Aggiornato al 22/12/2024

Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo

Voltaire

Christopher Vidal (born in Malta - Baulkham Hills, New S. Wales, Australia) - Sydney Harbour

 

Immigrazione e integrazione

Luci e ombre del modello di ricezione australiano

di Paola Tinè

 

Il presente lavoro, originariamente presentato alla conferenza internazionaleLa sfida migratoria in Europa e negli Usa: politiche e modelli d’accoglienza a confronto’ (Agrigento, 8-9 Giugno 2017) è una versione riadattata e tradotta dell’articolo Cultural interaction and integration in the context of immigration: the case study of the Nepali-speaking Bhutanese in Adelaide’, Journal of Identity and Migration Studies-JIMS, vol. 11, no.2, pp. 23-33. L’articolo originale puo’ essere consultato al link: http://www.emigration.ro/jims/Vol11_No2_2017/JIMS_Vol11_No2_2017_pp23_33_TINE.pdf.

 

Introduzione

Uno degli elementi più eclatanti quando si considera l'integrazione come un problema sociale, è la costruzione dell'identità dei rifugiati nel paese ospitante, un processo retorico spesso rinforzato dai media locali con stereotipi a sostegno di posizione xenofobiche. Invece, una costruzione più positiva dell'identità sociale e culturale dei rifugiati può rappresentare un elemento cruciale per politiche di integrazione significative. Userò a tal proposito un caso di studio tratto dalla mia ricerca sul campo condotta lo scorso anno nel sobborgo di Salisbury nella città di Adelaide (Australia meridionale) tra i rifugiati bhutanesi di lingua nepalese, mostrando in questo modo l’esempio positivo di ricezione dello stato australiano, senza pero’ con questo negare la brutalita’ di un’altra sfumatura del sistema di ‘non accoglienza’. Cercherò quindi di spiegare da una prospettiva antropologica perché l’esperienza integrativa dei ‘Nepali-speaking Bhutanese’ si sia dimostrata così efficace.

 

Le politiche di immigrazione in Australia

Il Programma Umanitario per i Rifugiati e il Programma di Migrazione, rappresentano i principali pilastri del sistema di regolamentazione dell'immigrazione in Australia. In termini numerici, il programma di migrazione costituisce la componente più importante del sistema. Nell'ambito di questo programma, nel periodo 2013-2014, lo stato australiano ha conferito 190.000 visti, di cui circa due terzi destinati a migranti qualificati e il restante terzo ai familiari in entrata (OCSE 2015, pp. 184-5). Inoltre, ogni anno il governo designa un certo numero di visti che possono essere concessi nell'ambito del programma umanitario. Nel periodo 2013-2014, l'Australia ha assegnato 13.768 di questi visti con 6.501 per il reinsediamento dei rifugiati (Karlsen 2016, p.8). Va notato che il reinsediamento dei rifugiati costituisce solo il 3,4% della migrazione totale. Dall'istituzione del Dipartimento dell'immigrazione nel 1945, oltre 7,5 milioni di persone sono emigrate in Australia. Tra queste persone, oltre 800.000 sono arrivati ​​all’interno del programma umanitario come rifugiati (AGDIBP n.d.). È interessante notare che nel 2016 il 28,5% della popolazione australiana risulta nata all'estero (ABS 2017).

L'Australia è uno dei 37 paesi che lavorano a stretto contatto con il Consiglio dei rifugiati delle Nazioni Unite (UNHCR), offrendo il reinsediamento di rifugiati dai campi profughi. L'Australia è classificata tra i primi tre paesi che offrono reinsediamento insieme a Stati Uniti e Canada (UNHCR, 2016, p.26). Tuttavia, nonostante l'Australia sia così aperta alla collaborazione con l'UNHCR in relazione a programmi strutturati di reinsediamento dei rifugiati, le politiche relative a quelle persone che arrivano "illegalmente" via mare, dette "boat people" è fortemente criticato dall'opinione pubblica internazionale per il "regime di detenzione inumano in cui i detenuti, compresi i bambini, sono detenuti da due a sette anni" (Carr 2016, 239). La controversa nascita di campi di detenzione off-shore sulle isole di Nauru e Papua Nuova Guinea nel 2001 è stata istigata dall'allora Primo Ministro John Howard durante la sua campagna elettorale per combattere la minaccia percepita dai "boat people" (Smit 2009, pp. 208 -9). Questo trattamento dei richiedenti asilo è in contrasto con l'articolo 31 della Convenzione sui rifugiati, di cui l'Australia è firmataria, il quale afferma che i rifugiati non dovrebbero essere penalizzati per entrare illegalmente in un paese se cercano asilo (UNGA 1951).

