Fiat Factory, Turin, Italy A Powerful, by Mary Evans Library (1917)
Erano tutti protervi gli industriali? Il caso FIAT
Il Welfare aziendale in chiave storica (3)
di Tito Giraudo
Avrei voluto rispondere all’articolo della mia compagna di merende Mara Antonaccio (stiamo organizzando insieme una giornata sul cibo) L'evoluzione del welfare aziendale - Nutrizione e lavoro. Pensandoci bene, ho valutato che l’argomento che Mara ha sollevato, meritasse un approfondimento dal punto di vista storico, poiché il fenomeno ha origini lontane.
Parlare della Fiat, dopo aver raccontato la mia Olivetti non è facile, soprattutto per chi come me ama la ricostruzione storica corretta e scevra da ideologie.
A sinistra, in questi ultimi anni si è anteposto l’umanesimo industriale della Olivetti, con il produttivismo Fiat, dimenticando di essere stati i primi odiatori del pensiero olivettiano.
Più penso alle ipocrisie sinistre e più fatico a non rallegrarmi della crisi in cui è immersa da quando è nata. Anche se il nuovo che avanza mi sembra sempre più echeggiare la peggiore sinistra e devo dire sull’altro campo: la peggiore destra.
Detto questo a scopo liberatorio, posso cercare di parlarvi del Welfare in Fiat. Prendendola alla lontana come è mio costume.
Parlare di Fiat, senza spiegare la personalità del suo fondatore: Giovanni Agnelli, sarebbe incompleto e tutto sommato fuorviante.
La Fiat, come non molti sanno, nacque in un bar del centro di Torino.
Alcuni nobiluomini e borghesi, appassionati di quella nuova invenzione che fu l’automobile, tra un “bicerin” e un vino chinato, fondarono la Fabbrica Italiana Automobili Torino con sede in Corso Dante, proprio al termine di quello che allora era l’unico grande parco cittadino: il Valentino.
Come Agnelli sia diventato il Deus ex machina della fabbrica non è molto chiaro; certo approfitterà del suo ruolo di Segretario del Consiglio di amministrazione. Non era certo il socio di maggioranza ma sta di fatto che dopo pochi anni, sarà il padrone indiscusso, creando la dinastia degli Agnelli.
Fu ufficiale di cavalleria in quel di Pinerolo, lui che proveniva dalla vicina Villar Perosa. Un borghese insomma.
Come tutti gli industriali e forse più di tanti altri, approfitterà del primo conflitto mondiale facendo crescere la fabbrica che non produrrà solo automobili o autocarri ma aerei, motori marini e ogni genere di armi. Con quei proventi, da grande estimatore del Fordismo realizzerà il “Lingotto”, una fabbrica moderna che per prima in Italia adotterà il lavoro parzializzato e le catene di montaggio, e se poi si metterà nelle tasche anche molti quattrini, cari poeti del politicamente corretto, non mi scandalizza per nulla.
Fatto questo breve quadro biografico del personaggio, cerchiamo di capirlo umanamente e politicamente, al di là dei cliché post resistenziali.
Agnelli non fu mai un imprenditore reazionario. Era un liberale giolittiano, quindi di stampo riformista. In fabbrica era per l’ordine e la dedizione al lavoro, ma i suoi operai furono trattati e rispettati molto di più di quelli della maggioranza delle aziende dell’epoca.
Nel dopo guerra, come altri, subì il trauma del biennio rosso che iniziò proprio in Fiat con lo sciopero delle lancette e poi con l’occupazione della fabbrica, anzi, delle fabbriche.
Siamo in pieno massimalismo socialista, alcuni giovani di fresca laurea in facoltà umanistiche che si chiamavano Gramsci, Togliatti, Terracini e altri, fondarono il giornale: “L’ordine Nuovo” e attorno ad esso concepirono un’ideologia marxista rivoluzionaria che si ispirava soprattutto alla Rivoluzione d’Ottobre e al leninismo.
