Aggiornato al 21/11/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Leonid Pasternak (1862-1945) – The Passion of creation

 

Il duro lavoro della scrittura e la ricompensa del mercato

di Fabio Macaluso

 

Questa è la prima di una serie di interviste dedicate al lavoro creativo. In questo ambito si dà sempre supremazia al settore musicale perché produce i materiali tutelati dal diritto d’autore maggiormente fruiti dal pubblico: esso è quindi il più interessante economicamente. Tenuto conto di questa realtà, si finisce col trascurare altri ambiti artistici che sono importanti per il dialogo culturale del nostro paese. Per partire in controtendenza e provare a colmare questa lacuna è utile ascoltare Arianna Tronco, agente di autori, operatrice del settore creativo della scrittura delle opere letterarie e teatrali e delle sceneggiature cinematografiche e dell’ideazione dei programmi e format televisivi e radiofonici. Un segmento vivo e importante, che però, anche per limiti propri, è cenerentola rispetto agli ambiti creativi più ricchi e popolari.

Dottoressa Tronco, lei ha maturato una vasta esperienza nel settore autorale, dalla tutela delle opere letterarie a quelle nate per il teatro, il cinema, la radio e la televisione. Può sinteticamente spiegare ai nostri lettori in cosa consiste la sua attività e darci alcune informazioni rispetto agli autori che assiste?

Da sempre mi sono occupata di contenuti, con una particolare predilezione per il lavoro autorale e il diritto d’autore. Nel 2006 ho creato la SPA (Società per Autori), un’agenzia di management dedicata esclusivamente alla categoria degli “scriventi”. Ad oggi sono 47, tra autori televisivi, teatrali, scrittori e sceneggiatori. E’ l’unica realtà di questo tipo in Italia. Un lavoro articolato che mi coinvolge su tutti gli aspetti legati all’attività degli autori che rappresento: dalle scelte artistiche, alle trattative economiche, a quelle contrattuali e legali. Riesco a divertirmi lavorando, anche perché con ciascuno di loro ho una relazione non esclusivamente professionale ma anche personale, affettiva. Direi che è un progetto ben riuscito.

Le reti televisive e radiofoniche italiane comprano format consolidati all’estero e riducono gli investimenti per l’ideazione e la produzione di contenuti originali. Come spiega questa quasi assoluta rinuncia a formare un linguaggio autonomo che porti ricchezza al settore audiovisivo nazionale, in termini culturali ed economici?

In effetti, analizzando i palinsesti sembrerebbe che tutto arriva dall’estero (“L’eredità” e “Le Iene” dall’Argentina, “The voice" e “Grande Fratello” dall’Olanda, “X Factor", “Masterchef” e “Italia’s got talent" dall’Inghilterra), ma la realtà è che l’Italia produce meno programmi basati su format stranieri rispetto ad altri Paesi. Come, ad esempio, allo stesso Regno Unito, dove la BBC realizza un numero minore di prodotti nazionali, anche se dotati di alta qualità e venduti con successo all’estero. I programmi originali italiani sono soprattutto incentrati sul talent piuttosto che sull’idea. Per questo, difficilmente vendibili altrove. Ma immaginare di mandare in onda soltanto prodotti nazionali sarebbe una follia, un’autarchia creativa che fallirebbe in pochissimo tempo. Il problema non ritengo sia l’acquisto di formati stranieri ma la ridotta offerta di idee italiane sufficientemente forti ed esportabili nel resto del mondo.

In questo contesto, pensa che vi sarà un ricambio tra gli autori attualmente operanti? In altri termini, giovani autori hanno modo di dedicarsi a tempo pieno a questa attività di creazione dei format radio televisivi?

Certamente i giovani autori hanno maggiore conoscenza delle tendenze del mercato mondiale e, quindi, sono più predisposti all’ideazione di progetti “internazionali” con una particolare attenzione per le serie tv, settore in fortissima espansione anche nel nostro Paese. Va detto infatti che l’Italia, grazie soprattutto a serie come “Gomorra” o “The young Pope”, ha riacceso i riflettori su di sé generando un’enorme richiesta di idee originali dall’estero.