 

Politiche di integrazione in Australia

Ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione sui rifugiati del 1951,

Gli Stati contraenti, per quanto possibile, facilitano l'assimilazione e la naturalizzazione dei rifugiati. In particolare, si adoperano per accelerare i procedimenti di naturalizzazione e ridurre, per quanto possibile, le spese e i costi di tali procedimenti (UNGA 1951).

In termini di rispetto dell'identità culturale e sociale dei rifugiati, tuttavia, gli stati sono in gran parte lasciati liberi di perseguire i propri interessi e le proprie politiche. Alcuni paesi, come l'Australia, adottano un approccio multiculturale che consente ai vari gruppi etnici di mantenere la loro diversità culturale pur interagendo pienamente su più livelli con la collettività all'interno del più ampio sistema sociale.

L'Indice della Politica di Integrazione dei migranti fornisce una panoramica generale su come i diversi paesi gestiscano l'integrazione attraverso i diversi sistemi politici. In tale indice vengono presi in considerazione i seguenti otto settori: mobilità del mercato del lavoro, istruzione dei bambini, partecipazione politica, ricongiungimento familiare, accesso alla nazionalità, salute, residenza permanente e antidiscriminazione. Nel complesso, l'Australia si posiziona al numero 8 con un punteggio di 66 su un massimo di 100 nel 2014 (MIPEX 2015, p.3), laddove i paesi dell'Unione europea hanno un punteggio medio di 60.

L'integrazione sociale è un fattore che viene spesso trascurato nelle politiche statali rispetto al tema di reinsediamento. Tuttavia, il problema del benessere dei migranti assume tratti particolarmente importanti e urgenti nella fase successiva al superamento dello stato di crisi relativo alla fame, la sete e la sicurezza (Kim, Ehrich e Ficorilli 2012). Il governo australiano offre numerose attività e programmi socio-culturali alle persone appena reinsediate. All'arrivo, un responsabile di servizi di insediamento umanitario (HSS) fornisce servizi di base per conto del governo australiano con l'obiettivo di aiutare i nuovi arrivati a iniziare la loro nuova vita. Ciò include l'assistenza nella ricerca di alloggi a lungo termine e istruzioni su come accedere a servizi statali quali assistenza sanitaria, accesso all’istruzione, assistenza sociale e servizi linguistici. L'assistenza dura in genere tra sei mesi e un anno, ma viene in ogni caso prolungata fino a quando le persone appena arrivate hanno acquisito competenze nell'accedere ai servizi generali, come affittare proprietà, utilizzare il sistema di trasporto, comprendere la legge australiana, trovare lavoro e accedere all'istruzione. Inoltre, altri servizi finanziati dal governo comprendono servizi di traduzione e interpretariato che vengono forniti 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana e trauma counseling.

L'assistenza fornita dal governo australiano può essere vista come un tipo di investimento sociale. Oltre a ridurre al minimo le interruzioni ad altri cittadini e servizi, i rifugiati stessi forniscono importanti contributi economici, civili e sociali alla società australiana dopo il reinsediamento (AGDIC 2011, 55). In particolare, le persone provenienti da contesti di rifugiati hanno dimostrato di possedere qualità imprenditoriali, tendendo a impegnarsi in piccole e medie imprese. Inoltre, molti operatori umanitari mantengono legami economici con il loro paese di origine, offrendo in tal modo uno sviluppo monetario al loro paese d'origine, che può ridurre alcune delle cause di sfollamento, ma può anche avere l'effetto di aumentare gli scambi e rafforzare l'economia australiana (AGDIC 2011, pp. 40-1). Inoltre, attraverso il lavoro volontario, la partecipazione a progetti comunitari e l'impegno con le istituzioni locali, i rifugiati sono diventati attori fondamentali e positivi in ​​una vivace società multiculturale.

 

La storia dell'esilio, della migrazione e del reinsediamento dei rifugiati butanesi di lingua nepalese

I butanesi di lingua nepalese, o Lhotshampa, discendono da migranti nepalesi che si stabilirono nel sud del Butan alla fine del 1890. Dopo un periodo di convivenza pacifica, a partire dal 1988 furono culturalmente repressi e costretti ad adottare la lingua e i costumi butanesi, con l’alternativa di essere espulsi forzatamente dal paese (Hutt, 2003). Oltre 100.000 nepalesi sono quindi stati costretti a cercare rifugio in Nepal e nel 1992, l'UNHCR ha istituito i primi campi profughi nel Nepal orientale (IOM 2008).

