. L’operaio direttore di fabbrica è un romantico ma anacronistico ricordo dei primi tempi della rivoluzione sovietica, mentre l’operaio membro di un consiglio di amministrazione è una tragica finzione retorica della repubblica sociale fascista”. Non sembra il sognatore raccontato in infinite occasioni.
Adriano, secondo il mio parere, aveva una sua visione della società e della fabbrica e soprattutto del suo legame con il territorio. Era interessato allo sviluppo culturale degli operai, pensava che più erano consapevoli più sarebbero stati legati alla impresa e al lavoro, considerava il bene di tutto il personale un patrimonio aziendale, ma considerava anche il merito e il talento, la preparazione e la professionalità indispensabili per guidare qualsiasi attività. Amava la cultura e allo stesso modo l’organizzazione. Adriano impiegava molto del suo tempo a selezionare le persone e studiava tutti quelli che incontrava in ogni occasione, pensava che la capacità e la cultura erano fattori di sviluppo importante per una azienda. Non era un sognatore anche se la sua visione della società era un’utopia.
Tuttavia, Cesare Musatti diceva che Adriano era un matto. Forse è più giusto dire che avesse visione. Fu uno dei primi industriali al mondo a capire l’importanza del design di prodotto, dell’immagine pubblicitaria e dei negozi. Steve Jobs raccolse integralmente quella lezione.
È vero, Adriano poteva essere considerato matto per i tempi, come diceva Cesare Musatti. Considerava la bellezza un modo di essere dell’uomo e una sua aspirazione, diceva che non era deciso da nessuno che una macchina per scrivere dovesse essere brutta, nera e pesante. E dimostrava che non era necessario far lavorare gli operai in stabilimenti tetri e chiusi, senza luce esterna e dove il lavoro poteva essere una maledizione. Gli stabilimenti Olivetti sono stati non solo esempi urbanistici di grande valore, ma sono stati i primi nel mondo che hanno disegnato una modernità e hanno rappresentato una grande scuola. Ed è vero che Steve Jobs studiò a lungo l’Olivetti che visitò molte volte e parlò spesso con i designer dell’azienda (soprattutto con Mario Bellini) e non a caso sono state fatti dei paralleli tra lui e Adriano Olivetti. Seppur tenendo conto di epoche e contesti diversi, entrambi avevano una visione e una utopia che li guidava.
Quando Adriano morì, nel febbraio del 1960, l’azienda è fortemente posizionata nella meccanica (si era anche espansa con l’acquisto della Underwood, fabbrica statunitense di macchine da scrivere) ed era concentrata sull’elettronica, anche su impulso di un ingegnere geniale come Mario Tchou: nel 1959 viene presentato il calcolatore a transistor Elea 9003, disegnato da Ettore Sottsass. Qual era la strategia complessiva dell’azienda?
Quando Adriano morì, l’azienda era certamente posizionata sulla meccanica. Ma esisteva una Divisione Elettronica che riuniva le esperienze del Laboratorio di Ricerche e della Produzione diretto da Mario Tchou, che poi morirà prematuramente l’anno successivo, e di Olivetti Bull, di cui la nostra azienda deteneva una partecipazione del 50%, aveva in pochi anni acquisito oltre 700 impianti a schede perforate sul mercato, un successo di grandi proporzioni. Il responsabile di tutta la Divisione era Ottorino Beltrami ed Elserino Piol era il Direttore Commerciale. La strategia era chiara a tutti quelli che vi lavoravano, non al resto dell’azienda e forse neanche all’establishment eporediese che sin dall’inizio ha guardato con sospetto agli investimenti elettronici dell’azienda (in sintonia con i membri della famiglia azionisti). In altri termini Adriano, supportato dal figlio Roberto, che in questa vicenda ha avuto un ruolo di primo piano, da una parte aveva investito nello sviluppo e nella ricerca e dall’altra operava sul mercato insieme a una delle più grandi imprese europee del settore, appunto la Bull, allo scopo di acquisire esperienza, clienti e preparare un management e un personale concentrato sul futuro.
