Adriaen Pietersz van de Venne (Delft, NL, 1589 – L’Aia, 1662) – Allegoria della povertà
Povertà
di Vincenzo Rampolla
Diversi sono i tipi di povertà.
C’è quella di chi è nato povero, incapace di desiderare il diverso. Non esiste per lui. Essere povero è la sua normalità, senza sogni né voglie di cambiare. Che differenza fa dormire in terra o su una stuoia? Non muta il suo stato, mangiare polenta con o senza un pugno di fagioli. Conta avere la pancia piena, riempita di qualcosa, e nei giorni di festa di birra dolce, quella non fermentata. Per lui non esiste il lavoro, sopraffatto com’è dalla sua sopravvivenza. Deve mendicare, deve chiedere. Chiede sempre e per questo è sfinito nell’animo e nel corpo. Non ruba e non ammazza. Non ci pensa. Non gli passa per la testa. Non odia e non ama. Chiede e attende. Se si ammala, chi si prende cura di lui? Muore in solitudine, talvolta senza accorgersene, senza nulla lasciare, alle volte il ricordo di sé, tra quelli come lui, poveri da sempre.
C’è poi la povertà cosciente, di chi vede e riconosce il proprio stato ma nulla può, proprio per tale povertà. Per lui c’è la rassegnazione, di rado serena, spesso dolorosa. È forse la più diffusa delle povertà e basata sul poco o sul molto poco, non sul nulla come per chi è povero da sempre. Si vive di espedienti e pur di uscirne si accetta ogni cosa, anche oltre i limiti.
C’è anche la povertà di chi se l’è cercata. Un errore, un fallimento, una perdita al gioco o in borsa e tutto va a puttane. Si scende di livello. Si aveva tanto, che c’è ora? Il poco. Spesso il nulla. Manca per questo povero la rassegnazione, vinto com’è dal lamento e dalla voglia d’esser compatito. Lavorato dal ricordo e dalla disperazione, gli manca la via del recupero, battuta dall’incapacità di affrontare il nuovo stato. Cresce l’apatia e la dipendenza dagli altri. Si rinuncia a fare, ad andare avanti perché convinti di essere perdenti, sempre per colpa degli altri.
C’è infine la povertà per scelta, per desiderio o vocazione, per bisogno o convenienza. Essa è molto spesso ambigua se va a braccetto con l’incapacità di agire, se si invischia con l’incoscienza, se si accoppia con la povertà di spirito.
Da questa nasce la povertà torbida, quella legata al voto ed alla fede: è la più falsa. Essa vende la povertà individuale, la rinuncia cioè ad ogni bene, come povertà collettiva, fantasia inesistente e mai possibile. Neppure nel sogno. La povertà comunitaria è menzogna, è simulazione di uno stato che ricalca, si inventa e si fabbrica. È bella vita da principi, con saio addosso e mani tese a racimolare, accattare, chiedere la carità solo in virtù di darsi povero. Etichetta, non marchio.