Haddon "Sunny" Sundblom (Michigan, 1899 - Chicago, 1976) - The Terrible Mrs Dove
Sapere pensare, sapere decidere, sapere agire.
Un pensiero sulla realtà odierna del disagio giovanile
di Vincenzo Rampolla
Al mio ingresso alla scuola elementare mia madre mi educò a due precetti: essere onesto e dire sempre la verità. Mi aprì anche le porte della comunità dei gesuiti, che a loro volta mi insegnarono a dire sempre la verità, ma non tutta. Due ordini netti, molti simili dettati dai grandi, con l’eccezione di quel ma non tutta. A lungo mi è frullato in testa. Non mi ha disturbato né assillato. Mi ha insegnato a pensare. In età matura ne ho colto il valore. Tuttora lo condivido e ne faccio ampio uso. Mi diverte. Alla luce di una sequenza di attività congiunte del pensiero con le scelte tra comportamenti, con la condotta e con gli atti conseguenti, viene esaminato il caso del disagio giovanile nel tentativo di costruire una logica che dia un razionale al circolo vizioso che da tempo si è abbattuto sulla nostra generazione. Pensare, decidere e agire mi guidano nell’impresa.
Ogni adolescente è un essere in evoluzione, in mutazione dallo stato infantile a quello adulto.
Oggi questa migrazione appare sempre più insidiata, minacciata, sfibrata, calpestata, ignorata più che accompagnata. Il passaggio del bambino che si spoglia dalla pelle della mutazione e depone le fibre dell’infanzia per divenire adulto, sembra non avere luogo. Abbiamo adolescenti auto-segregati in casa, ripiegati su sé stessi fino a disanimarsi, che si auto-flagellano, si incidono il corpo e lo decorano con tatuaggi e che bevono e si drogano. Esseri che soffrono, che hanno un disagio. Non sanno pensare a sé stessi e al loro futuro. Chi glielo insegna?
E la famiglia, ambiente naturale per il giovane, è ugualmente attraversata da una mutazione ove i ruoli dei genitori sono evaporati, ove non esiste più l’adulto in formazione, in nuce, da coltivare: l’intero nucleo familiare è rimasto allo stato dell'infanzia, con una regressione di maturazione. Per seguire i figli, i genitori hanno trasformato il loro ruolo di guida in protezione, muovendone l’asse dal duo madre-padre a quello madre-figlio, madre protettiva, non mater amabilis, non mater admirabilis nè mater boni consilii. Cresce l’emarginazione del padre e l’estromissione dal ruolo di educatore. Quella del padre-materno è modifica adulterata che prova una mutazione sviluppata in modo nuovo e anomalo: non è mutazione vera, è mutazione non-avvenuta. Che cos’è? A cosa può ricondursi?
Anche famiglia e scuola, i due sistemi istituzionalmente deputati all’educazione dei giovani sono attraversati da una crisi, una lo specchio dell’altra, entrambi irrigiditi nelle proprie posizioni: la famiglia si trasforma in una struttura di protezione, oltrepassando i propri limiti territoriali e invade lo spazio della scuola, si arroga il diritto di entrare nel suo campo istituzionale. Verifica sempre più l’operato della scuola, contesta l’attività dell’insegnante, entra nel merito dei contenuti scolastici. È un’invasione dilagante, non contenibile, perché la scuola non può permettersi di perdere alunni e pur di non perdere alunni corteggia e asseconda i genitori e se li tiene ben stretti. È una logica di sporco scambio biunivoco di ruoli-potere, sempre meno virtuale, sempre più concreto e melmoso. I membri della famiglia pare abbiano rinunciato al loro ruolo primario di esseri raziocinanti che sappiano pensare ai loro figli.
E la scuola subisce un analogo processo di non maturazione: arretra, si contrae e implode, accresce in modo esasperato il guanto della protezione. Viene travolta da una complessa e snervante attività di pronto soccorso a ragazzi sempre meno abili a correre, sempre più incapaci di camminare da soli, che la diritta via hanno smarrita. Al contempo preclude ai ragazzi la possibilità di crescita. Il futuro dei giovani viene minacciato. È disorientata, scivola nel pozzo dell’incapacità e dell’impossibilità di decidere il cammino giusto da seguire. Inabili a procedere in modo autonomo, che guide saranno i giovani per le generazioni loro affidate?
La rinuncia al proprio ruolo istituzionale pare avere contaminato anche la scuola. Docenti e dirigenti hanno alterato e scomposto il modo di pensare ai loro allievi. L’hanno modificato.
La dialettica giovane-scuola e giovane-famiglia si intreccia e si degrada in un’involuzione. Il benessere dei genitori sembra dipendere sempre più dall’accordo-autorizzazione dei figli. Da loro essi pretendono energia, salute e vitalità, se ne nutrono, l’assorbono, la risucchiano e questo sembra valere per ogni profilo di famiglia. E sempre più forte affiora l’agire di un genitore che detta le regole, uno solo: la madre. È il trionfo della maternità. Ahimè, la sua sconfitta. Un ruolo materno dominante che si traduce nel fallimento: la sua finalità ultima è gestire la non-presenza. Quale non-presenza? La propria. La madre delega la sua presenza a piscina, cavallo, pallavolo, danza, musica, lezione di inglese, yoga, cucito, creatività artistica… con le infinite varianti.