Alla morte di Adriano, l’Olivetti è finanziariamente molto fragile, con la famiglia e l’azienda fortemente indebitate, anche se non vi fu mai una vera crisi di prodotto. Come ha vissuto le dinamiche che portarono al trasferimento dell’azienda al “gruppo di intervento”, guidato dalle banche di interesse pubblico e da aziende come la Fiat, e alla sua uscita dall’elettronica?
La morte di Adriano certamente cambiò tutto lo scenario. L’Olivetti era impegnata con tanti investimenti, quello sull’elettronica che non dava ancora utili ma al contrario assorbiva risorse e quello per l’acquisizione della Underwood americana, un’azienda che si rivelò non salvabile e che fu considerata e il cui acquisto fu considerata un’azzardata operazione imprenditoriale di Adriano, fatta quasi esclusivamente per scopi sentimentali perché Underwood era l’azienda che il padre Camillo aveva studiato prima di avviare la sua impresa e lui stesso aveva visitato anche prima di prendere il comando in Olivetti. Quando nel 1964 fu formalizzata la vendita della Divisione Elettronica alla General Electric, tutto il personale dell’Olivetti tirò un sospiro di sollievo pensando di essersi liberati di un costo e di una prospettiva dubbia, mentre il personale della stessa Divisione Elettronica fu contento perché si capiva che l’azienda non avrebbe potuto più finanziare l’operazione e la General Electric arrivava con grandi pretese e intenzioni, che poi furono frustrate perché in breve vendette il comparto alla Honeywell. Quello che ancora oggi lascia molto perplessi è che nessun sindacalista sollevò il problema e che in Parlamento non ci fu alcuna interrogazione parlamentare da parte di nessun esponente di ogni partito.
Si apre una lunga fase di un’“azienda senza imprenditore” come ha scritto Paolo Bricco. Ma è questa l’azienda che torna dove doveva tornare, ovvero all’elettronica, con personaggi geniali come Roberto Olivetti e Piergiorgio Perotto. La nascita del primo elaboratore da tavolo Programma 101 mette l’Olivetti all’avanguardia dell’elettronica. Avevate coscienza e ragione di questa leadership?
Il periodo dal 1960 al 1964 fu vissuto con molta apprensione da tutti. Nel 1962 Roberto Olivetti divenne amministratore delegato, ma dovette rassegnare le dimissioni un paio di anni dopo quando arrivò il gruppo di intervento che nominò Bruno Visentini presidente e Aurelio Peccei amministratore delegato. Roberto dopo la vendita alla General Electric della Divisione Elettronica riuscì a trattenere nell’Olivetti il gruppo di ricerca che faceva capo a Piergiorgio Perotto, uomo chiave nel futuro dell’azienda sia per la progettazione della Programma 101, il primo personal computer al mondo e talmente innovativo che non fu pienamente capito nemmeno dalla stessa organizzazione Olivetti, e sia per la successiva trasformazione dalla meccanica verso l’elettronica dopo attuata con la direzione di Ottorino Beltrami e con l'importante apporto di Marisa Bellisario.
In questo momento si affaccia un altro rilevante personaggio: Elserino Piol viene chiamato a lanciare Programma 101.
Proprio grazie alla volontà di Roberto Olivetti, Elserino Piol lasciò la Divisione Elettronica per divenire il primo Direttore Marketing, ruolo attraverso il quale ha influenzato tutta la politica dell’azienda. Poi con Carlo De Benedetti, dopo un periodo di permanenza in America, si fece artefice della creazione e dello sviluppo del settore interno di venture capital, che fu molto importante e certamente anticipatore delle politiche di oggi. Una visione che arrivò alla parte finale della parabola dell’Olivetti e fu l’artefice dell'ingresso nel mondo delle telecomunicazioni, operazione che in qualche modo salvò l’Olivetti da situazioni più imbarazzanti.
Altri grandi protagonisti dalla morte di Adriano fin oltre l’arrivo di Carlo De Benedetti sono i creativi, guidati da Renzo Zorzi. Mi racconta di Zorzi, Ettore Sottsass e Mario Bellini? E’ vero che Bruno Visentini, seppure un conservatore, non ne ostacolò mai il lavoro, anche quando Sottsass disegnò la macchina da scrivere Valentine scegliendo il rosso in onore dei ragazzi che alla fine degli anni Sessanta manifestavano in tutto il mondo?