Dal 2007, con l'aiuto dell'UNHCR e dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), i butanesi di lingua nepalese hanno iniziato il reinsediamento in otto paesi ospitanti. Dall'inizio di questa iniziativa, l'UNHCR ha trasferito oltre 100.000 rifugiati, la maggior parte dei quali si è trasferita negli Stati Uniti (Shrestha 2015). Ad Adelaide, la comunità butanese di Salisbury, che parla nepalese, è ora una comunità compatta e socialmente attiva. Nel complesso, i risultati della nostra ricerca hanno dimostrato che il loro processo di integrazione nella società australiana ha avuto successo.

 

Il valore aggiunto: identità sociale e diversità culturale (ONG e BAASA)

Attraverso la valorizzazione dei rifugiati come “sopravvissuti”, l’approccio politico di accoglienza mira in Australia a renderli parte attiva della società australiana (AGDIC 2011). È importante notare qui che l'Australia è un paese multiculturale con politiche multiculturali. Ciò significa che le pratiche integrative non spingono verso un’ assimilazione culturale forzata. L'approccio multiculturale del governo australiano ha permesso alla comunità butanese di formare l'Associazione Australiana Bhutanese dell'Australia Meridionale (BAASA). Questa organizzazione è gestita da membri eletti della comunità butanese di lingua Nepalese, i quali collaborano con il governo locale. Le seguenti sono alcune delle principali attività da loro organizzate:

• La scuola etnica butanese: organizzata per insegnare ai bambini nepalesi australiani come leggere e scrivere la lingua nepalese e alcuni altri elementi della loro cultura e tradizioni.

• Radio butanese di lingua nepalese, con base ad Adelaide.

• Il programma di sostegno sociale per anziani: nato con l'obiettivo specifico di "rendere felici le persone" e di spiegare le cose basilari, come ad esempio come attraversare la strada, capire il traffico e i consigli sulla nutrizione.

• Eventi culturali per promuovere la cultura nepalese, come il "Giorno del reinsediamento".

• Attività sportive per i giovani.

 

Dalla prospettiva dei rifugiati

I butanesi di lingua nepalese mostrano un grande apprezzamento per i certificati di cittadinanza recentemente ricevuti dal governo australiano e molti dicono che sono "orgogliosi di essere cittadini di questo grande paese" e "felici di vivere in un ambiente pacifico e pienamente soddisfatti della loro vita".

Aldilà di tale nuovo sentimento nazionale, glorificante lo stato australiano e riconoscente la nuova cittadinanza, l'identità culturale costituisce una questione più complicata.[1] Durante il movimento forzato dal Butan al Nepal, il portato culturale era tutto ciò che rimaneva alla comunità esiliata e come tale è stato protetto fieramente per decenni. Nel contesto del resettlement, i nuovi cittadini australiani sono consapevoli dell'importanza della loro cultura e lavorano duramente per preservarla attraverso le generazioni. Tra le persone che abbiamo intervistato all'interno della comunità, la maggioranza ha riferito di aver compiuto uno sforzo consapevole per preservare il proprio patrimonio culturale e ha espresso la volontà di trasmetterlo ai propri figli e nipoti. Un uomo intervistato ha spiegato che per assicurarsi che i suoi figli imparassero il nepalese, ha mentito loro per anni, dicendo che non sapeva parlare l’inglese e così a casa non potevano che parlare in nepalese. Egli racconta:

"Un giorno io e mio figlio eravamo al mercato e io stavo parlando in inglese con un amico filippino. In seguito, tornando a casa, mio ​​figlio mi ha chiesto: "perché mi hai detto che non sapevi parlare inglese?" Ho risposto: “ perché volevo che imparassi la nostra lingua. Questa è la lingua della nostra cultura, senza di essa non sai da dove vieni. Anche se impari l'inglese, se a casa parli nepalese, questo rende più facile se un giorno vuoi andare a visitare il Nepal ".

Da un’altra prospettiva, un altro uomo della comunità butanese intervistato ha sottolineato l'importanza di imparare l'inglese per vivere e integrarsi nel nuovo contesto:

Quando eravamo da poco ad Adelaide, mia moglie mi ha chiesto di andare al negozio Woolworths, ma non ho potuto comprare nulla perché non mi capivano, quindi sono tornato a mani vuote. Mi sentivo frustrato e inadeguato, quindi siamo andati entrambi a TAFE per imparare l'inglese.

