L'emergenza e il lavoro.
L'Italia è una repubblica democratica fondata sull'emergenza.
La sopravvivenza è un problema del popolo, che lo affronta nei limiti e nelle forme suggerite dalla fantasia di ciascuno.
No, non si tratta del nuovo testo dell'articolo 1 della nostra Carta Costituzionale. Non siamo ancora arrivati a tanto.
Semplicemente, complice forse l'inclemenza di un autunno diventato debordante ad ogni scroscio d'acqua, l'idea di vivere in una condizione di allarme permanente è qualcosa di più che una suggestione instillata dai media, dagli esperti della comunicazione o amplificatasi nel dialogo tra le persone comuni.
Al punto tale che non è propriamente un azzardo raffigurare il paese come fondato e legittimato, tenuto insieme, dall'emergenza, più che dal lavoro.
Eppure, io penso che questi due concetti possano andare insieme non solo se giustapposti a definire una delle tante priorità da prendere di petto - la situazione del lavoro- quanto per il fatto che è proprio il lavoro, in tutte le sue forme, a poter emergere e uscire dal pantano delle emergenze.
Riflettiamo.
Il nostro paese vive problematiche ataviche, strutturali, alcune addirittura congenite se non preesistenti al proprio cammino democratico e repubblicano.
- Un'annosa emergenza del sistema legislativo, esecutivo, giudiziario e carcerario: si pensi alla separazione dei poteri vanificata dall'istituto del decreto legge (che nasce, ironia della sorte, per fronteggiare questioni di emergenza e che rimane invece lo strumento, insieme al voto di fiducia, con il quale il governo avoca a sé la formazione di norme, svuotando il Parlamento della propria funzione fondamentale);
si consideri la situazione del sovraffollamento carcerario cui si risponde, storicamente, con provvedimenti di indulto generalizzato, con soluzioni svuota carceri che non risolvono alla radice il problema;
si valuti, ancor prima, l'annoso problema della durata dei processi e dei procedimenti, particolarmente in ambito civilistico, vera cancrena del sistema;
si rifletta, anche solo un momento, su quale mole di lavoro vi sarebbe e vi è da svolgere per informatizzare e digitalizzare milioni di informazioni, di dati, di sentenze, che giacciono in faldoni abbandonati in luoghi insicuri, trascurati o peggio - come è emerso da alcuni reportage di approfondimento- alla mercé di qualunque curioso o malintenzionato.
- Una grave emergenza del nostro sistema educativo, dell'Università, della formazione professionale, dell'edilizia scolastica: una vera e propria piaga purulenta. Riforme che senza alcun nesso o consequenzialità l'una con le altre, hanno smembrato il mondo dell'istruzione, sin dalla scuola dell'obbligo.
Un mondo della ricerca frustrato e ridotto all'impotenza, privo di finanziamenti, privato di strutture e di adeguati riconoscimenti. Giovani capaci, competenti, ambiziosi, costretti a cercare al di là dei confini della patria l'ambito nel quale crescere e confrontarsi, non tanto per lo stimolo vitale e fecondo ad ampliare il proprio orizzonte di riferimento, quanto per la necessità di trovare una possibilità, un inizio.
Degli edifici verrebbe da non parlare: ma non si possono tralasciare le magagne delle aule scolastiche sia in riferimento alla loro carenza numerica (lezioni universitarie svolte presso cinema e teatri, sale sovraffollate con studenti accovacciati per terra, inesistenza di laboratori) sia in relazione ai requisiti di sicurezza, alle opere di bonifica troppo spesso rimandate del tempo ed invocate a gran voce solo quando la sciagura di una morte innocente accende il riflettore dell'opinione pubblica sul problema.
- Una drammatica emergenza culturale e sociale: trovo assai singolare come, nel decennio in cui la politica ha scoperto, inflazionandolo, l'uso dell'espressione "coesione sociale", la società italiana viva forse uno dei vertici della propria disgregazione, della propria anomia e della propria afasia. Incapacità di parlarsi, di comunicare, di raccontarsi. Probabilmente, per uno smarrimento di identità che ha come diretta conseguenza il non riconoscere se stessi prima ancora che gli altri.