In Italia, vige un’oligarchia durissima nel settore televisivo. Se è vero che abbiamo centinaia di emittenti locali, a contendersi il mercato nazionale sono solo tre aziende (Rai, Sky e Mediaset) con un operatore come La 7 che segue lontana. Gli autori devono quindi essere graditi a queste aziende regnanti e spesso sono tagliati fuori perché non sottostanno, per scelta o necessità, alla regola delle appartenenze politiche o di altra natura. Pensa che questa ricostruzione sia errata o eccessivamente pessimistica?

Analizzando l’industria televisiva non si può prescindere dal legame intrinseco che la stessa ha con la realtà sociale esterna. Il nostro Paese affronta da tempo una profonda crisi le cui conseguenze si proiettano anche nel mercato televisivo.Per fortuna l’orientamento politico non può favorire né penalizzare l’attività degli autori. Serve anzitutto aver talento e un buon carattere.

Quindi a cosa imputerebbe la crisi che molti autori lamentano con riferimento al settore televisivo?

Il cosiddetto “caos dell’etere” generato dall’arrivo delle tv commerciali degli anni ’80 attivò una tale concorrenza che costrinse le varie reti  a organizzarsi per riuscire a proporre un’offerta sempre più varia e competitiva, così da ricavarsi un proprio spazio nel mercato. Credo sia stato il periodo più dinamico e fortunato della tv italiana. L’avvento dei canali satellitari, se avessimo seguito i modelli degli altri Paesi, avrebbe potuto rappresentare una straordinaria opportunità per far rifiorire il mercato. La televisione italiana, negli ultimi anni, è sprovvista di personalità, tutto si assomiglia. Non esiste una netta linea di confine tra la proposta dei canali satellitari e tematici e quelli in chiaro. La digitalizzazione ha ridotto drasticamente le distanze tra la tv commerciale, quella pubblica e i canali a pagamento. E in una situazione di questo tipo, non serve avere tante risorse autorali e non è più così indispensabile il talento. Un’opportunità mancata.

Il Web ha liberato molte energie. Esistono i formati web-nativi come le serie appositamente create per quel canale, che non si sono definitivamente affermate ma riscuotono un certo successo. Ritiene che la Rete metta a disposizione degli autori una gamma di soluzioni talmente ampia da creare opportunità interessanti a chi si avvicina alla scrittura di prodotti audiovisivi sul Web e anche sui canali televisivi?

In Rete esiste tutto quello che serve ma bisogna sapere cosa scegliere e come farlo funzionare, altrimenti ogni sforzo è inutile. La fruizione del Web in Italia è aumentata quasi del 40%. Ma di questa enorme massa, più del 50% naviga in Rete per leggere giornali, più o meno il 30% per guardare video/film/radio in streaming e poco più del 20% per guardare programmi televisivi. Il pubblico è quasi interamente costituito da fruitori giovani e “passivi”. Solo il 30% del popolo che naviga in Rete pubblica contenuti di propria creazione (come testi, fotografie, musica, video, software, ecc.) ma lo fa in maniera amatoriale e quasi esclusivamente per arricchire i profili social. Da noi non si può ancora parlare di un’industria creativa per il Web. Quello che mi pare accada di frequente è il tentativo di portare prodotti per il Web in tv, e con scarsissimo successo.

Nel settore del copyright, i diritti degli autori di prosa e radiotelevisivi non suscitano interesse sufficiente. Per gli scrittori, autori e case editrici concludono contratti diretti saltando a piè pari le funzioni di intermediazione delle società collettive di gestione come la SIAE. Per gli autori radiotelevisivi è molto dura ricevere adeguata rappresentanza nella stessa SIAE che è concentrata a incassare le risorse derivanti dal mercato musicale, enormemente maggiori rispetto a ogni altro settore amministrato dalla stessa SIAE. Vi è una debolezza insita nel sistema della riscossione dei diritti d’autore e, se così ritiene, come può superarsi questa impasse?