 

Identità sociale e diversità culturale tra i bhutanesi di lingua nepalese: una prospettiva antropologica

Molti sociologi dimostrano che l'identità sociale degli immigrati costituisce un fattore vitale nello studio dei processi di interazione culturale (Verkuyten e Martinovic 2012, Mana, Orr & Mana 2009, Pfeifer et al., 2007; Phinney et al., 2001). Inoltre, recenti ricerche hanno aggiunto prove empiriche sull'ipotesi che "l'esclusione sociale incoraggia un'identità separata" (Collier 2013) mostrando che il livello di integrazione degli immigrati è strettamente legato al livello di fiducia offerto dal popolo ospitante (Herreros e Criado 2009).

Per elaborare una teoria dell'integrazione nel contesto dell'immigrazione, propongo qui la "teoria dell'integrazione sociale" di Peter Blau (1960) all'interno di un contesto multiculturale. Blau ha iniziato la sua discussione dalla teoria sociale di Émile Durkheim (2014 [1893]), che specula sul cambiamento sociale, l'integrazione sociale e la coscienza collettiva. Durkheim ha sostenuto che la divisione del lavoro non creerebbe necessariamente solidarietà sociale e che nel caso servisse una mediazione tra l'individuo e la società questa potrebbe essere garantita dallo stato. Espandendo questa teoria, Blau ha sottolineato il ruolo dell'accettazione e dell'attrazione come fattori trainanti per l'integrazione in un gruppo. Applicando questa teoria nel contesto del multiculturalismo, possiamo definire i confini dell'identità sociale e della diversità culturale entro cui si manifesta il dualismo dell'integrazione / segregazione. La teoria dell'integrazione sociale suggerisce che le persone in un gruppo si accettino a vicenda secondo un "meccanismo di scambio" (Homans 1958), in cui ogni attore ha qualcosa da dare all'altro in modo da migliorare il potenziale e le capacità del gruppo stesso. Nei contesti multiculturali, gli immigrati sono i nuovi elementi introdotti e, in quanto tali, saranno accettati se saranno presentati alla società come un'aggiunta positiva, portando conoscenza, esperienza e cultura. Ciò significa costruire l'identità sociale degli immigrati come individui desiderabili.

Il concetto di fiducia, elaborato da Herreros e Criado (2009), è utile qui per spiegare la relazione tra immigrati e stato. Offrendo ai rifugiati la fiducia e il rispetto che è accordato a ogni cittadino, i governi possono agire come la funzione coesiva che Durkheim propone nel suo modello sociale, come entità in grado di "promuovere l'interesse generale della società a un livello che la maggior parte dei cittadini possa comprendere e accettare "(Grabb 1990, p 88). È cruciale in tal senso che lo stato intervenga per creare politiche di integrazione più inclusiva, poiché "politiche di integrazione più inclusiva possono ridurre i sentimenti di minaccia del pubblico in generale e, forse, atteggiamenti anti-immigrati" (Callens 2015, p.11). Su questo punto l'Australia ha avuto successo.

L'Australia ha politiche in atto che consentono agli immigrati di costruire se stessi a modo loro e allo stesso tempo sentirsi utili per la società. Il governo australiano raggiunge questo obiettivo celebrando la diversità culturale, sponsorizzando eventi culturali aperti al pubblico e fornendo meccanismi per aiutarli a integrarsi pienamente nella società. Nel contesto australiano, l'identità sociale dell'immigrato "legale" è costruita attorno alla categoria di fiducia e rispetto.

In base a questo quadro antropologico, possiamo concludere che non è importante che le persone assimilino o mantengano la loro cultura, tuttavia è importante che queste persone cooperino nel contesto sociale ed economico del paese ricevente, sentendosi così parte della comunità. Avendo consapevolezza delle leggi del paese ospitante, essendo in possesso di un certificato di cittadinanza nazionale, ma allo stesso tempo avendo la libertà di esprimere la propria cultura, i migranti devono essere messi in condizione di mostrare impegno e partecipazione in ambito economico e sociale in modo tale da costruire una comunità coesa, efficiente e felice.

 

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Paola Tinè

The University of Adelaide, South Australia

patinetine@hotmail.it

 

 

[1] Sebbene tale tematica sia cogente, il focus di questo articolo verte su una prospettiva differente, ma pur sempre importante, relativa alla costruzione dell’identità dei neo-arrivati nel paese ospitante come punto di partenza per pratiche integrative effettive. Per una discussione più ampia sul tema dell’identità culturale della comunità butanese ad Adelaide, si veda l’articolo Tinè, P & Gray, J 2018, ‘Sensuous memories of home: food practices, rituals and cultural identity among the Nepali-speaking Bhutanese community in Adelaide'.

 

Inserito il:20/08/2018 21:23:42
Ultimo aggiornamento:20/08/2018 21:41:47
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