Renzo Zorzi è stata una figura importante prima come responsabile di Comunità e poi, in sostituzione di Riccardo Musatti, ha guidato l’immagine, il disegno industriale, la pubblicità e le attività culturali dell’azienda. È vero che Visentini diede sempre ampia autonomia a Zorzi, anche in virtù della loro amicizia risalente ai tempi della guerra partigiana e alla loro corregionalità. Ed è vero che Zorzi è stato un uomo prezioso per l’Olivetti con la sua grande cultura e con le proprie capacità professionali è riuscito a coordinare sempre l’attività di tutti i protagonisti culturali che sono stati nell’orbita dell’Olivetti e che sono stati tanti. Per esempio Giovanni Giudici e Franco Fortini, oltre a Ettore Sottsass e Mario Bellini che hanno disegnato tanti prodotti e materiali dell’azienda.
Roberto Olivetti, seppure in diarchia con Bruno Jarach, è stato l’ultimo manager di famiglia e, dopo un breve periodo di governo di Ottorino Beltrami, Carlo De Benedetti compra l’azienda, attraverso un aumento di capitale effettuato nel giugno del 1978 che lo fa divenire azionista di maggioranza.
Dopo l’amministrazione delegata di Roberto Olivetti in coppia con Bruno Jarach, parte il periodo di Ottorino Beltrami che è di fondamentale importanza nella storia dell’azienda. Roberto rimase in consiglio di amministrazione come vice presidente sino all’arrivo di Carlo De Benedetti e poi lasciò definitivamente occupandosi di altro, sviluppando la Triennale di Milano e soprattutto fondando la casa editrice Adelphi, un ulteriore segno della finezza intellettuale degli Olivetti. Il periodo di Beltrami e di Marisa Bellisario, la sua più preziosa collaboratrice, è fondamentale perché in questo momento viene effettuata la trasformazione dell’azienda da meccanica in elettronica e rinnovata l’intera linea dei prodotti. Ma l’impresa alla fine di questo processo era stremata finanziariamente e Visentini nei fatti la cedette a Carlo De Benedetti, rifiutando qualsiasi altro progetto che pure lo stesso Beltrami aveva tentato di preparare e di sottoporgli.
De Benedetti è un personaggio ruvido. Non crede che ci sia una linea di continuità nella mancata accettazione di Adriano Olivetti e di De Benedetti da parte del capitalismo e del mondo bancario italiani?
Non credo ci sia una linea di continuità tra Adriano Olivetti e Carlo De Benedetti nel rapporto con il capitalismo e il mondo bancario italiano. Ciò può sembrare, perché entrambi sono stati personaggi diretti e molto protagonisti. Ma si tratta di due persone completamente diverse per la visione del mondo, per i rapporti e gli interessi coltivati, per gli obiettivi. Il primo aveva rapporti pessimi con il nostro sistema finanziario e industriale consolidato perché non ne condivideva comportamenti e politiche, il secondo perché tendeva a dominarlo e piegarlo ai suoi affari e interessi.
De Benedetti è stato apparentemente uomo di dialogo politico. Si è confrontato per un lungo periodo con Enrico Berlinguer e i dirigenti miglioristi del Partito Comunista ed è rimarchevole la corrispondenza con il Vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi, scaturita dalla sua decisione di ridurre il personale all’inizio degli anni Ottanta. Ritiene che questa capacità abbia dato ruolo politico all’azienda Olivetti?
Carlo De Benedetti è stato un grande speculatore e un finanziere, un uomo che ha sfruttato ogni piega di qualunque sistema legislativo e politico per inserirsi con l’intento di fare buoni affari. Per questo aveva frequentazioni continue con il mondo politico, solo perché questo faceva parte del suo modo di stare in società e di fare affari. Non era un imprenditore con vocazione alle lunghe prospettive e anche in Olivetti ha dimostrato di non esserlo e questo è un tema poco approfondito della storia. Comunque mai l’Olivetti ha avuto un ruolo politico e mai ha avuto rapporti privilegiati con il mondo della politica e della burocrazia italiana.