Certo, il fenomeno è di ordine mondiale, è stato ampiamente trattato, esiste tutta una produzione scientifica e letteraria che grazie ai teorici dei "non luoghi" , agli esperti della "società liquida", ai fautori e sostenitori della "decrescita" ha sviscerato molti aspetti del nostro vivere odierno. Come nazione, come popolo, come paese, come istituzioni, abbiamo però il dovere di riflettere , per limitarci a quanto la più stretta attualità ci suggerisce, circa il fatto che troppe periferie di troppe città e cittadine italiane sono rimaste le medesime dei primi anni '50 e '60. Un brulicare di case, di palazzoni, e poco altro. E che sulle periferie, inesorabilmente, gravi il peso dei nuovi fenomeni sociali, come l'immigrazione incontrollata che, in concomitanza con una situazione di stagnazione e di declino, diventa il detonatore di scontri, incomprensioni, ribellioni, odio reciproco. Una guerra tra poveri che non giova a nessuno, uno Stato che sul tema dell'immigrazione non ha mai preso una posizione vera, robusta, capace di scalfire la superficie di un provvedimento di facciata come il "mare nostrum", preferendo barricarsi al di qua della trincea dell'emergenza immigrazione. Un'emergenza che dura da almeno 25 anni. Troppi, per non ritenere - a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si indovina, insegnava qualcuno - che questa "tragedia" abbia padri con nomi cognomi e interessi piuttosto precisi.
- Una folle, incomprensibile, suicida, pirandelliana emergenza legata al territorio e all'ambiente. Quanti fiumi di inchiostro sono stati versati a proposito della bellezza del nostro territorio, del fascino irresistibile delle nostre coste e dei nostri paesaggi, dei nostri monti, del nostro clima, a proposito di noi, dell'Italia? Sicuramente tanti.
Eppure, non c'è alluvione, terremoto, esondazione di fiumiciattolo o di torrente, non v'è frana o smottamento, crollo di edificio pericolante che non riattivi ad ogni episodio il rosario doloroso delle mille inadempienze, del tardivo stanziamento di fondi, dello stucchevole e spregevole rimpallo di responsabilità, dei tempi biblici necessari per riunire intorno ad un tavolo tutti i portatori di interesse e i decisori, del denaro pubblico mancante o che invece, quando c'è, viene speso male o addirittura inutilizzato per decorrenza dei termini, incuria, e per mille altri futili motivi. Possiamo inoltre ascrivere a questo triste capitolo, al paragrafo "dilapidazione del proprio patrimonio", tutto ciò che concorre alla mancata valorizzazione in sede internazionale ed europea in prima istanza, della propria straordinaria specificità: la mancata tutela del "made in Italy" con riferimento al settore enogastronomico, per fermarci ad uno degli aspetti più eclatanti.
- Una devastante emergenza legata alla viabilità e al sistema dei trasporti: esistono vincoli insormontabili legati a questioni morfologiche, ma intere zone di troppe regioni sono tagliate fuori dalle principali arterie stradali. La soppressione di intere linee ferroviarie unito ad un sistema sostitutivo non adeguatamente concepito e coordinato, rende problematica e sofferente la mobilità dei cittadini e dei lavoratori e costituisce un elemento a sfavore del turismo, che beneficerebbe al contrario di un potenziamento della rete viaria, ferroviaria, aeroportuale.
L'elenco è ben lungi dall'essere esaustivo. Cosa dire per esempio della sanità, che andrebbe ripensata in termini di presenza e di radicamento a più livelli sul territorio, così da sgravare i presidi ospedalieri da incombenze che paralizzano le attività del personale medico e paramedico? Se i nostri "pronto soccorso" sono congestionati da richieste per prestazioni classificabili come codici bianchi o verdi, non è forse il caso di rivedere l'organizzazione e l'assetto complessivo in termini di erogazione del servizio?
Perché dunque, questo piccolo libro delle lamentazioni?
Per una convinzione intima e radicata. Confido non sia errata.
Prima ancora che un mondo nuovo del lavoro, prima ancora dell'avvento di nuove professioni, c'è probabilmente bisogno di guardare con occhi nuovi al mondo del lavoro che già c'è e che abbiamo sotto gli occhi. Politici, infermieri, docenti, studenti, ricercatori, muratori, operai, viticoltori, magistrati, avvocati. C'è bisogno che ciascuno faccia bene il proprio mestiere, con dedizione, professionalità, passione, gioia, convinzione e competenza. Sono questi gli ingredienti che ci possono consentire di affrontare le mille emergenze. C'è un'enormità di lavoro da svolgere, per porre rimedio ad omissioni e brutture, e per progettare molta dell'Italia che verrà.
E il jobs act? E l'articolo 18? E il rapporto tra le organizzazioni sindacali ed il mondo datoriale?
Sono temi che affronteremo nel prossimo approfondimento, senza pregiudizi e confini ideologici.