George Frederic Watts (1817-1904) - Found Drowned (ca. 1848-50)
Dalla violenza psicologica al Femminicidio: un delitto annunciato?
di Anna Maria Pacilli
Non innamorarti della notte così follemente da non riuscire
più a trovare la strada (Anne Rice)
Lo spunto per queste riflessioni mi è venuto dalla lezione tenuta sabato scorso al Master in Criminologia che sto frequentando a Milano dalla dott.ssa Margherita Carlini, psicoterapeuta esperta nel settore.
I sempre più numerosi episodi di cronaca, giornalistica e televisiva, parlano di donne uccise, di donne violate nella loro intimità, o, ancora, di donne prima violate e poi uccise, con i loro figli o senza, donne giovani, private del loro domani dalle mani di un uomo, spesso il loro uomo. E solo poche volte all’omicidio fa seguito il suicidio o tentato suicidio dell’uomo stesso.
E’ ben diverso quando una donna viene uccisa da uno sconosciuto rispetto a quando il delitto è compiuto da chi la conosce bene nelle sue fragilità, da chi ha diviso con lei il letto ed aveva scelto di dividere con lei la vita.
Simili possono essere i modi di uccidere, ma le dinamiche che sottendono l’agito sono completamente diverse.
Leggiamo qui e là “ Morire d’amore”, “Omicidi passionali”, “Lei l’aveva lasciato e lui non poteva accettarlo”, “Ha agito in preda ad un raptus”… Ecco, credo sia importante fare chiarezza.
Con queste frasi si tende quasi a colpevolizzare la donna, perché “se l’è andata a cercare”, riconoscendole un ruolo di responsabilità anche laddove subisca e venga maltrattata.
Frasi del genere sembrano sottendere o voler palesare tra le righe una concezione distorta dell’amore e la possibilità che l’agito diventi incontrollabile da parte dell’uomo.
Questo il più delle volte non è vero: la violenza è controllabile, andando via di casa, ad esempio, non distruggendo, spesso in modo efferato, il corpo della donna come se fosse un oggetto, come se la donna non fosse un individuo indipendente e capace di fare una scelta diversa che non comprenda più nella sua vita quell’uomo.
L’amore deve essere una scelta, non la proprietà dell’”amata”, ma l’uomo, spesso, non riesce ad accettare la frustrazione derivante dalla rottura da parte della donna degli schemi che lui ha precostituito.
Dunque, la violenza può essere gestita diversamente.
Non esiste il “raptus”, la “follia omicida”, perché in realtà questi omicidi solo per la minima parte sono compiuti da uomini affetti da quadri psicopatologici ben precisi che possano determinare, con la perdita del controllo, comportamenti aggressivi. Per lo più si tratta di uomini che agiscono con determinazione, con la volontà di agire e, soprattutto, con le premeditazione, rappresentando l’omicidio, così, solo l’ultimo atto di una violenza perpetrata per anni, ma misconosciuta, a volte dalla donna stessa.
“Era un bravo ragazzo, solo un po’ geloso, mai saremmo arrivati a pensare che…”.
Anche qui occorre fare chiarezza: alcuni segnali che la donna interpreta come “grande amore”, in realtà sono i “sintomi” (e non in senso psicopatologico) che qualcosa in quel rapporto non va.
In un mondo di relazioni sempre più fluide, in cui è la variazione, il cambio, che la fa da padrone, ed in cui diventa sempre più difficile reinvestire l’affettività sullo stesso “oggetto del desiderio”, mentre diventa più facile mutare oggetto, i segnali di “possesso” vengono vissuti dalla donna, soprattutto giovane, come una conferma di interesse, di amore, di esclusività di quel rapporto, e non come segnali di morbosità, di tendenza all’isolamento della ragazza dal suo gruppo di amici, perché le sue attenzioni vengano concentrate completamente in quel rapporto a due, che, in realtà, è assolutamente disfunzionale. Anche il sesso, spesso vissuto in modo violento, viene visto dalla donna come segno di interesse: non dimentichiamo che per retaggio culturale la donna non vi si può sottrarre, salvo rischiare il tradimento e l’abbandono, non soddisfacendo i desideri del suo uomo.
La violenza “di genere” non è dunque un’emergenza sociale, ma sta palesandosi come tale solo perché oggi finalmente se ne parla. Oggi la donna ha diritto di riconoscere che un amore ossessivo non è fonte di crescita per la coppia, ma lì sta la sua distruzione. Un amore del genere non sconfina necessariamente nell’omicidio, ma è sicuramente alla base di molti casi di violenza psicologica, fatta di atteggiamenti vessatori, denigratori, svalutativi e manipolativi della donna stessa, ancor più sottovalutati ed interpretati come segnali d’amore dalla donna stessa, che arriva a vedere se stessa come meritevole di essere punita.
Spesso l’uomo in questi casi è affetto da un Disturbo Narcisistico di Personalità, che comunque non è un quadro psicopatologico considerato in Psichiatria tra quelli più gravi. Si tratta di soggetti apparentemente “perfetti” anche come padri (salvo che i figli sono per lo più considerati “propaggini” di sé e non individui autonomi, la testimonianza da lasciare al mondo, della loro esistenza), ma il cui atteggiamento è improntato dapprima alla seduzione (“All’inizio mi faceva sentire una principessa”), alla manipolazione e poi alla svalutazione altrui, per cercare una sopravvalutazione di sé. E, dunque, a fasi alterne di esaltazione e svalutazione dell’altro, che non fa che disorientarlo. Sono soggetti che hanno un atteggiamento, dunque, distorto nelle relazioni con gli altri e soprattutto in quelle sentimentali, in cui l’altro è, appunto, asservito al Sé, e non visto come entità autonoma, ma come funzionale ai propri desideri e la cui vita deve essere impegnata (anzi, finalizzata) per soddisfarli.
Inoltre la violenza psicologica è ancora più difficile da dimostrare, anche allorquando la donna si decida a denunciarla, perché non ci sono segni fisici evidenti, non ci sono ferite, abrasioni, ecchimosi.
C’è “solo” l’anima ferita ed a volte le mutilazioni dell’anima fanno più male di quelle del corpo. Quante donne sono arrivate a confessare che avrebbero preferito morire, piuttosto che non riuscire ad uscire da questa lenta agonia: la morte vista, paradossalmente, come unica via di scampo dal persecutore.