Girolamo Peralta (Palermo, 1957 – Trapani) – Nel deserto dell’apparenza
La società dell’immagine
di Camilla Accornero
“nella società dell’immagine vige il rispetto del politicamente corretto. Quando un’informazione socialmente accettabile è più rilevante della sua veridicità”
Viviamo in una società in cui l’immagine che si dà di se stessi sembra essere più importante di chi si è realmente. Fingiamo di credere a ritornelli come “non giudicare per non essere giudicato”, “devi conoscere prima di esprimere un giudizio”, “non bisogna lasciarsi ingannare da stereotipi e pregiudizi”, e li ripetiamo, convinti erroneamente che il solo pronunciarli possa in qualche modo lavarci la coscienza qualora non ottemperassimo a quelle massime dettate dal politicamente corretto. Come se recitare “Il Padre Nostro” prima di andare a dormire o seguire la messa ogni domenica mattina facesse di noi dei buoni cristiani.
Ne deriva un’eccessiva, quasi morbosa fissazione con l’immagine che si dà di sé, poiché è su quella che si baserà il giudizio degli altri su di noi. Dopo un solo sguardo saranno capaci di tracciare con presunzione il nostro profilo, senza fare domande, senza provare a comprendere la complessità che esiste al di là dell’aspetto di un corpo. E intanto ci ripetiamo i ritornelli per stare in pace con la nostra coscienza. Critichiamo e giudichiamo e ci indigniamo se veniamo criticati o giudicati, perché sappiamo con quanta superficialità e su quali preconcetti si siamo formati quei giudizi.
Dove abbiamo gettato il rispetto? Non solo verso il prossimo, ma soprattutto verso noi stessi. Con quale presunzione accusiamo gli altri di lasciarsi abbindolare da stereotipi e pregiudizi, quando noi stessi commettiamo lo stesso fatale errore? E chi potrebbe fornire un esempio di comportamento, non pare essere in grado di farlo. I modelli proposti sono costruiti a dovere per mezzo di uno stampino, preconfezionati in serie e pronti ad uscire dalla fabbrica della telecomunicazione. Tali modelli non sono dissimili dalle massime dettate dal politicamente corretto: la costruzione artificiosa di cosa deve essere considerato giusto o sbagliato, di cosa sia lecito o non lecito dire e mostrare. Verità e falsità assumono un ruolo secondario, in cui è più importante rispettare i dettami del politicamente corretto che rimanere fedeli alla libera circolazione di notizie prive di filtri.
Alla sapiente manipolazione dell’informazione, sintomo di una mania di controllo, si aggiunge lo strumento chiave per il raggiungimento dell’obiettivo: le statistiche. Questo morboso attaccamento ai numeri e alle percentuali non fa altro che rimarcare la tendenza all’omologazione per far rientrare tutti all’interno di una specifica casella. Se due persone condividono un sintomo, allora appartengono alla stessa categoria, e quali che siano le cause o le problematiche a monte non è rilevante, basta riuscire ad apporre un’etichetta. Ci priviamo della varietà, della diversità, di tutte quelle sfaccettature che dovrebbero caratterizzare una persona, tanto da ridurla ad essere solamente ciò che appare, come se il suo modo di apparire fosse il sintomo che fa capire chi è.
Accettiamo che qualcuno rimanga fuori dai tabulati statistici quando risulta conveniente la creazione di una nuova categoria, anch’essa rappresentata da una casellina su un grafico, al fine di strumentalizzarla. Quando la diversità può essere manipolata e interpretata attraverso i filtri del politicamente corretto, allora diventa accettabile e talvolta viene anche cercata e voluta, poiché si trasforma nell’elemento propagandistico per eccellenza. Ma ancora una volta, si sprecano parole per far leva sull’avvisaglia di un problema, più suscettibile di reazione emotive, piuttosto che analizzarne le cause. Si cerca di arginare un sintomo, ma non di curare la malattia. A nessuno è venuto ancora in mente di chiedersi il perché? I fazzoletti non curano il raffreddore, rendono solo il sintomo meno evidente e più accettabile. Ma qual è la finalità di ignorare le cause? Qual è l’aiuto effettivo che viene dato se si presta attenzione, o si veicola l’attenzione, solamente sulla sintomatologia di un fenomeno?
Indurre il pubblico a concentrarsi sugli aspetti più superficiali riguardanti questioni molto più complesse, per le quali sarebbe quantomeno necessaria una spiegazione, la quale richiederebbe, invero, una maggior attenzione da parte dei fruitori nonché la presa di coscienza del fatto che non sempre quanto viene detto corrisponde in toto alla realtà, è un efficace strumento di potere sociale. D’altra parte, per le élite che regolano i giochi di potere e detengono le redini dell’economia, il controllo della popolazione è essenziale e permette loro di condizionare il pensiero di un individuo o di un gruppo e indirizzarlo verso la credenza più congrua alle loro finalità. Diverse sono le tecniche per indurre le persone in trappola: alterare la percezione dei sensi ai fini di creare un’instabilità emozionale, far leva sul contesto culturale e sulle credenze, farcire le notizie con dettagli irrilevanti se non addirittura non pertinenti. Ma l’elegante gioco funziona perché si fonda sul presupposto che il pubblico sia portato a prediligere servizi, prodotti e informazioni di facile comprensione, in quanto si preferisce consumare contenuti semplici e immediatamente intuitivi per i quali non viene richiesto un alto livello di attenzione.
In questo scenario sapientemente costruito, le parole rappresentano un aspetto tutt’altro che trascurabile, sono la chiave di volta di un raffinato sistema che fa della manipolazione dell’informazione la sua arma prediletta. Controllore il linguaggio è il primo passo per controllare coloro che fanno uso delle parole. E lo step successivo non può che sfociare nella nuova piaga dell’era moderna che si diffonde a macchia d’olio e con una velocità incontrollabile grazie alla complicità della tecnologia: le fake news. Influenzano la percezione che gli individui hanno della verità, della società in cui vivono, della realtà di cui sono spettatori passivi e ne manipolano l’opinione in merito, con l’accortezza di illuderli di essere pensanti.
L’ultimo tassello di questo elegante sotterfugio è la consolante illusione offerta al pubblico di fargli credere di star ragionando e di godere del libero arbitrio.