Aggiornato al 21/11/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Mihaly Munkacsy (Ukraina, 1844 - Bonn, 1900) - Sciopero - 1895

 

Sessantotto e politica

di Tito Giraudo

 

Ho tentato più volte di tornare a scrivere del 68, soprattutto cose non dette negli ottimi articoli scritti da altri amici.

Inutile, stavo per alzare bandiera bianca, quando mi sono ricordato come qualsiasi fenomeno politico e sociale non vada mai estrapolato dal suo contesto temporale, così mi è venuto nella mente che in fondo quel 68 cambiò davvero i costumi personali, ma non successe nulla di sostanziale nella politica, dal momento che siamo arrivati alla débacle della partitocrazia degli anni 90. Valeva la pena, dopo i furori del movimento studentesco, gli autunni caldi del sindacato, il terrorismo?

E allora, ho pensato che forse più del 68 bisognerebbe parlare del 63, anno in cui “L’Avanti” titolò: “Da oggi ognuno è più libero”.

Pietro Nenni, il Repubblicano storico divenuto socialista, l’esule antifascista fautore dello sciagurato (per i socialisti) Fronte Popolare, non fece autocritica a parole (mestiere sempre difficile per i politici), la fece nei fatti, promuovendo l’autonomismo socialista che lo portò nel 63 ad essere il primo socialista italiano ad andare al Governo con un programma di riforme che allora chiamammo: “di struttura”.

Mi chiederete: ma che c’entra con il 68?

C'entra, c'entra, perché per paradosso, tutto il bailamme protestatario nacque nel momento in cui la sinistra in Italia, tramite un Partito che non era certamente il più forte, riuscì a fare quell’alleanza con i Cattolici che non seppero fare i Massimalisti e i Popolari nel 19, spalancando le porte al Fascismo.

I Comunisti, che il Centro Sinistra lo vissero come il demonio, rispolverarono un termine usuale lungo tutta la storia dei rapporti tra socialisti e comunisti: “Social traditori”.

Eppure quel primo Centro Sinistra, voluto per i DC da Aldo Moro e poi reso operativo da Fanfani, fu la cosa più di sinistra mai successa in Italia.

Quando nel 67, esplose la contestazione studentesca, l’Italia non era un Paese governato da “social traditori”, era governato da una coalizione basata principalmente sull’alleanza tra democristiani e socialisti che stava realizzando un programma di riforme, le quali, se non erano proprio socialiste di stampo marxista, furono sicuramente di tipo Laburista.

Con il senno di poi, avrei molto da criticare quelle riforme, che peccarono di ideologismo e furono antiliberali, ma la critica che viene da un marrano come me, non possono permettersela i tanti convertiti al Socialismo liberale (che non ho mai capito cosa sia).

Oggi, possiamo dire che, nel bene e nel male, quelle riforme lasciarono un segno non certo di tipo conservatore. Le battaglie ideali dei ragazzi americani e francesi, i ragazzi italiani potevano risparmiarsele, concentrandosi sui temi scolastici e sui costumi, dove sicuramente in questo campo avrebbero trovato almeno uno dei Partiti al Governo attento e disponibile.

Marialuisa Bordoli Tittarelli, ha ben testimoniato nel suo brillante articolo, come il cambiamento nei costumi avvenne nonostante la politica e senza violenze di sorta. Chapeau!

Come mai il Movimento studentesco optò per teorie rivoluzionarie in un quadro seriamente riformista?

Quali le cause?

Cercherò di esaminarle nel contesto Torinese e di quella facoltà umanistica, fucina principale delle ideologie che presero rapidamente piede nelle infuocate assemblee studentesche.

Torino era stata anche una fucina per gli Ordinovisti, quei professorini guidati da Antonio Gramsci il quale, dopo un peccato originale interventista (peraltro comune a quasi tutti gli studenti), era rientrato nei ranghi in qualità di brillante redattore dell’edizione torinese de “L’Avanti!”.

Non potendo e non volendo contestare il massimalismo che dominava il Partito, la loro critica riguardò i Parlamentari definiti “pantofolai”, mentre i circoli di partito furono indicati come covi di avvinazzati. In parte era vero ma non si limitarono a questo. Individuando la classe operaia quale protagonista di un’ipotetica e improbabile rivoluzione, tutta la loro attenzione fu rivolta alle fabbriche, e all’azione sindacale, naturalmente tacciando la CGIL di moderatismo.

Non voglio farla lunga, perché più volte ho scritto sulle responsabilità di quegli uomini, e la reazione che portò al Fascismo.

I torinesi del PCI, dopo la liberazione, avevano creato lo stesso clima del biennio rosso, questa volta non trovando Benito ma Vittorio. Vittorio Valletta che li liquidò in fabbrica e in parte anche fuori, data la potenza della Fiat specie a Torino. Sconfitti e frustrati, invece di fare autocritica, crearono le leggende della resistenza tradita o, peggio, la favola che il Fascismo fosse dipeso soprattutto degli industriali, reazione che ci sarà anche stata ma tardiva; si pensi che la Confindustria nacque nella sola Torino nel 10 e a livello nazionale nel 19. Analisi prontamente raccolte dal Movimento Studentesco.