Elserino Piol è stato un gran suggeritore per Carlo De Benedetti. Parecchi buoni affari e nel 1983 l’occasione mancata di rilevare il 20% di Apple, scelta di cui De Benedetti si rammaricò pubblicamente in una lectio alla Bocconi il 18 aprile 2014. Questo errore fa parte della narrazione dell'Olivetti, come una maledizione. Secondo lei ha davvero condizionato pesantemente lo sviluppo dell’azienda?
Ribadisco che Elserino Piol è stato un uomo chiave dell’Olivetti, spesso accusato da parte di conservatori e mediocri di fare disordine, grazie al quale le grandi sfide dell’Olivetti si sono tentate e spesso hanno avuto successo, dall’informatica alle telecomunicazioni. Se la storia della rinuncia ad Apple da parte di De Benedetti sia vera? Può essere, ma sarebbe stata diversa la storia di Apple ma non quella dell’Olivetti, perché l’establishment eporediese sarebbe riuscito a smantellare anche questa operazione. De Benedetti forse si rammarica perché sarebbe stato un affare investire senza toccarla, nel senso di non integrarla nel proprio gruppo.
Se male aveva visto su Apple, De Benedetti fu rapido a capire il connubio tra informatica e telecomunicazioni. Con questa intuizione fece entrare nel capitale sociale l’operatore telefonico americano AT&T e scelse di creare e lanciare Omnitel, ai tempi la migliore azienda di telefonia mobile al mondo.
L’affare con AT&T fu fatto perché questa voleva entrare nell’informatica e cercava un partner europeo, ma poi si arenò perché l'impresa americana dimostrò di non essere capace e così fu infatti anche con la successiva partnership tentata dopo l’uscita dall’Olivetti e cioè quella con NCR. L’operazione telecomunicazioni, successiva all’uscita di AT&T dal capitale dell’Olivetti, è merito di Piol che la suggerì, anche se De Benedetti si è dimostrato prontissimo a recepire il suggerimento e a entrare nell’affare.
In ogni caso, l’Olivetti rimane viva nell’immaginario collettivo. Ha avuto con sé scrittori e poeti come Paolo Volponi o Giorgio Soavi, i migliori designer, ha inventato l’idea di negozio come base di esperienza di bellezza e cultura per il cliente ed è stata la prima azienda al mondo a produrre interamente mostre d’arte, la prima quella degli affreschi salvati dall’alluvione di Firenze al Metropolitan di New York nel 1968. Secondo lei, il nome Olivetti mantiene un carisma irraggiungibile?
Il nome Olivetti rimane nell’immaginario collettivo un’esperienza unica. Una delle poche aziende al mondo che ha interpretato il suo ruolo sociale in modo diverso. Questa esperienza la si deve ad Adriano Olivetti che è stato un imprenditore illuminato forse più che un grande manager e a coloro che dopo la sua morte hanno seppur in tono minore continuato a tenere alta la sua visione.
Se le fosse richiesto, come formulerebbe l’incipit di una lezione per gli studenti universitari dedicata all’Olivetti?
Studiare l’Olivetti vuol dire capire il capitalismo del secolo passato, significa capire come può nascere l’innovazione all’interno di un’azienda, vuol dire capire il mondo dell’impresa di oggi attraverso un’esperienza del passato. Vuol dire, infine e soprattutto, pensare a un modo diverso di essere imprenditore e di affrontare la modernità.
E in lei, che ha vissuto un’esperienza così ricca e approfondita, cosa ha lasciato l’Olivetti?
Cosa è stata per me l’Olivetti? Certamente non un lavoro ma il lavoro, dove ho visto che si può sognare in grande, una scuola professionale e umana libera e piena di rispetto per tutto, dove ho conosciuto persone straordinarie e amici per la vita, dove insomma ho costruito il mio modo di essere e di apprezzare la vita, dove ho capito il senso della modernità e ho avuto il piacere di vivere nella intelligenza e nella bellezza che hanno ripagato ampiamente percorsi talvolta dolorosi e traguardi mancati.
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