In quei due anni di passione accadde di tutto e di più. Quei ragazzi erano convinti di fare la rivoluzione con gli operai, senza rendersi conto che maneggiavano una minoranza in un Paese a stragrande maggioranza contadino.
Naturalmente fu in Corso Dante che si verificarono gli episodi salienti. Gli occupanti avevano trovato armi e persino un cannoncino e quindi occuparono militarmente lo stabilimento, cercando persino di continuare a produrre le automobili. La solita Utopia sinistra.
Agnelli nel frangente ebbe atteggiamenti altalenanti. Dapprima si recò da Giolitti in vacanza a Bardonecchia perché sgombrasse con la forza lo stabilimento, ma questi, la cui filosofia sindacale era quella di prendere tempo e lasciare che subentrasse la stanchezza, gli rispose a muso duro che avrebbe fatto cannoneggiare quella fabbrica, cosa che convinse Agnelli a desistere.
Verso la fine dell’occupazione ebbe un cedimento inverso, vagheggiando la costituzione di una cooperativa con i lavoratori.
Ebbe ragione Giolitti, subentrò la stanchezza e la vertenza e l’occupazione si conclusero con un pugno di mosche.
I danni politici furono però incalcolabili, gli industriali che non erano certo i più reazionari, lo diventarono e quindi, il biennio aprì le porte alla “rivoluzione fascista”, non proprio quello che si proponevano gli Ordinovisti, gli stessi che poi parteciparono alla fondazione del Partito Comunista.
Se non si raccontano queste cose, è impossibile capire la complessa personalità del futuro Senatore del Regno che è stato accusato di essere stato un fascista.
Certo, Agnelli non fu antifascista ma definirlo fascista è storicamente inesatto.
Considerò l’avvento del Fascismo il male minore, tuttavia non ebbe un rapporto idilliaco con questo. Considerava l’uomo forte torinese: il quadrunviro De Vecchi, alla stregua di un imbecille e con lo stesso Mussolini ci fu un lungo braccio di ferro. Certo, seppe sfruttare ogni occasione, anche politica per sviluppare la sua creatura.
Il Welfare Fiat, iniziò negli anni 20 e si innestò in quella riforma del mondo del Lavoro che va sotto il nome di Corporativismo.
Fu il tentativo di porre lo Stato al di sopra delle vertenze del lavoro, impedendo di fatto quegli scioperi il cui abuso aveva generato proprio il fenomeno fascista.
Dire che il corporativismo e la carta del lavoro piacessero agli industriali è un falso, poiché in gran parte lo subirono anche loro come i lavoratori. I Fascisti, anche lo squadrismo, provenivano in gran parte dalle sinistre e quindi, non c’erano atteggiamenti particolarmente filo industriali. Il corporativismo fu il tentativo compromissorio di salvare capra e cavoli, naturalmente man mano che il Fascismo perdeva le sue connotazioni originarie le capre presero il sopravvento sui cavoli.
Bene, Agnelli fu un genio a districarsi in questo contesto. Un esempio sarà proprio il welfare Fiat che realizzò anche con l’aiuto dello Stato.
Al 1921, infatti, risale la cassa mutua impiegati FIAT, al 1923 la cassa mutua operai (le due casse sarebbero state fuse nel 1945 nella MALF, la Mutua aziendale lavoratori Fiat); nel 1924 arrivò la prima colonia per i figli dei dipendenti, a Challant St. Victoire, seguita nel 1925 dalla colonia marina di Finale Ligure e da quella Montana di Pomaretto; nel 1925 fu creato il dopolavoro aziendale, che nel 1928 ebbe la nuova sede sulla riva destra del Po, tra i ponti della Gran Madre e di Corso Vittorio. Nel 1933 fu inaugurata la torre della colonia di Marina di Massa, mentre risale al 1937 la colonia di Ulzio; alle colonie per i figli si aggiungevano i vari centri di vacanza per i dipendenti adulti e le famiglie, da Riccione ai Piani di Luzza in Cadore (da “I Servizi Sociali Aziendali” Stefano Musso)
Appare evidente che la portata riformista di tutto ciò fosse notevole e come le accuse di bieco paternalismo inadatte alla comprensione del fenomeno. Fenomeno che proseguirà con la Direzione Valletta.
