Aggiornato al 25/04/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire
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Stefano Ussi (1822 - 1901) – L’esecuzione di Savonarola

La violenza. Tra il sacro e il legale.

Se come sosteneva Aristotele“l'uomo è un animale sociale: tende per natura ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi società ”, è pur vero che T. Hobbes, in accordo con Plauto per il quale homo homini lupus, riteneva che l'essere umano fosse naturalmente tendente ad aggredire i propri simili perché il suo istinto di sopravvivenza impone un attaccamento egoistico alla vita, tale da impedire una convivenza serena all'interno della società. Era importante, pertanto, che lo Stato esercitasse il potere al fine di prevenire conflitti e garantire una convivenza pacifica. 

In genere, la violenza è un insieme di comportamenti fisici e/o psicologici atti ad offendere, danneggiare, ferire ... e a cui si ricorre come risposta spesso istintiva, quando ci si sente in pericolo, offesi, minacciati, danneggiati materialmente o psicologicamente.

Secondo S. Freud la violenza, l'aggressività non è solo un'emozione o un comportamento, bensì è una espressione psichica, una reazione che agisce sia a livello conscio che inconscio e che deriva dall'impossibilità di soddisfare una pulsione .

Per l'antropologo Renè Girard invece, la violenza nasce dal "desiderio mimetico", per il quale nella società tutti desiderano e vogliono ottenere a tutti i costi ciò che hanno gli altri. Il desiderio di vendetta che scatta nei confronti di una violenza subita, una volta innescato è difficile da placare e se non può scaricarsi nei confronti di chi ha causato la violenza originaria, cerca una vittima sostitutiva su cui convergere la foga vendicativa.

Nelle società primitive la violenza veniva controllata ricorrendo a rituali sacri, in quanto esisteva uno stretto rapporto tra il sacrificio e l'assassinio: lo spirito di vendetta innescato da una violenza subita, veniva attribuito ad un'entità sovrumana e per evitare che lo stesso si espandesse in tutta la società, in cui ciascuno sarebbe diventato allo stesso tempo vittima ed aggressore causando una spirale infinita di violenza e vendetta, si immolava una vittima innocente (persona o animale) incapace di difendersi, su cui convergere tutte le colpe, affinché la sua uccisione esorcizzasse il male e ripristinasse una situazione di ordine e pace tra i membri della comunità. 

L'efficacia del rito sacrificale e della scelta di una vittima innocente come capro espiatorio, sacralizzata dopo l'uccisione, era spiegata dal fatto  che nei suoi confronti non era possibile provare sentimenti di rancore o vendetta. L'immolazione rappresentava pertanto, una violenza senza rischi.

Per Girard, tutte le forme di religione e il meccanismo del sacrificio di un capro espiatorio si spiegano e si ritrovano infine, nella crocifissione di Cristo: la Sua uccisione infatti, era resa necessaria per liberare tutta l'umanità dalla violenza.

Nel Codice di Hammurabi si trova la prima testimonianza scritta dell'uso della pena di morte come punizione contro atti di violenza. In seguito, nel diritto romano e poi quello germanico fu inserita la cosiddetta “legge del taglione” applicabile ai delitti privati, mentre l'uccisione del reo, inizialmente prevista solo in casi di crimini di pubblico tradimento, fu presto applicata anche per altri reati.

Nel Medioevo la condanna alla pena di morte poteva essere decisa sia dal potere politico che da quello religioso. Tristemente noti sono infatti i roghi, le crocifissioni, le impiccagioni e le torture nel periodo della Santa Inquisizione, giustificati sul piano teologico per la “preservazione del bene comune”.

A differenza del sacrificio di una vittima innocente che nelle società primitive veniva immolata allo scopo di evitare il desiderio di vendetta, le esecuzioni capitali eseguite pubblicamente nel Medioevo, avevano invece lo scopo non solo di vendicare un torto verso la società o la Chiesa, ma fungevano come esempio, terrorizzante e deterrente contro ogni tipo di crimine o forma di ribellione.

La pena capitale, spesso preceduta da torture, fu comminata non solo per moltissimi crimini, ma per molti secoli in molti Paesi, fu considerata l'unico rimedio efficace contro ogni tipo di violenza.

Rimase il sistema punitivo più utilizzato fino alla fine del XVIII secolo, quando il progressivo diffondersi del pensiero illuminista che affermava i principi umanitari e i diritti sociali, cominciò a mettere in discussione la validità della stessa pena, considerata non solo un atto incivile, ma una vera e propria vendetta legalizzata e gestita dallo Stato.

In questo periodo, il filosofo Cesare Beccaria mosse una forte critica a tutto il sistema giuridico dell'epoca e con il suo saggio “Dei delitti e delle pene” rivoluzionò il concetto stesso di pena. Egli sosteneva che una pena equa deve sempre essere applicata, altrimenti un cittadino onesto e rispettoso delle leggi, vedendo che i trasgressori non vengono puniti, tenderà a comportamenti criminali, ma la pena di morte è ingiusta ed inutile, perché non assolve le funzioni per cui verrebbe inflitta e cioè: garantire la sicurezza dello Stato e dei suoi cittadini e contemporaneamente, offrire al reo l'opportunità di redimersi. Inoltre, affermando che si dovesse distinguere il peccato dal reato, sosteneva che quest'ultimo rientrava in un sistema giuridico laico ed immanente e di conseguenza, la legge umana non potesse emettere alcuna sentenza di condanna a morte in quanto non può sostituirsi a Dio.

L'idea di sostituire la pena di morte con la reclusione ed altre pene più miti, fu accolta dal granduca di Toscana Pietro Leopoldo che, emanando un nuovo codice penale nel 1786 (il cosiddetto “Codice Leopoldino”) fu il primo sovrano in Europa che abolì ufficialmente la pena di morte e la tortura.

Ciononostante, nel XX secolo con l'affermarsi dei regimi totalitari in tutta Europa, si ricorse all'applicazione frequente della pena capitale e delle torture come deterrente contro ogni tipo di opposizione politica e per reati militari. Dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, documento promosso dalle Nazioni Unite e sottoscritto da tutti gli Stati membri, rappresentò un primo grande passo verso l'abolizione della pena di morte.

Secondo Nessuno tocchi Caino, Associazione internazionale per l'abolizione della pena di mortee tra i principali promotori della Moratoria universale della pena di morte approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2007, ad oggi ci sono ancora 58  Paesi mantenitori della pena capitale e il 90% delle condanne si concentrano prevalentemente nei seguenti Paesi: Cina, USA (18 Stati), Arabia Saudita, Pakistan e Iran; mentre i metodi di esecuzione più utilizzati sono: fucilazione, decapitazione, sedia elettrica e iniezione letale.

Studi oggettivi dimostrano che il tasso di omicidi e di altri crimini nei Paesi mantenitori della pena di morte risultano essere superiori a quelli riscontrabili negli Stati abolizionisti. 

Sembra dunque, anzi è certo che la condanna a morte del reo non sia da ritenere un efficace deterrente per coloro che intendessero commettere reati: non è in grado di prevenire, limitare o impedire crimini più o meno gravi.

Ci si potrebbe chiedere a questo punto quale sia allora il motivo che spinga gli Stati mantenitori ad applicare ancora questa inumana forma di punizione.

Ricordando che l'uomo non può e non deve sostituirsi a Dio, mi sembra giusto citare in chiusura, il

Primo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani:

“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Inserito il:19/10/2015 09:08:25
Ultimo aggiornamento:07/11/2015 08:40:57
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