Uffa, il '68
di Massimo Biondi
Sono stato fortunato: ero giovane negli anni sessanta, quando i giovani si sentivano incaricati di cambiare il mondo. Ora sembra che tutto sia iniziato nel ’68, anno simbolico, ma le idee ispiratrici e la cosiddetta protesta giovanile sono precedenti. Anzi, per come la vedo io il ’68 (valle Giulia, maggio francese, omicidio Martin Luther King, omicidio Bob Kennedy, invasione della Cecoslovacchia) ha infuso rabbia, violenza e rancore in una protesta che era allegra, ottimista, gentile, perfino rispettosa. E ha spento dei sogni, probabilmente ingenui, ma ogni tanto l’utopia è benefica.
Noi giovani fortunati nati nel primissimo dopoguerra volevamo soprattutto essere diversi dai nostri genitori, che della guerra probabilmente portavano i segni. Eravamo intolleranti verso l’autoritarismo e il formalismo perbenista, piuttosto ipocrita. Disobbedienti per scelta, perciò: esprimevamo gusti e desideri non convenzionali, stimolati in questo anche dal marketing, che proprio allora si andava affermando nell’Italia in cambiamento. Musica, moda, locali, viaggi: eravamo un nuovo e rilevante target di mercato, nato anche grazie al crescente benessere, ma non eravamo veramente ribelli; volevamo forse solo apparire diversi, nuovi, “giovani”, che era diventata una connotazione comportamentale. “Matusa” tutti gli altri, di ogni età. Questo richiedeva il clima del momento, discontinuità. Però la “ribellione” si esprimeva in manifestazioni civilissime: capelli lunghi, minigonna, magari il Piper Club (dal ’65, allora abitavo a Roma). La musica era fondamentale, indubbiamente: ci aveva dato i Beatles (e la swinging London, Carnaby street) ma anche tanta creatività italiana che ha mercato tuttora.
Come ignari target di mercato forse non ci sentivamo perfettamente a nostro agio, ma compensavamo affiancando al futile l’impegno di ragionare sul mondo che ci sentivamo di dover migliorare.
Sull’avvenire comunque avevamo poche ma solide certezze. I segnali, giusti o sbagliati, che percepivamo, o volevamo percepire, indicavano tutto bene: pace, solidarietà, diritti umani e benessere diffusi. Purché, ovviamente, non si fosse usata “la bomba”. Nei primi anni ’60 però i leader del mondo in guerra fredda erano John Kennedy (“giovane” come Presidente, perciò OK in linea di principio) e Nikita Kruscev, che ci appariva dotato del buon senso del contadino. La coppia sembrava la conferma che le cose stavano andando nel verso giusto, a maggior ragione dopo la risoluzione ragionevole della crisi di Cuba.
Eravamo di sicuro influenzati dalle ideologie, ma non troppo. Non eravamo comunisti, nella mia cerchia, al massimo c’erano dei simpatizzanti, ma non ci dispiaceva Kruscev che aveva denunciato i crimini di Stalin e usato una scarpa come strumento di dissenso all’ONU. Non eravamo capitalisti convinti, ma ci piaceva Kennedy; eravamo critici verso gli USA, ancora colpevoli di segregazione razziale, ma contemporaneamente li ammiravamo. Non eravamo nemmeno cattolici osservanti, ma quando papa Giovanni mancò qualcuno pianse.
Nessuna simpatia invece per i successori dei tre: Breznev, Johnson, papa Montini. Il nuovo riferimento politico fu l’altro Kennedy, Bob, dei due il migliore, in effetti. Stroncato a sua volta nel terribile ’68.
Ci sentivamo non-ideologici: nessuna ideologia ci convinceva e poi nessuno avrebbe accettato di sposarne una senza riserve, acriticamente. Non inutilmente infatti un altro faro, per me e molti altri, è stato Bertrand Russell, grande “ragionatore non ideologico” e grande pacifista. Sono grato alla Longanesi che pubblicò allora Russell in edizione superpocket, ultra economica: la storia della filosofia, ma più ancora “autorità e individuo” “matrimonio e morale” “la conquista della felicità” li ho letti e riletti con partecipazione e qualche momento di entusiasmo.
Chi preferiva Sartre lo consideravamo un po’ montato. Sempre nella collezione pocket erano stati pubblicati “il muro” e “la nausea”. Letti, con difficoltà, per dovere e per compiacere una brunetta che si atteggiava a Juliette Greco.
Poi è arrivato il ’68. Siamo rimasti giovani, ancora per un po', ma non allo stesso modo.
Il ’68 è stato lo spartiacque tra un prima gioioso utopico e creativo, “leggero”, e un dopo che ha aggiunto violenza, ideologia, contestazione dura, dogmi. E ha provocato il reflusso, stragi comprese.
Troppo lungo e poi deviato il ‘68 in Italia.