Educare il desiderio (1 di 2)
di Giacomo Ghidelli
In una serata svoltasi durante la mostra Oggetti d’evasione – mostra degli oggetti realizzati dai detenuti del carcere di Bollate – mi è stato chiesto un intervento che guardasse alla mostra da un punto di vista filosofico. Inizio qui a presentarne una sintesi.
***
Per parlare di questa mostra, ho scelto di privilegiare una parola: “violenza”. E l’ho scelta perché è una parola che ci porta nel cuore di questi oggetti.
L’universo carcerario può infatti essere inteso come il luogo in cui la violenza sistemica e originaria in cui viviamo trova la propria più radicale espressione.
Di violenza, infatti, bisogna parlare quando ci si riferisce ai detenuti, che sono tali – fatte salve le vittime di errori giudiziari – perché autori di violenze più o meno gravi. E al proposito un piccolo inciso. Perché anche i detenuti, come canta De André ne La città vecchia, “se non sono gigli son pur sempre figli vittime di questo mondo”. Prima ho detto infatti che viviamo in un contesto di violenza sistemica e originaria. Qui, ovviamente, diventerebbe troppo lungo e articolato il ragionamento per dimostrare questo che potrebbe apparire un assunto ma i limiti di argomento impediscono di affrontare compiutamente la questione. Tuttavia non c’è dubbio che molti reati affondano le radici in un tessuto socio-economico e politico violento, ricco di diseguaglianze (pensiamo alle periferie urbane del nord e a intere città del sud abbandonate a se stesse) e, ancor prima, in un contesto segnato da una ideologia che ha fatto del desiderio e del successo a ogni costo il proprio mantra. Ma su questo tornerò più avanti.
Sempre di violenza, poi, bisogna parlare quando ci si riferisce all’istituzione carceraria, una violenza che si manifesta sin dall’ingresso del detenuto in carcere con la spersonalizzazione e la consegna della persona a quella che è stata definita come “una cella liscia”, una definizione che dà molto bene l’immagine del vuoto e della disperazione che accoglie un detenuto al suo ingresso. Violenza che durante la detenzione prosegue – come ha raccontato Foucault – nella continua sorveglianza dei corpi reclusi e nelle continue pratiche sminuitive e spersonalizzanti a cui i detenuti sono quotidianamente sottoposti (pratiche di cui questi oggetti sono la testimonianza in positivo). Per non parlare della violenza insita nel sovraffollamento e nel degrado delle carceri sovente trasformate, come è stato scritto sull’organo del sindacato della polizia penitenziaria, in un girone dell’inferno dantesco.
Come risposta a tutto ciò, infine, c’è ancora la violenza che si manifesta nel modo in cui in molti casi i detenuti si rapportano all’istituzione e che a volte sfocia in rivolte esasperate, segnate da morti e feriti.
Ma ora veniamo alla violenza in sé e per sé, vale a dire al concetto di violenza. E cominciamo con una sua possibile definizione.
La violenza è sempre il prodotto della incontenibilità del desiderio. O, se si preferisce il prodotto di un desiderio malato, che tende all’onnipotenza.
Facciamo un piccolo passo.
Esplorato nelle sue etimologie, il senso della parola «desiderio» rinvia sempre alla tensione per riempire una mancanza, un vuoto. Io desidero ciò che non ho. Vale a dire che il desiderio è il ponte, il tramite che ci porta dal vuoto, alla realizzazione di un progetto che riempie quel vuoto. Un esempio banale: Ho sete (il vuoto), ho il desiderio di un bicchier d’acqua, faccio il progetto di alzarmi e di andare a bere.
Ma poiché le mancanze dell’umano sono infinite, anche i desideri si presentano da subito come infiniti. Il desiderio della salute, del benessere economico, di una relazione amorosa e così via.
Ma non solo. Originariamente è infatti lo stesso desiderio a presentarsi come tendente all’infinito. È questo un tema che viene posto emblematicamente e mitologicamente all’origine della storia dell’uomo occidentale. Pensiamo a Eva e Adamo. Se mangerete il frutto dell’albero del bene e del male, dice il serpente, diventerete come Dio. E il desiderio di diventare come Dio è così grande, che Eva coglie il frutto proibito e ne dà da mangiare anche ad Adamo. Ma è così che appare la malattia del desiderio. Perché è qui che originariamente il desiderio si mostra come qualcosa che tende all’infinito. Come qualcosa che spontaneamente tende a conquistare l’infinito. L’uomo – essere finito – vuole diventare come Dio, essere infinito. E dico che questa è una malattia, perché è contraddittorio per l’umano, che è finito, pretendere di guadagnare l’infinito. Come un secchio non può contenere il mare, così l’umano non può contenere il tutto, vale a dire, essere o avere tutto.
Ma è proprio da qui, da quando ci si abbandona alla malattia del desiderio, che scaturisce la violenza. Essere in balia del desiderio significa infatti essere in balia di una onnipotenza che, in quanto tale, non conosce limiti. Significa essere in balia di una onnipotenza che per conquistare i propri obiettivi non si ferma di fronte a nulla, anche a costo di rubare, di uccidere, di picchiare, di esaltare se stesso come persona o come istituzione al disopra di tutto. Ed è questa una cosa che accade al singolo e all’istituzione, e che accade anche perché viviamo in una società che iperstimola il desiderio; che lo iperstimola in funzione di sempre maggiori guadagni e in funzione della diffusione di una ideologia che cessi di considerare l’onnipotenza come malattia, ma che anzi la pensi come una virtù. Ma il risultato di questa ideologia è, in una sua importante componente, la violenza.
Perché questo accada, però, deve anche accadere che il desiderio non sia stato educato a rispettare il limite.
Ma è possibile educare il desiderio?
È questa una cosa che vedremo nella seconda parte del cammino.