Ma veniamo al 64. L’esperienza di Centro Sinistra è iniziata. I Socialisti hanno subito la scissione dello PSIUP certamente con lo zampino del PCI. Il 64, è l’anno del memoriale di Yalta, scritto da Togliatti dopo la denuncia dei crimini staliniani.

C’è stata l’Ungheria, la destalinizzazione. Togliatti, in un primo tempo nella Direzione del PCI, critica Kruscev considerando improvvida la denuncia al mondo dei crimini di Stalin, forse anche preoccupato di essere chiamato in causa, visto che fu Capo dell’Internazionale Comunista a Mosca negli anni 30. Poi, con il cinismo che lo contraddistingue, segue il nuovo corso e a Yalta scrive quello che è considerato il suo testamento (morì l’anno dopo e io con una milionata di compagni piangenti andai alle esequie a Roma), inventandosi una problematica “via italiana al Socialismo”. Tanto basta che il partito si mobiliti tutto, servendosi delle fitte schiere di intellettuali organici e non, propagandando il nuovo verbo che naturalmente è teso a demonizzare i socialisti. I quali, dal canto loro essendo per tradizione “litigarelli”, non tardano a dividersi con la nascita della corrente Lombardiana.

Riccardo Lombardi, ex azionista, era una brava persona ma in politica fu un giacobino.

Il Centro Sinistra era un’alleanza con un Partito, la DC, molto più forte. Le riforme andavano contrattate. Sperare che un Partito del 10% ottenesse tutto, era una favola. Se analizziamo con gli occhi dell’oggi: la DC, grazie alla componente interna di sinistra concesse molto.

Anche i Lombardiani (di cui il “vostro” faceva parte), contribuirono a indebolire il PSI, indebolendo anche l’azione riformatrice. Poi venne Craxi, ma questa fu un’altra storia.

A noi, interessa capire perché dei giovani acculturati, non si fossero resi conto di quelle riforme. Nella loro furia iconoclasta oltre non guardare ai socialisti, non guardarono neppure ai comunisti, cercando una terza via di tipo rivoluzionario e quindi niente di più facile che ripescare Gramsci e la centralità della classe operaia. Lascio però indovinare chi furono i Maestri.

Si diedero quindi assai da fare a livello di fabbrica, trovando terreno fertile perché, come sempre accade, gli industriali con in testa la Fiat dormivano sugli allori Vallettiani, pensando che la repressione potesse ancora valere.

Il Sindacato, già prima del 68 aveva segnato una ripresa con la riuscita degli scioperi contrattuali che avevano visto l’unità anche con la Cisl e in parte la Uil. Tanto attivismo del Movimento studentesco, in un primo tempo fece il gioco del Sindacato che però ricadde nel solito estremismo, non riuscendo, o non volendo condizionare le spinte operaie estremiste. In mezzo a tutto ciò, ci fu il terrorismo che ebbe come origine, non solo, ma anche, il 68.

La liquidazione del terrorismo, significò anche la liquidazione del 68 che comunque era andato auto estinguendosi tra mille movimenti e partitini.

Ma il 68 un’eredità la lasciò. I sessantottini che non se n’erano andati a casa, trasmigrarono nel PCI di Berlinguer, oltre a riempire le redazioni dei giornali e della TV di Stato.

Il 68 di “redazione” fu pernicioso, perché anche un giornale della borghesia come il Corriere ne fu preda, costringendo la vecchia redazione liberale a uscire (Montanelli), o a stare zitta.

Sul piano del PCI, erano nate le correnti. Divisi tra Miglioristi a destra, e Ingraiani a sinistra, come sempre avviene, prevalse il Centro di San Berlinguer che, per me, è il politico più sopravvalutato della storia del dopo guerra. Il quale, invece di prendere atto che i Socialisti avevano avuto ragione e quindi proporre un fronte riformista, il fronte lo proposero ai Democristiani con l’invenzione estemporanea del “Compromesso storico”, basato sul proposito di fare fuori i socialisti Craxiani e quindi diventare interlocutori privilegiati.

Il diavolo fa le pentole ma non…. La Fiat, entrò in crisi. Molto per il clima anarchico e ingovernabile di fabbrica ma anche per i nuovi processi produttivi, chiese licenziamenti e cassa integrazione. Si aprì l’ennesimo scontro all’ultimo sangue, dove il Capo comunista ci mise la faccia paventando, addirittura, l’occupazione della fabbrica. Andò a finire come il solito, perché soliti furono i comunisti i quali, dopo tanti errori non meritavano di essere salvati dalla mattanza di “mani pulite”, anche perché le mani le avevano sporche come tutti e forse di più (prendere soldi da uno Stato straniero nemico dell’Italia, è alto tradimento in tutti gli Stati democratici).

Termino con un interrogativo che non posso sciogliere perché non dispongo dei mezzi adeguati.

Quanti sessantottini entrarono in Magistratura? e quale fu il loro peso in Magistratura Democratica?

Sicuramente, posso dire (basta pensare ai Giudici del lavoro con le loro sentenze ideologiche), che l’ideologia sessantottina fu importante.

Spero di aver contribuito al dibattito.

 

Inserito il:04/02/2018 16:02:11
Ultimo aggiornamento:04/02/2018 16:10:09
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