Se vi leggete i miei ultimi pezzi di critica sindacale: “Un po' di Storia, per capire la crisi del sindacato 1-2-3”. Spiego come Vittorio Valletta, succeduto ad Agnelli fin dal periodo della guerra, abbia rischiato il posto e forse anche la pelle. Che poi abbia reagito da par suo, essendo un duro, e quindi eliminò ogni sacca di sindacalismo di sinistra, è un fatto. Fatto che compensò però con il grande sviluppo della fabbrica e il potenziamento dei Servizi Sociali.
Sono gli anni del boom economico che la politica del nostro Paese affrontò con la solita inefficienza e imprevidenza. Milioni di contadini poveri del sud, emigrarono al Nord provocando più o meno gli stessi conati razzistici oggi vellicati da Salvini.
Torino, ne fu addirittura sconvolta. Era una media città di 500.000 abitanti e in pochi anni diventò una metropoli di oltre 1.000.000 di abitanti, dove i problemi furono di gran lunga superiori a quelli dell’immigrazione odierna. La lega Nord nacque sulla scia di quei traumi.
Dare la colpa di ciò alla Fiat che naturalmente necessitava di mano d’opera, fa parte del bagaglio anti industriale.
La Fiat, arriverà a superare a Torino i 200.000 dipendenti. Anche la Olivetti passò da qualche migliaio a oltre 25.000 in una città come Ivrea che ne faceva sì e no 20.000 di suo. Quindi niente demagogia.
Il lavoro c’era e vivaddio andava fatto! Tenuto conto che oggi rimpiangiamo quei tempi e proprio da parte di chi li ha criminalizzati.
Valletta, dovendo compensare la pax sindacale ottenuta con la violenza, potenziò ulteriormente i servizi sociali che ormai riguardavano una fetta notevole della popolazione torinese.
La Malf, il servizio mutualistico, fu di prim’ordine. Prima del piano di edilizia popolare dello Stato con i quartieri monstre d’ispirazione sovietica, Valletta fece costruire in diverse parti della città gruppi di case per i lavoratori, dimostrando maggior discernimento e buon gusto degli architetti social comunisti che andavano per la maggiore. Poi ci furono le colonie che ormai ospitavano in estate migliaia e migliaia di figli di dipendenti, che dire poi dei Centri Sportivi e ricreativi disseminati per tutta la città.
Non era democratico questo Welfare Fiat? Chi se ne frega. Con questa affermazione tranchant (come mio solito), consentitemi di fare qualche breve considerazione.
I tre casi da me presi in esame dimostrano ampiamente come l’industria dell’altro secolo sia stata il più delle volte provvida verso i lavoratori. L’ha potuto fare per un insieme di condizioni.
1) Le sue dimensioni. Le produzioni di grandi serie consentirono grandi utili che furono reinvestiti anche in servizi sociali. Dire oggi: “piccolo è bello”, è un’idiozia da un punto di vista della ricerca tecnologica e delle capacità concorrenziali. Il guaio è che il nostro attuale sistema industriale soffre di “lillipuzianesimo”.
La sciagura poi è che alcuni ne vanno fieri.
2) Un capitalismo industriale che pur non raggiungendo i livelli di umanesimo dei Leumann o degli Olivetti credeva in quello che faceva e nella funzione sociale.
E in ultimo, dei Governi che seppero anche contemperare il pubblico con il privato, non in competizione ma in collaborazione fattiva. Non è sempre stato così, ma questo è l’auspicio che mi sento di fare per il domani.