Dov’è finita la missione dei genitori? Chi si cura dell’avvenire dei figli? Perché decidere di mettere al mondo un figlio, per essere tenuto per mano per diventare adulto, giusto? No! Per soddisfare i bisogni individuali di padre e madre, per gratificarli. Così pare. Così è. La vocazione del figlio viene ripudiata e corrosa: non è cercare, esplorare, scorrazzare, sperimentare, sbagliare, cadere, rialzarsi, sognare, ideare, architettare, costruire, aprirsi al mondo? Non è decidere liberamente e in modo condiviso di lasciare un giorno la famiglia, di non fuggire. È questo il suo ruolo? Chi disegna quel cammino? Chi lo guida?
La soddisfazione cercata dai genitori si liquefa in delusione. Soffoca. Indica un percorso iniziato male. Erutta un’ansia di controllo da parte loro che ne annebbia il pensiero. Che cosa manca? Qualcosa che sia il padre che la madre non sanno definire, sentono un vuoto che non sanno colmare. Hanno smarrito la capacità di decidere. Entrambi sono portati a circondare i figli non di presenza e di attenzione, ma di mansioni-doveri e a riempirli di oggetti-benessere e di virtualità: figlio-oggetto, da collocare, da delegare a agire, fare, agitarsi, consumarsi.
È la mimesi dell’amore. La visione della relazione sociale è pregiudicata dall’eccessiva attenzione posta alla res rispetto alla humanitas. Essere figlio-oggetto si ripercuote sul giovane e lo travolge: inconsciamente emula la madre. Un esempio. In un episodio di bullismo scolastico, la scena è chiara: una vittima, chi applaude e sghignazza, chi osserva, chi incita, chi si dissocia. Chi immortala la scena sul video. La vittima subisce una mutazione in oggetto, non è protetta ma colpevolizzata, derisa, lanciata in pasto alla rete. Esempio chiaro e crudele. Incontestabile. E la scuola viene accusata e subito si ritorce sulla stessa vittima. Incapace di difendersi, non sa reagire. Nessun docente porta in aula la vittima a esporre i fatti. Nessun docente incita-educa la classe a fare squadra e proteggere la vittima. Nessuno vuole decidere. Nessuno decide di agire, in uno squallido rimbalzo di responsabilità tra genitori, figli, allievi e docenti e la vittima crolla abbandonata. La conseguenza? I ragazzi e i giovani rifiutano la scuola e i genitori. Si ribellano. La ribellione spiazza il padre e la madre, non sanno capirla, non sanno accettarla, vogliono che tutto fili nel senso giusto, che tutto sia liscio senza intoppi. Meglio la figlia ubriaca che drogata, dicono le madri. Meglio coperta di piercing che nelle mani di un tossico, biascicano tra loro.
Chi affronta il conflitto? Nessuno. Troppo tardi. I figli non confliggono più, ignorano i genitori, vestono la tuta mimetica del milite: lottano contro sé stessi mentre i genitori ignorano i sintomi di cui sono portatori. Non li vedono, non sanno leggerli, non li colgono. Se un figlio va male a scuola, è un segnale. Se sbatte la porta in faccia… se chiude il Pc appena entri nella sua stanza… se non ti da la sua password … Tutti segnali. I genitori non sanno più insegnare ai figli come si litiga. Anche il conflitto è azzerato, viene rimosso perché negativo e distruttivo: non viene esplorato e aperto. Ognuno si arrocca sulle sue posizioni. Sapere decidere, sapere agire.
Sembra di capovolgere la storia, ininterrotta serie di conflitti tra generazioni. Si cresce nella conflittualità e il ragazzo incapace ormai di opporsi, contro chi rivolge il conflitto? Contro se stesso. Si innesca il ciclo vizioso del disagio: NON MI CAPISCI! Urla e scrive e lamenta. Potente la distruttività che ha dentro. Si scarica sulle cose, sugli altri divenuti altri-oggetti da reprimere, castigare, ferire, allontanare, lapidare in rete: manca un oggetto vero, un bersaglio e alla fine? Mira sugli altri e su se stesso. Qual è il rimedio? Il farmaco, trasformato in perverso seme di terapia, in compiacente salvatore: segni del malessere i sintomi parlano, dicono, urlano e il farmaco tutto lenisce, tutto guarisce. L’uomo retrocede a livello di barbaro. Un tempo al centro delle dinamiche sociali, oggi uomo-tecnologico. Deve decidere e si recupera con il farmaco: principio che conquista non solo la gioventù ma anche l’infanzia. Vigliaccamente delega la decisione al Ritanil o al Fentanyl, al Trazodone o al Lexotan.
Che significa ciò? Significa non ammettere due fatti essenziali. Da un lato la struttura psichica del ragazzo non è consolidata, è fluida, fisiologicamente in continua formazione fino a 21 anni e dall’altro non si riconosce all’essere umano la capacità di intervenire da sé, di auto-proteggersi, di auto-ripararsi, di correggersi con l’intervento di un metodo di lavoro, con il dialogo, l’analisi, il pensiero. Non con il farmaco. Amore verboque.
L’analisi dell’individuo di fronte alla sua coscienza, il conoscere e seguire le proprie responsabilità, il recuperare la propria capacità di decidere e agire resta la strada maestra per portare il giovane alla maturità: sapere pensare.