La questione della tutela del diritto d’autore, in Italia, è molto complessa e lontana da una felice e immediata risoluzione. Circa l’80% dei proventi sul diritto d’autore deriva dalla musica, ed è facile immaginare su quale delle tre sezioni (DEM, DOR e OLAF) sia concentrata l’attenzione della Siae, degli addetti ai lavori e persino della politica. Da tempo mi batto perché il diritto d’autore venga riconosciuto. In ambito televisivo succede spesso che editori, anche del calibro di Sky o LAa7, non paghino i diritti Siae come previsto dalla legge. E’ necessario che intervenga la politica, come accade negli altri Paesi europei e negli Stati Uniti, inserendo la questione tra le urgenze dell’agenda di governo.

Ho analizzato il sito Web della SIAE alla voce “Sezione DOR” e ho trovato informazioni non sempre semplici da comprendere. Può, sostituendosi per un attimo alla SIAE, spiegare cosa è la DOR e perché un autore radiotelevisivo dovrebbe iscriversi a tale sezione della SIAE?

La legge sul diritto d’autore prevede che le opere inedite, da quelle letterarie a quelle musicali, visive e artististiche in genere, siano tutelate e che l’utilizzazione e lo sfruttamento delle stesse debba sottostare a precise regole. La Siae è l’ente italiano preposto alla tutela di questo diritto e la DOR è, nello specifico, la sezione che si occupa della gestione dei diritti di opere radio-televisive, teatrali, di danza, visive, grafiche e fotografiche. Funge da organo di controllo per monitorare l’utilizzo da parte di terzi di opere originali depositate, e per riscuoterne (per conto dell’autore) il diritto. Gli autori hanno il dovere di tutelare le proprie opere legittimando, così, una professionalità e un talento messo troppo spesso in discussione.

Immagino che la SIAE e le maggiori emittenti radiotelevisive abbiano degli accordi per la rilevazione relativa alla trasmissione di un certo format e la ripartizione dei diritti agli autori. Il sistema funziona ed è aggiornato?

Esistono degli accordi tra la Siae e gli editori che, a mio parere, andrebbero aggiornati. Le regole per le ripartizioni dei proventi sui diritti radiotelevisivi si riferiscono ad un modello televisivo vecchio, riconducibile a quello della tv in chiaro degli anni ’90. Da allora il sistema è stato stravolto e i palinsesti sono molto più articolati. Uno stesso programma su un canale satellitare può andare in onda centinaia di volte dopo la prima emissione, e un editore piccolo non può avere la forza di sostenere costi della Siae troppo alti. Un assist, questo, per le reti televisive già propense ad ignorare la legge sul diritto d’autore.

Può lasciarci con un suggerimento che voglia esprimere per migliorare il settore di cui lei si occupa professionalmente?

Personalmente mi preoccupano soprattutto due questioni. La prima è la mancanza di coalizione della categoria: gli autori italiani sono inclini a lavorare come battitori liberi e a prediligere l’anarchia piuttosto che schierarsi, aderire a progetti collettivi e far valere le regole generali. Da questo punto di vista ritengo che la realtà che ho creato sia una piccolissima oasi felice, che funziona bene anche perché cerchiamo di muoverci “in gruppo”. La seconda è il narcisismo da social. Il rischio è di ricalcare l’errore di certi giornalisti che, per pavoneggiarsi col mondo, bruciano le notizie, non rispettano le regole, l’etica, la privacy, finendo per danneggiare l’industria della carta stampata. Gli autori bulimici, quelli social-dipendenti affamati di consensi, quelli “convinti segretamente di essere letti da Dio”, dovrebbero pensare che così facendo sviliscono la propria professionalità, togliendo qualsiasi dubbio sull’autenticità del proprio talento.

 

Questo articolo è stato pubblicato, a mia firma, il 21 ottobre 2016 anche sul mio blog per l’Espresso dal nome “Impronte Digitali” http://improntedigitali.blogautore.espresso.repubblica.it

Inserito il:22/10/2016 11:05:32
Ultimo aggiornamento:22/10/2016 11:10:41
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